Translate

giovedì 19 dicembre 2024

CAPTUM

1594_CAPTUM . Ucraina 2015: Regia di Anatoliy Mateshko

Una caratteristica che rende comunque interessante un film, un testo, un documento, al di là della qualità o dell’utilità dello stesso, è il fatto che quest’opera scontenti tutte le parti chiamate in causa. Questa è un’iperbole, sia chiaro, tuttavia è innegabile che Captum di Anatoly Mateshko, anche solo per come è stato accolto, un po’ di curiosità la suscita. Il film, nonostante sia apparentemente astratto, sotto il profilo dell’ambientazione sembra raccontare una tipica storia che può succedere –e, purtroppo, le notizie dicono succeda con troppa frequenza– nell’ATO, la zona di antiterrorismo nell’est dell’Ucraina, dove, dal 2014, sono insorti i separatisti. La guerra, infatti, infuria nel Donbas tra i nazionalisti ucraini e i filorussi appoggiati da Mosca, e, a farne le spese, sono sempre i civili. Captum, come accennato, non fa riferimenti specifici, mostrando due uomini in uniforme che tengono reclusi una dozzina di individui in condizioni disumane, divertendosi a torturarli e ad eliminarli. I prigionieri vengono infatti rilasciati in un campo minato e i due carcerieri scommettono su chi riesca a sopravvivere più a lungo, prima di saltare inevitabilmente per aria calpestando un ordigno. La lingua parlata nel film è il russo, nonostante Captum sia una produzione ucraina; questo non sarebbe nemmeno troppo strano, il russo, da quelle parti, è una lingua diffusissima. Nel 2015, tuttavia, la cosa assume probabilmente un significato preciso: ovvero che, al netto della vaghezza voluta dagli autori, siamo nel Donbas con due separatisti che tengono segregati un militare nemico ferito gravemente (Fedir Hurinec) e alcuni civili, situazione raccontata troppo spesso dalle cronache. Eccole, quindi, le due fazioni che vengono scontentate in Captum: gli ucraini e i filorussi, se non proprio direttamente i russi, posto che ci sia una differenza. Secondo il sito Ukinform, il film è stato rifiutato al Film Festival di Mosca e al Kinotavr, la rassegna cinefila che si tiene a Sochi, sempre in Russia. [dal sito Ukinform, pagina web https://www.ukrinform.ua/rubric-culture/1960101-u-kogo-zbroa-toj-i-pravij-novij-film-anatolia-mateska.html, visitata l’ultima volta il 16 dicembre 2024]. D’altra parte, l’accoglienza in Ucraina non è stata troppo migliore, con recensioni per lo più negative e, almeno stando alle informazioni circolanti, scarso riscontro al botteghino. [Questo secondo la pagina ucraina di Wikipedia del film https://uk.wikipedia.org/wiki/Captum#cite_note-11, visitata l’ultima volta il 16 dicembre 2024 che riporta il link per il Box-Office del paese esteuropeo della settimana di uscita di Captum, pagina web https://web.archive.org/web/20160314000908/http://kino-teatr.ua/uk/main/box_article/article_id/256.phtml, visitata l’ultima volta il 16 dicembre 2024]. È, quindi, un film così brutto Captum? Non particolarmente; è invece una sorta di horror che si lascia guardare senza problemi, seppure ci siano scene violente. Chissà, sul momento, può dare l’impressione di non riuscire a mantenere le premesse che lascia intravvedere. Però talune critiche sono davvero eccessive, come quelle di Olena Rubashevska per KinoUkraina: “Indubbiamente, si ritiene che Mateshko abbia una scuola «Karpenko» [I. K. Karpenko-Karyi Università Nazionale di Teatro, Cinema e Televisione di Kiyv] nel senso peggiore. Non c’è un accenno di cinematografia: né nella costruzione della messa in scena, né nella sceneggiatura, né nella recitazione, tranne forse nell’ingiustificabile bianco e nero, che in qualche modo salva almeno il film”. [dal sito KinoUkraina, pagina web https://kinoukraine.com/antyukrayinskyj-polon-vid-tvortsya-rosijskogo-serialu/, visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024]. Come visto, Captum è un’opera che ha scontentato tanto gli uno e quanto gli altri, e questo è uno dei suoi potenziali titoli di merito, per quanto da approfondire. L’impostazione teatrale è evidente, tutto quanto il film è ambientato nello scalcinato edificio, una sorta di cascina rurale, in parte adibito a prigione e in parte a postazione per i due militari, situato in mezzo ad una desolata e deserta pianura innevata. Oltre all’unità di luogo, quella di tempo, il racconto si svolge in poche ore, aiuta a dare solidità ed efficacia al racconto. Il bianco e nero contrastato della fotografia accentua l’irrealtà della situazione; a questo punto, l’interpretazione degli attori non sembra affatto fuori luogo o troppo enfatizzata, tutt’altro. La Rubashevska, per altro, non è d’accordo “La scenografia, costruita