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martedì 31 dicembre 2024

LA GRANDE GUERRA

1600_LA GRANDE GUERRA . Italia, 1959: Regia di Mario Monicelli

Cominciamo col dire che La Grande Guerra di Mario Monicelli più che un capolavoro (e lo è, sia chiaro) è il film italiano definitivo sulla Prima Guerra Mondiale. Tra i tanti meriti positivi, quello di Monicelli, ne ha infatti uno anche relativamente negativo: ovvero sdoganare una facile critica qualunquista sull’operato dell’Esercito Italiano durante il primo conflitto mondiale. Che ebbe le sue magagne, per carità, ma sulle quali negli anni successivi in Italia si è insistito con eccessivo accanimento farsesco, perdendo, purtroppo in modo forse definitivo, il senso della misura. La situazione era ben diversa fino a La Grande Guerra: prima la retorica del Ventennio, poi un tentativo di consolarsi dopo la scoppola nella Seconda Guerra Mondiale, avevano finito per mettere in luce eccessivamente trionfalistica il conflitto del 15-18. In pratica Caporetto era stata, fino ad allora, una parola tabù per il cinema italiano. E’ in quel clima che arriva Monicelli col suo film: e ha il suo bel daffare a convincere il produttore Dino De Laurentis, perfino una volta già cominciate le riprese, dove le truppe italiane erano mostrate con un esagerato, secondo lo studio, realismo. Fango dovunque, divise logore, uomini sporchi e malnutriti; la splendida fotografia ricca di tonalità di grigio uniformava il tutto pur dando risalto agli innumerevoli dettagli di una caotica e disordinata messa in scena. Furono scavate autentiche trincee in Friuli, in luoghi che si prestarono a credibilissimi ricostruzioni delle ambientazioni del conflitto. Il soggetto fu un confluire di vari spunti: Luciano Vincenzoni (sceneggiatore insieme a Age & Scarpelli e allo stesso Monicelli) portò l’ispirazione da Due amici di Guy De Maupassant su cui vennero innestati elementi e protagonisti da Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu e Con me e con gli alpini di Piero Jahier. Come si vede, così come la fotografia armonizzava i tanti dettagli, anche il plot narrativo fu il frutto di una sintesi, notevole, da ispirazioni diverse. D’altra parte la natura intrinseca del paese era proprio la frammentazione e, seppure in modo brutale e traumatizzante, la Grande Guerra era stata forse la prima occasione in cui si era provato a dare una forma coesa all’idea di popolo che, in qualche modo, il Regio Esercito rappresentava. La coerenza di Monicelli, davvero scrupoloso nel suo approccio all’opera, era comunque proseguita: l’idea di creare una serie di sketch, inframmezzati anche dai motivi musicali di natura bellica, è un altro colpo di genio considerato come la struttura a mosaico permetta di avere un’idea generale pur mantenendo la peculiarità delle singole tessere narrative

Con una simile impostazione, al tempo, era anche semplice trovare poi gli attori giusti: Vittorio Gassman (è Giovanni Busacca) e Alberto Sordi (Oreste Jacovacci) recitano le loro prevedibili parti (il milanese e il romano) in scioltezza, dall’alto della loro classe, esperienza e capacità, trovandosi in una situazione ideale per sfornare due prestazioni memorabili. Chi sorprende, pur essendo già una diva affermata, è Silvana Mangano: la sua Costantina, una prostituta in servizio presso le truppe, non era proprio un ruolo facilissimo. Almeno non era semplice cavarci un personaggio ricco di dignità, simpatia, umanità e soprattutto fascino; questo senza ovviamente poter sfruttare armi le classiche armi di seduzione sofisticate ma dovendo, giocoforza, rimanere coi piedi non tanto per terra ma proprio nel fango. Che in guerra era ovunque e non solo in trincea e non solo intendendo quello materiale. La Mangano ci riesce anche grazie, più che ad una bellezza, che poi la sua è abbastanza singolare, ad un’eleganza mai volgare. Tantissime le scene gustose, agevolate dalla frammentazione del racconto, e tanti i protagonisti che si ricordano: Folco Lulli è il Bordin, costretto ad essere audace dalle esigenze economiche della famiglia numerosa; Romolo Valli è il tenente Gallina, un ufficiale ricco di buonsenso; Tiberio Murgia è Nicotra, il soldato siciliano innamorato dell’attrice Francesca Bertini e via via tutti gli altri. Il film non scade nello sterile macchiettismo  perché poi la guerra, quella rappresentata con buona fedeltà storica, presenta il conto e di fronte alla morte i personaggi sono trattati con assoluta dignità da Monicelli. 

