1594_CAPTUM . Ucraina 2015: Regia di Anatoliy Mateshko
Una caratteristica
che rende comunque interessante un film, un testo, un documento, al di là della
qualità o dell’utilità dello stesso, è il fatto che quest’opera scontenti tutte
le parti chiamate in causa. Questa è un’iperbole, sia chiaro, tuttavia è
innegabile che Captum di Anatoly Mateshko, anche solo per come è stato accolto,
un po’ di curiosità la suscita. Il film, nonostante sia apparentemente
astratto, sotto il profilo dell’ambientazione sembra raccontare una tipica
storia che può succedere –e, purtroppo, le notizie dicono succeda con troppa
frequenza– nell’ATO, la zona di antiterrorismo nell’est dell’Ucraina, dove, dal
2014, sono insorti i separatisti. La guerra, infatti, infuria nel Donbas tra i
nazionalisti ucraini e i filorussi appoggiati da Mosca, e, a farne le spese,
sono sempre i civili. Captum, come accennato, non fa riferimenti
specifici, mostrando due uomini in uniforme che tengono reclusi una dozzina di individui
in condizioni disumane, divertendosi a torturarli e ad eliminarli. I
prigionieri vengono infatti rilasciati in un campo minato e i due carcerieri
scommettono su chi riesca a sopravvivere più a lungo, prima di saltare
inevitabilmente per aria calpestando un ordigno. La lingua parlata nel film è
il russo, nonostante Captum sia una produzione ucraina; questo non
sarebbe nemmeno troppo strano, il russo, da quelle parti, è una lingua
diffusissima. Nel 2015, tuttavia, la cosa assume probabilmente un significato
preciso: ovvero che, al netto della vaghezza voluta dagli autori, siamo nel
Donbas con due separatisti che tengono segregati un militare nemico ferito
gravemente (Fedir Hurinec) e alcuni civili, situazione raccontata troppo spesso
dalle cronache. Eccole, quindi, le due fazioni che vengono scontentate in Captum:
gli ucraini e i filorussi, se non proprio direttamente i russi, posto che ci
sia una differenza. Secondo il sito Ukinform, il film è stato rifiutato al Film
Festival di Mosca e al Kinotavr, la rassegna cinefila che si tiene a Sochi,
sempre in Russia. [dal sito Ukinform, pagina web https://www.ukrinform.ua/rubric-culture/1960101-u-kogo-zbroa-toj-i-pravij-novij-film-anatolia-mateska.html,
visitata l’ultima volta il 16 dicembre 2024]. D’altra parte, l’accoglienza in
Ucraina non è stata troppo migliore, con recensioni per lo più negative e,
almeno stando alle informazioni circolanti, scarso riscontro al botteghino. [Questo
secondo la pagina ucraina di Wikipedia del film https://uk.wikipedia.org/wiki/Captum#cite_note-11,
visitata l’ultima volta il 16 dicembre 2024 che riporta il link per il
Box-Office del paese esteuropeo della settimana di uscita di Captum,
pagina web https://web.archive.org/web/20160314000908/http://kino-teatr.ua/uk/main/box_article/article_id/256.phtml,
visitata l’ultima volta il 16 dicembre 2024]. È, quindi, un film così brutto Captum?
Non particolarmente; è invece una sorta di horror che si lascia guardare
senza problemi, seppure ci siano scene violente. Chissà, sul momento, può dare
l’impressione di non riuscire a mantenere le premesse che lascia intravvedere. Però
talune critiche sono davvero eccessive, come quelle di Olena Rubashevska per KinoUkraina:
“Indubbiamente, si ritiene che Mateshko abbia una scuola «Karpenko» [I.
K. Karpenko-Karyi Università Nazionale di Teatro, Cinema e Televisione di Kiyv]
nel senso peggiore. Non c’è un accenno di cinematografia: né nella costruzione
della messa in scena, né nella sceneggiatura, né nella recitazione, tranne
forse nell’ingiustificabile bianco e nero, che in qualche modo salva almeno il film”.
[dal sito KinoUkraina, pagina web https://kinoukraine.com/antyukrayinskyj-polon-vid-tvortsya-rosijskogo-serialu/,
visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024]. Come visto, Captum è
un’opera che ha scontentato tanto gli uno e quanto gli altri, e questo è uno
dei suoi potenziali titoli di merito, per quanto da approfondire.
L’impostazione teatrale è evidente, tutto quanto il film è ambientato nello
scalcinato edificio, una sorta di cascina rurale, in parte adibito a prigione e
in parte a postazione per i due militari, situato in mezzo ad una desolata e
deserta pianura innevata. Oltre all’unità di luogo, quella di tempo, il
racconto si svolge in poche ore, aiuta a dare solidità ed efficacia al
racconto. Il bianco e nero contrastato della fotografia accentua l’irrealtà
della situazione; a questo punto, l’interpretazione degli attori non sembra
affatto fuori luogo o troppo enfatizzata, tutt’altro. La Rubashevska, per
altro, non è d’accordo “La scenografia, costruita in modo completamente
teatrale, accoglie organicamente tra le braccia attori di teatro, per
esempio, Ostap Stupka. Ma ciò che sembra organico in teatro a volte dà un
effetto completamente opposto sul grande schermo: plasticità innaturali, gesti
e suoni sono «migrati» dal palcoscenico allo schermo, creando una sorta di «effetto
film muto»: gli attori recitavano allo stesso modo all’inizio del ‘900, avendo
nel loro arsenale interpretativo principalmente solo la propria plasticità.