in modo completamente teatrale, accoglie organicamente tra le braccia attori di teatro, per esempio, Ostap Stupka. Ma ciò che sembra organico in teatro a volte dà un effetto completamente opposto sul grande schermo: plasticità innaturali, gesti e suoni sono «migrati» dal palcoscenico allo schermo, creando una sorta di «effetto film muto»: gli attori recitavano allo stesso modo all’inizio del ‘900, avendo nel loro arsenale interpretativo principalmente solo la propria plasticità. [Ibidem]. Punti di vista, certamente, ma quello che è certo che lo scopo di Mateshko è di tenersi lontano da una rappresentazione realistica e, almeno su quello, si può essere d’accordo che vi sia riuscito. Tuttavia la didascalia biblica nel finale, il passaggio preso dal Vangelo secondo Matteo [Matteo 7,2: «perché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati; e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi»] nel quale si invita a non giudicare, lascia intendere che è previsto, dallo stesso autore, che il suo film venga interpretato come metafora. L’utilizzo del Vangelo come citazione rafforza l’impressione che il regista avesse mire assai significative e non costruire una sorta di falso snuff movie in cui mostrare un po’ di crudeltà gratuita. Lo stesso Matehsko dichiara in un’intervista che i personaggi protagonisti sono dodici come gli apostoli [dal sito Ukrayina Moloda, pagina web https://umoloda.kyiv.ua/number/2768/164/96663/, visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024] e, sempre a proposito di rimandi biblici, c’è anche la scena della «lavanda dei piedi», sebbene questi riferimenti sembrano rimanere un po’ sterili, senza offrire chiave di lettura specifica. Quello che pare mancare, a Captum, è anche uno sviluppo di un personaggio principale, qualcosa su cui riflettere in ottica costruttiva; a meno che lo scopo del film sia quello di affogare tutto in un pessimismo senza alcuna speranza. Ma è davvero così? Tra i personaggi che si alternano, con una buona scansione narrativa, si potrebbe pensare che i protagonisti siano i due rivali, il superiore tra i due militari (Vladimir Goryanskiy) e il prigioniero silenzioso. Il carceriere più giovane è, infatti, solo lo stereotipo del soldato violento e ignorante, senza spessore, né come individuo né come personaggio; la donna alla ricerca del figlio (Larysa Rusnak) è la classica madre disperata, ma non si limita all’amore materno, dal momento che quando vede il soldato prigioniero sfigurato e ferito gravemente che sembra essere in punto di morte, si prodiga lodevolmente per salvarlo col massaggio cardiaco. Forse, questo passaggio è meno banale e superfluo di quello che può apparire. Intanto, è clamoroso, oltre ad essere un altro punto a favore del film, che, ad aiutarla, sia il losco trafficante (Dmitry Surzhikov) amico degli aguzzini ma da loro scaricato, che era sembrato, almeno fin lì, un tipo scontato e ovvio, nella sua banale e opportunistica ricerca di un tornaconto personale senza curarsi di alcuna morale. Tra l’altro, gli autori sembrano quasi metterlo alla prova, costretto com’è a fare la respirazione «bocca a bocca» ad un moribondo, e lui, pur con tutta la reticenza del mondo, si dà da fare finché il ferito non si riprende. Quasi ironicamente, il più stupito della cosa sembra proprio lui stesso. Il copione, in questi passaggi, non è quindi affatto male: ad esempio, quello che potrebbe essere un reporter (Ostap Stupka) –il condizionale è d’obbligo perché nel film tutto e vago e non viene rivelato il nome di nessuno dei personaggi– si lascia andare a due comportamenti simili ma diversi ed entrambi discutibili. Ad un certo punto cerca di ammazzare a mani nude il soldato moribondo, per alleviargli la sofferenza, senza riuscirci; in compenso, si accanisce contro un gatto e lo uccide picchiandolo più volte contro il muro, semplicemente per sfogare la rabbia. Da quel che si intuisce, l’uomo è una persona famosa e istruita e non un individuo senza cultura e istruzione. Ma, come detto, i rivali che si giocano la partita sono il capo degli aguzzini, un ex insegnante –altro affondo alla élite culturale della trama– e il prigioniero che non parla, che è anch’egli un soldato, per quanto, ovviamente, dell’altra parte della barricata. Quest’ultimo sa qualcosa ma è chiuso nel più totale silenzio; l’arrivo della donna, in cerca del figlio, presumibilmente catturato dai militari, scuote l’ambiente, in particolar modo ad essere turbato è il capo degli aguzzini. Perché anche lui vuole informazioni, e le vuole dal soldato nemico silenzioso: promette allora alla donna, che è ancora avvenente, di rivelarle del figlio