Un esempio è forse proprio il Nicotra che getta via la fotografia della diva, in un momento di disperazione, ma anche la generosità di Busacca e Jacovacci quando si trovano alle prese con la moglie del Bordin, ancora inconsapevole di essere vedova, lascia il segno.  Ma naturalmente è il finale, con la celeberrima esecuzione dei due protagonisti, a condensare in modo splendido lo spirito del film, forse dell’intera partecipazione italiana alla guerra se non addirittura dell’indole del carattere nazionale. Busacca e Jacovacci erano stati scelti, in qualità di soggetti meno efficienti della truppa, per portare degli ordini ad una postazione sul fronte. Consegnati i quali, i nostri vedono i bagliori di un attacco d’artiglieria sul loro reparto e decidono di imboscarsi fino alla mattina successiva. Non si tratta di diserzione vera e propria, ma di ritardare opportunisticamente il rientro nei ranghi: un modo molto italiano di intendere il proprio dovere. Ma, al risveglio, i due scombinati militari troveranno ad attenderli i nemici. Con i quali si accorderebbero anche, pur di salvare la pelle, rivelando al nemico le previste manovre dell’esercito italiano. Mica sono degli eroi. Però, quello che non ha fatto mai Monicelli col suo film, pur nell’ironia diffusa, sembrano farlo i due ufficiali austriaci: nel loro dialogo si avverte il disprezzo, l’assoluta mancanza di rispetto non solo per i due poveracci che hanno appena catturato, ma per tutto il popolo italiano. E allora il Busacca non ci sta; e nemmeno Jacovoni. Insomma, citando Oreste De Fornari (I sentieri della gloria, 2004) non eroi a caso, e nemmeno eroi per caso; ma eroi se è proprio il caso.   





Silvana Mangano 



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domenica 29 dicembre 2024

THE WITCH: REVENGE

1599_THE WITCH: REVENGE . Ucraina, 2024: Regia di Andriy Kolesnyk

Il cinema bellico inerente al conflitto russo-ucraino si è visto come abbia mostrato, in qualche caso, punti di contatto con il «genere» horror. A pensarci, sembra una cosa ovvia, tuttavia, storicamente, il «genere» di riferimento per i film di guerra è il cinema d’azione, d’avventura drammatica, forse perché gli autori hanno sempre cercato di evitare quelle derive oniriche che il cinema dell’orrore evoca. Insomma, la guerra è qualcosa di tremendamente reale e meglio non creare equivoci. Naturalmente ci sono state eccezioni, basti citare i recenti Deathwatch – La trincea del Male [Deathwatch – La trincea del Male (Deathwatch), Michael J. Bassett, 2002] o Trench – 11 [Trench 11, Leo Scherman, 2017], ma anche alcuni passaggi del classico Fräulein Doktor [Alberto Lattuada, 1969], di cui, in particolare, le scene con il terribile «gas mostarda» sono incubi a pieno titolo. Purtroppo, la guerra, deprecabile sin dalla notte dei tempi, sembra essersi, ai giorni nostri, ulteriormente incattivita e il cinema, per renderne conto, ha spesso incrementato questa tendenza narrativa. Nello specifico del conflitto russo-ucraino un esempio eclatante, in questo senso, è Luce solare calda [Luce solare calda (Solntsepyok) Maksim Brius e Mikhail Vasserbaum, 2021], ma elementi simili sono presenti anche in opere a prima vista insospettabili come This rain will never stop [This rain will never stop, Alina Gorlova, 2020]. In questo studio si sono analizzati anche film non strettamente legati alla guerra in oggetto e, tra questi, Minsk [Boris Guts, 2022] esprime in modo più compiuto l’idea di ricorrere al cinema dell’orrore per raccontare la situazione attuale. Come detto nel paragrafo in proposito, il regista, il russo Boris Guts, ha esplicitamente paragonato il suo film ad un horror americano di quelli con i ragazzi che fanno sesso e poi incontrano gli zombi, con la differenza che, in questo caso, al posto dei morti viventi ci sono i poliziotti. [Nikolay Nelyubin traduzione di Vladimir Kolosov, Boris Guts su Minsk, intervista dal sito NewProspect.ru, pagina web https://newprospect.ru/news/english-prospect/this-is-a-horror-movie-only-we-don-t-have-the-evil-dead-here-we-have-cops-boris-guts-about-the-minsk/ visitata l’ultima volta il primo di settembre 2024].