[Ibidem]. Punti di vista, certamente, ma quello che è certo che lo scopo di
Mateshko è di tenersi lontano da una rappresentazione realistica e, almeno su
quello, si può essere d’accordo che vi sia riuscito. Tuttavia la didascalia
biblica nel finale, il passaggio preso dal Vangelo secondo Matteo [Matteo 7,2: «perché
con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati; e con la misura con
la quale misurate, sarà misurato a voi»] nel quale si invita a non giudicare, lascia
intendere che è previsto, dallo stesso autore, che il suo film venga
interpretato come metafora. L’utilizzo del Vangelo come citazione rafforza
l’impressione che il regista avesse mire assai significative e non costruire una
sorta di falso snuff movie in cui mostrare un po’ di crudeltà gratuita. Lo
stesso Matehsko dichiara in un’intervista che i personaggi protagonisti sono
dodici come gli apostoli [dal sito Ukrayina Moloda, pagina web https://umoloda.kyiv.ua/number/2768/164/96663/,
visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024] e, sempre a proposito di rimandi biblici,
c’è anche la scena della «lavanda dei piedi», sebbene questi riferimenti sembrano
rimanere un po’ sterili, senza offrire chiave di lettura specifica. Quello che pare
mancare, a Captum, è anche uno sviluppo di un personaggio principale,
qualcosa su cui riflettere in ottica costruttiva; a meno che lo scopo del film
sia quello di affogare tutto in un pessimismo senza alcuna speranza. Ma è
davvero così? Tra i personaggi che si alternano, con una buona scansione
narrativa, si potrebbe pensare che i protagonisti siano i due rivali, il
superiore tra i due militari (Vladimir Goryanskiy) e il prigioniero silenzioso.
Il carceriere più giovane è, infatti, solo lo stereotipo del soldato violento e
ignorante, senza spessore, né come individuo né come personaggio; la donna alla
ricerca del figlio (Larysa Rusnak) è la classica madre disperata, ma non si
limita all’amore materno, dal momento che quando vede il soldato prigioniero sfigurato
e ferito gravemente che sembra essere in punto di morte, si prodiga lodevolmente
per salvarlo col massaggio cardiaco. Forse, questo passaggio è meno banale e
superfluo di quello che può apparire. Intanto, è clamoroso, oltre ad essere un
altro punto a favore del film, che, ad aiutarla, sia il losco trafficante (Dmitry
Surzhikov) amico degli aguzzini ma da loro scaricato, che era sembrato, almeno fin
lì, un tipo scontato e ovvio, nella sua banale e opportunistica ricerca di un
tornaconto personale senza curarsi di alcuna morale. Tra l’altro, gli autori
sembrano quasi metterlo alla prova, costretto com’è a fare la respirazione «bocca
a bocca» ad un moribondo, e lui, pur con tutta la reticenza del mondo, si dà da
fare finché il ferito non si riprende. Quasi ironicamente, il più stupito della
cosa sembra proprio lui stesso. Il copione, in questi passaggi, non è quindi
affatto male: ad esempio, quello che potrebbe essere un reporter (Ostap Stupka)
–il condizionale è d’obbligo perché nel film tutto e vago e non viene rivelato
il nome di nessuno dei personaggi– si lascia andare a due comportamenti simili
ma diversi ed entrambi discutibili. Ad un certo punto cerca di ammazzare a mani
nude il soldato moribondo, per alleviargli la sofferenza, senza riuscirci; in
compenso, si accanisce contro un gatto e lo uccide picchiandolo più volte
contro il muro, semplicemente per sfogare la rabbia. Da quel che si intuisce,
l’uomo è una persona famosa e istruita e non un individuo senza cultura e
istruzione. Ma, come detto, i rivali che si giocano la partita sono il capo
degli aguzzini, un ex insegnante –altro affondo alla élite culturale della
trama– e il prigioniero che non parla, che è anch’egli un soldato, per quanto,
ovviamente, dell’altra parte della barricata. Quest’ultimo sa qualcosa ma è
chiuso nel più totale silenzio; l’arrivo della donna, in cerca del figlio,
presumibilmente catturato dai militari, scuote l’ambiente, in particolar modo
ad essere turbato è il capo degli aguzzini. Perché anche lui vuole
informazioni, e le vuole dal soldato nemico silenzioso: promette allora alla
donna, che è ancora avvenente, di rivelarle del figlio cercato se riuscirà a
convincere il soldato silenzioso a parlare. Se l’aguzzino più giovane ha visto
nell’arrivo di una bella ed elegante signora la possibilità di stuprarla, il
suo più anziano commilitone è scosso più profondamente e sembra quasi