cercato se riuscirà a convincere il soldato silenzioso a parlare. Se l’aguzzino più giovane ha visto nell’arrivo di una bella ed elegante signora la possibilità di stuprarla, il suo più anziano commilitone è scosso più profondamente e sembra quasi ravvedersi. Si rade, si cambia vestito, offre dell’acqua calda alla donna, per la citata scena della lavanda dei piedi: perché? Forse perché vede nella donna una speranza di convincere il «silenzioso» finalmente a parlare. Forse perché spera che il fatto che anche la donna, come lui stesso, sia alla ricerca di un figlio rapito dai soldati nemici, sia un segno del destino. Forse il soldato «silenzioso» si impietosirà e racconterà finalmente che ne è di suo figlio. Il finale, naturalmente, precipita, gli aguzzini si scontrano, e quello vecchio elimina quello giovane e uccide anche il trafficante; ma, nel rivolgersi al «silenzioso», quasi l’implora di parlare, di dirgli finalmente dove si trova suo figlio. Il «silenzioso» coglie una debolezza nel nemico e lo aggredisce e, mentre lo sta strozzando, forse proprio perché lo sta vedendo morire, finalmente gli parla: di suo figlio non ha lasciato niente, non avrebbe avuto neanche una tomba su cui piangere. L’aguzzino ha un’ultima reazione ma dopo una breve colluttazione, si trova dalla parte sbagliata del mitra. La madre interviene e fredda il «silenzioso»: l’uomo taciturno aveva finalmente parlato, ora l’aguzzino doveva rivelarle dov’era suo figlio, era questo l’accordo. Ma il militare è ormai completamente svuotato dalle parole che ha sentito dal nemico silenzioso. Una donna e un uomo, nemici nella guerra in corso, condividono la tragedia di perdere il proprio figlio. La donna rimane in ginocchio, per terra, poi sente il soldato moribondo lamentarsi, lo prende tra le braccia; lui mentre delira, la scambia per sua madre, senza sbagliarsi di molto. In fondo la donna lo rianimato poco prima, dandogli di nuovo la vita. Intanto l’aguzzino è uscito e si incammina nel campo minato, mentre una triste cantilena in ucraino [il film è recitato in russo, mentre la cantilena finale è in lingua ucraina, almeno stando a quanto riferito dal sito Ukraiyna Moloda, pagina web https://umoloda.kyiv.ua/number/2768/164/96663/, visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024] lo accompagna al suo triste destino. Insomma, in definitiva Captum non sembra affatto così male, almeno non da meritarsi addirittura il quarto posto tra i film peggiori del 2015 nel panorama internazionale, secondo il sito ucraino Kinobuk [pagina web https://kinobuk.com/survey/pidsymki-buk-2015/, visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024]. La già citata Olena Rubashevska, critica cinematografica di KinoUkraina, chiude la sua recensione negativa cercando di mettere spalle al muro il film di Matehsko, accusato di essere troppo influenzato dalla fiction televisiva russa: “E di cosa parla, in effetti, il film? Di come l’esercito ucraino non sia in grado di sconfiggere chissà quali creature che spuntano dal nulla, che non hanno letto nulla di più intelligente dell’etichetta sui deodoranti per ambienti e vivono come animali, bevendo vodka tutto il giorno? Di come i nostri soldati in prigionia dimentichino l’onore e la coscienza e muoiano, scordandosi tutto ciò che amavano e per cui hanno combattuto? Del fatto che, a parte una madre single, nessuno faccia nulla per liberare i nostri ragazzi dalla prigionia?” [dal sito KinoUkraina, pagina web https://kinoukraine.com/antyukrayinskyj-polon-vid-tvortsya-rosijskogo-serialu/, visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024]. Parole che sembrano troppo dure, forse dettate dal momento non certo facile che si vive nel Paese. Perché, Captum, ad uno spettatore distaccato, sembra piuttosto raccontare la vicenda di due personaggi in cerca di un figlio perduto. Chi, nel farlo, si accanisce contro il nemico, con l’uso della violenza come unico linguaggio, è destinato a perdere la propria anima, coma l’anziano aguzzino che vaga nel campo in cerca di una mina. Chi, pur non potendo fare a meno di ricorrere alla stessa violenza –il colpo sparato al «silenzioso», che, per altro, era in procinto di uccidere un uomo– non dimentica la propria umanità, come la donna che si affanna per salvare il soldato prigioniero già mezzo morto, può avere invece ancora una speranza. Fosse anche solo l’illusione di una speranza, come quella legata all’attimo in cui un giovane sconosciuto ti chiama “mamma” prima di morire, farebbe comunque tutta la differenza del mondo. Non c’è ragione di avere dubbi: a conti fatti, non è affatto male questo Captum


Nessun commento:

Posta un commento