L’idea di utilizzare un film horror per raccontare come i cittadini civili ucraini vivano l’invasione russa non è quindi estemporanea o del tutto improvvisata e, in ogni caso, è un eccellente punto di partenza. Nella realizzazione dell’opera, il regista Andriy Kolesnyk decide quindi di puntare forte sul versante fantastico, mantenendo al contempo un fortissimo ancoraggio alla realtà bellica che sta vivendo l’Ucraina. Il risultato è The Witch: Revenge, un bell’horror, potente, nel quale, per una volta, si può serenamente parteggiare per la strega, in genere relegata nel ruolo di «cattiva» come tutti i rispettabili mostri dei film di paura. Ma qui ci sono i soldati russi, qualcosa che il regista sembra voler dire che sia ben peggiore dei mostri del cinema dell’orrore; impressione purtroppo condivisibile. La vendetta annunciata dal titolo è ben motivata: in principio, la strega si presenta negli insospettabili panni della bellissima Olena (Tatiana Malkova, affermata star ucraina dello spettacolo), una ragazza innamorata del fidanzato (Taras Tsimbalyuk nel ruolo di Andriy). La coppia vive felice e serena insieme al piccolo cane Ozzy (Charlie, un buffo bulldog francese) quando l’invasione su larga scala russa piomba nelle loro vite. I tre vengono fermati da una pattuglia russa mentre cercano di mettersi al sicuro e la situazione precipita: Andriy riesce a forzare il posto di blocco ma rimane ferito mortalmente. Disperata e furibonda, Olena rispolvera le arti magiche e si accanisce contro i soldati russi che, nel frattempo, hanno stuprato una ragazza e ammazzato alcuni civili senza alcuna ragione. Da questo punto di vista la trama non è certo un esempio di originalità ma, per quel che riguarda gli aspetti folcloristici, va riconosciuto che la tradizione ucraina, ed esteuropea in generale, è particolarmente affascinante. Inoltre, il senso del ritmo della direzione di Kolesnyk è buono e il racconto filmico che ne scaturisce è teso e avvincente, come da manuale del cinema d’intrattenimento. Gli unici dubbi che possono venire sono a proposito di quanto il regista e i suoi collaboratori si prendano sul serio, visto che la matrice propagandistica che percorre il film, per quanto si tratti di un’opera di finzione, è smaccata. Innanzitutto va detto che, nonostante per tutto il film si sottolinei come gli invasori meritino la sorte che la strega protagonista gli infligge, alla fine, si opta per una soluzione conclusiva assai moderata. Certo, Olena, nella sua versione demoniaca, si lascia alle spalle una bella scia di sangue ma, quando scopre di essere incinta, si redime e risparmia proprio il peggiore dei suoi nemici, Rovnyy (Pavel Vishnyakov), il comandante della truppa. L’importanza della vita in arrivo, che al cinema è sempre un forte segnale di ottimismo, rappresenta anche l’importanza della comunità che si oppone alla sua cancellazione da parte degli invasori: in questo senso sono decisivi anche la «zia» Yevdokia (Olena Khokhlatkina) e il cagnolino Ozzy, con la loro vicinanza a Olena anche quando questa ha completamente perso il controllo di sé. Insomma, pur se la tentazione di ricorrere alla legge del taglione è forte, e, in questo senso, si veda anche la scena della rivalsa della ragazza stuprata, gli ucraini sono ben consci che non devono farsi divorare dal demone della vendetta finendo per divenire del tutto indistinguibili dagli aggressori. 