ravvedersi. Si rade, si cambia vestito, offre dell’acqua calda alla donna, per
la citata scena della lavanda dei piedi: perché? Forse perché vede nella donna
una speranza di convincere il «silenzioso» finalmente a parlare. Forse perché
spera che il fatto che anche la donna, come lui stesso, sia alla ricerca di un
figlio rapito dai soldati nemici, sia un segno del destino. Forse il soldato «silenzioso»
si impietosirà e racconterà finalmente che ne è di suo figlio. Il finale,
naturalmente, precipita, gli aguzzini si scontrano, e quello vecchio elimina
quello giovane e uccide anche il trafficante; ma, nel rivolgersi al «silenzioso»,
quasi l’implora di parlare, di dirgli finalmente dove si trova suo figlio. Il «silenzioso»
coglie una debolezza nel nemico e lo aggredisce e, mentre lo sta strozzando,
forse proprio perché lo sta vedendo morire, finalmente gli parla: di suo figlio
non ha lasciato niente, non avrebbe avuto neanche una tomba su cui piangere. L’aguzzino
ha un’ultima reazione ma dopo una breve colluttazione, si trova dalla parte
sbagliata del mitra. La madre interviene e fredda il «silenzioso»: l’uomo
taciturno aveva finalmente parlato, ora l’aguzzino doveva rivelarle dov’era suo
figlio, era questo l’accordo. Ma il militare è ormai completamente svuotato
dalle parole che ha sentito dal nemico silenzioso. Una donna e un uomo, nemici
nella guerra in corso, condividono la tragedia di perdere il proprio figlio. La
donna rimane in ginocchio, per terra, poi sente il soldato moribondo
lamentarsi, lo prende tra le braccia; lui mentre delira, la scambia per sua
madre, senza sbagliarsi di molto. In fondo la donna lo rianimato poco prima,
dandogli di nuovo la vita. Intanto l’aguzzino è uscito e si incammina nel campo
minato, mentre una triste cantilena in ucraino [il film è recitato in russo,
mentre la cantilena finale è in lingua ucraina, almeno stando a quanto riferito
dal sito Ukraiyna Moloda, pagina web https://umoloda.kyiv.ua/number/2768/164/96663/,
visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024] lo accompagna al suo triste
destino. Insomma, in definitiva Captum non sembra affatto così male,
almeno non da meritarsi addirittura il quarto posto tra i film peggiori del
2015 nel panorama internazionale, secondo il sito ucraino Kinobuk [pagina web
https://kinobuk.com/survey/pidsymki-buk-2015/, visitata l’ultima volta il 17
dicembre 2024]. La già citata Olena Rubashevska, critica cinematografica di
KinoUkraina, chiude la sua recensione negativa cercando di mettere spalle al
muro il film di Matehsko, accusato di essere troppo influenzato dalla fiction
televisiva russa: “E di cosa parla, in effetti, il film? Di come l’esercito
ucraino non sia in grado di sconfiggere chissà quali creature che spuntano dal
nulla, che non hanno letto nulla di più intelligente dell’etichetta sui
deodoranti per ambienti e vivono come animali, bevendo vodka tutto il giorno? Di
come i nostri soldati in prigionia dimentichino l’onore e la coscienza e muoiano,
scordandosi tutto ciò che amavano e per cui hanno combattuto? Del fatto che, a
parte una madre single, nessuno faccia nulla per liberare i nostri ragazzi
dalla prigionia?” [dal sito KinoUkraina, pagina web https://kinoukraine.com/antyukrayinskyj-polon-vid-tvortsya-rosijskogo-serialu/,
visitata l’ultima volta il 17 dicembre 2024]. Parole che sembrano troppo dure,
forse dettate dal momento non certo facile che si vive nel Paese. Perché, Captum,
ad uno spettatore distaccato, sembra piuttosto raccontare la vicenda di due
personaggi in cerca di un figlio perduto. Chi, nel farlo, si accanisce contro
il nemico, con l’uso della violenza come unico linguaggio, è destinato a perdere
la propria anima, coma l’anziano aguzzino che vaga nel campo in cerca di una
mina. Chi, pur non potendo fare a meno di ricorrere alla stessa violenza –il
colpo sparato al «silenzioso», che, per altro, era in procinto di uccidere un
uomo– non dimentica la propria umanità, come la donna che si affanna per
salvare il soldato prigioniero già mezzo morto, può avere invece ancora una
speranza. Fosse anche solo l’illusione di una speranza, come quella legata
all’attimo in cui un giovane sconosciuto ti chiama “mamma” prima di morire, farebbe
comunque tutta la differenza del mondo. Non c’è ragione di avere dubbi: a conti
fatti, non è affatto male questo Captum.
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