Questi motivi di riflessione, per altro decisamente condivisibili e apprezzabili –anche e soprattutto perché arrivano in un film «di cassetta»– sono ben dissimulati dalla tipica ironia ucraina che, per quanto ruspante, si dimostra ancora una volta piuttosto raffinata. Considerato l’utilizzo «strumentale» del «media» cinema, Kolesnyck ricorre giustamente più volte ad un linguaggio metalinguistico. La velata citazione al cinema d’azione americano, nella risposta di Andriy ad Olena prima del posto di blocco, è un simpatico esempio in questo senso. La coppia di protagonisti è appena stata fermata dai russi e Olena si raccomanda al fidanzato: “Andriy, per favore, non iniziare a litigare. Per favore, stai attento”. La risposta del giovane è degna di Jack Burton [Jack Burton, interpretato da Kurt Russell in Grosso guaio a Chinatown (Big trouble in Litlle China, John Carpenter, 1986) è ricordato per le tante iconiche battute, tra cui: “Sei pronto?”. “Io sono nato pronto”] “Rilassati. Attento è il mio secondo nome”. Ancora più gustose, e, in un certo senso, metalinguistiche, sono poi le didascalie iniziali, nelle quali gli autori strizzano più volte l’occhio allo spettatore. La prima delle quasi si scusa per la violenza di alcune scene del film che va ad iniziare; d’altra parte, proseguono le didascalie, le malefatte degli invasori non possono essere ignorate dal cinema ucraino. In sostanza, si sottolinea la differenza tra la violenza innocua della componente fantastica del film, da quella realmente traumatizzante che riprende le attività degli aggressori. Ma il bello deve ancora arrivare. Le «istruzioni per l’uso» proseguono e l’informazione seguente è che la nuova normativa ucraina vigente obbliga i film a non utilizzare lingue straniere per oltre il 10% dei lungometraggi. In conseguenza di ciò, dal ventitreesimo minuto i soldati invasori passeranno dal russo volgare al doppiaggio in ucraino. In pratica, i russofoni in Ucraina, nel film, da quel momento in poi parlano ucraino; “Presto lo faranno anche nella vita reale” prosegue sibillina la didascalia. Un 18+ ci ricorda il divieto per i minori, quindi, l’ultimo avvelenato messaggio. “Il film contiene morte violenta degli occupanti”. Al quale succede un “Buona Visione” in caratteri maiuscoli che non prova nemmeno a mascherarne la soddisfazione che trapela. Cattivo gusto? Che dire, un innocente film horror in risposta ad un’aggressione militare è perfino troppo buon gusto, altroché.  



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Tatiana Malkova



venerdì 27 dicembre 2024

SAVANA VIOLENTA

1598_SAVANA VIOLENTA . Italia 1976: Regia di Antonio Climati e Mario Morra

Nelle stringate parole di Franco Prosperi tratte dall’intervista pubblicata su Jacopetti files, si può cogliere il senso di Savana Violenta. L’intervistatore chiede: “E invece in Savana Violenta, che lei ha definito il premio che Lombardo (Goffredo Lombardo, produttore della Titanus, NdA) le diede con la possibilità di girare questo film, fu, dunque, per il successo di Ultime grida dalla savana o perché c’era ancora del materiale pronto ad un nuovo utilizzo?”. La risposta di Prosperi: “Sì, c’era ancora del materiale. Fui autorizzato ad usarlo e poi io accettai per ragioni economiche. Sì, accettai di girare questo nuovo documentario dato il successo del primo”. [Postfazione. Sopravvivendo in una E. Da Mondo Cane a Belve Feroci. Conversazione con Franco Prosperi. Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 320]. Il commento di Prosperi, che si autodefinisce regista del film ufficialmente firmato da Climati e Morra, non lascia molti dubbi, in merito all’intento ‘alimentare’ di Savana violenta. Non che gli altri esempi di Mondo movie – e, ad essere onesti, di quasi tutto quanto il cinema, in particolar modo quello ‘di cassetta’ – non avessero questo come primo motivo di esistere. Però si può comunque fare una distinzione tra opere che avessero qualche spunto, se non proprio autoriale, quantomeno originale, personale o almeno ‘sentito’, e altre che ricalcavano pedestremente una formuletta di successo per cercare di sfruttarne la scia. In effetti, più che Ultime grida dalla savana, questo nuovo film firmato Climati & Morra, ricorda Mondo cane di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, il film che aveva dato il vero imprinting al genere. Prosperi aveva buone capacità registiche, la fotografia di Climati era eccellente e Morra, al montaggio, era indiscutibile: se ci aggiungiamo la musica allegra dei fratelli De Angelis, abbiamo quello che ha tutta l’aria di essere un film di finzione che, blandamente, si spaccia per documentario. Con alcuni passaggi anche gustosi, come quello celeberrimo del caimano catturato nelle fogne di New York.
“Gli argomenti e gli episodi basati sulla cruda realtà del mondo moderno sono stati realizzati con la tecnica del «Cinema Verité» in funzione di una vertà nozionistica alla quale ci siamo ispirati” recita in realtà una didascalia posta subito dopo i titoli di testa. Non esattamente il massimo della correttezza, se si vuol essere fiscali, ma questi erano i Mondo movie. A questo proposito, severo il commento apparso ai tempi sull’Eco di Bergamo: “La tecnica – avverte una didascalia iniziale – è quella del «cinema verità» e l’intento è quello «nozionistico». Non è vera né l’una né l’altra cosa. Il «cinema verità» è una tecnica (non disgiunta da finalità espressive: si vedano i registi della passata «nouvelle vague» francese) che consiste nel riprendere spicchi di vita all’insaputa di chi li sta vivendo (e quindi celebrare l’autenticità) e in Savana violenta questo non accade che raramente visto che chi è ripreso, animali compresi, partecipa attivamente alle riprese e poi perché su certi episodi non ci sarebbe proprio da mettere la mano sul fuoco”. [
Vice, «L’Eco di Bergamo», 8 settembre 1976, Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 243].
Insomma, nemmeno Savana violenta convinse la critica: “Una sfida sottintesa al pubblico, del quale di proverà la resistenza con sequenze orripilanti ora autentiche, ora in odore di fasulla ricostruzione. E tanti spettatori accettano masochisticamente il cimento: riusciranno a non abbassare mai lo sguardo? Il rischio è forte. Gli autori ce la mettono tutta per raggiungere l’unico oggetto che sembrano proporsi. Non è facile reggere la vista di un fachiro che si taglia la lingua, dei miseri resti di una ragazza maciullata da uno squalo, di un diciottenne fucilato tra le rovine del recente terremoto in Guatemala, degli aborti procurati violentemente su ragazze africane.
Una rassegna di orrori offerti alla platea senza apparenti motivazioni plausibili con il comodo, e non sempre convincente, alibi del documento”. [s. c., Ancora violenza dalla savana, La Stampa, anno 110, n. 190, giovedì 2 settembre 1976, pagina 7]. Durissima, poi, la recensione su Rivista Cinematografica: “Esiste un «colonialismo delle immagini» molto pericoloso, in quanto operazione decisamente reazionaria. Con l’alibi del documentario-verità, si smercia, sotto una forma spregiudicata (apparentemente), tutto il vecchio ciarpame relativo ai popoli del terzo mondo visti, in genere, come un’accozzaglia di «selvaggi», al fine di tranquillizzare lo spettatore benpensante, ovvero a convincerlo che la sua «realtà» sia la migliore possibile. E ricorrendo ad un sensazionalismo di bassa lega, si sviluppa un discorso che non ha un minimo di logica (da un punto di vista antropologico-culturale), il cui unico obiettivo è far cassetta, sfruttando l’antico cliché di stampo manicheo che vede come «cattivo» e «strano» (ma sempre in negativo) tutto ciò che non è «bianco», cioè «civile». Savana violenta è da respingere senz’altro, perché «etnologicamente» subdolo, quindi pericoloso come e più di un «film d’ordine», anche se su un piano diverso”. [A. Ma., Rivista Cinematografica, 1-2/1977, Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 244].
Ancora una volta, leggendo certe critiche ad un Mondo movie, si rimane un po’ esterrefatti. Savana violenta è sicuramente un’operazione commerciale non particolarmente memorabile, questo va detto, ma il qualunquismo che la contraddistingue, è davvero così pericoloso? L’impressione, guardando il film dopo quasi mezzo secolo dalla sua uscita, è che l’opera non ambisse ad essere davvero credibile. Il film sembra quasi un divertissement e, in questo senso, oltre alle musiche dei fratelli De Angelis, la traccia audio sforna una serie di esempi dove l’ironia è perfino esagerata. Dagli urletti delle ragazze indigene addobbate come lucciole –termine inteso come insetto– alla radiocronaca calcistica in sottofondo alle gesta delle manguste, al canto gospel dei pinguini. Certo, si può discutere della sensibilità di accostare queste scene dal tono scanzonato ad altre ad alto tasso di drammaticità, con passaggi di estrema durezza. Ma è evidente che il genere Mondo ricercasse piuttosto l’antitesi al cosiddetto «buon gusto» e, su questo, si può discutere. È opportuna la scelta di passare da una scenetta divertita, magari un po’ scabrosa, alla fucilazione di un ragazzo, per poi tornare ad un altro momento palesemente artificioso? Secondo Franco Prosperi, nella citata intervista riportata su Jacopetti Files, sì; non c’era niente di male nel rallegrare lo spirito di chi guarda con una scena comica dopo averlo rattristato con una drammatica. Era una forma arcaica dello zapping che, in seguito, divenne in uso ai telespettatori e oggi può essere assimilato all’utilizzo anarchico dei social network. [
Postfazione. Sopravvivendo in una E. Da Mondo Cane a Belve Feroci. Conversazione con Franco Prosperi. Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 325]. Onestamente, questo aspetto, che è un po’ il tema dell’intero studio, passa in secondo piano quando la critica del tempo gettava la maschera, come già successo per Africa ama dei gemelli Castiglioni recensito da Bruno Damiani su Cineforum. Anche in questo caso, la critica pubblicata su Rivista Cinematografica sembra sproporzionata alle reali intenzioni del film. Certo, l’effetto positivo –ammesso che lo si possa considerare tale– di Mondo cane, lo scossone a suo modo salutare che aveva dato all’ambiente, era ormai scemato, ai tempi di Savana violenza, e ormai si era al mero sfruttamento di un fenomeno commerciale. Ma, se questo è ed era talmente palese, non poteva esserlo anche per gli spettatori? Il divieto ai minori di diciotto anni, eliminava, almeno da un punto di vista giuridico, il problema di eventuali minorenni: chi si trovava di fronte alle scene era lì di sua volontà, oltre che in grado, almeno in teoria, di affrontare certi argomenti. C’era sempre l’irrisolta questione della veridicità di quanto mostrato e degli effetti deleteri che informazioni sbagliate possano avere sul pubblico. Si narra, ad esempio, che la sequenza del caimano nelle fogne di Savana violenta abbia contribuito alla leggenda urbana dei coccodrilli che vivono sotto le grandi città ma, per la verità, tale fantomatica credenza popolare ha radici ben più antiche. Ma, quando il critico di Rivista Cinematografica scrive che tutto ciò che non è bianco è tacciato dal film di essere «cattivo», si era davvero scordato del bizzarro passaggio ambientato a Londra con le coppie di coniugi che si insultano, oppure di quello con i caucasici che ritornano a vivere come gli aborigeni? O finge opportunisticamente di dimenticarsene perché non fanno il gioco della sua filippica? Il punto di interesse, nei Mondo movie, non fu mai legato tanto al fenomeno cinematografico in sé, che è piuttosto trascurabile, per qualità media delle proposte. Il fatto che colpisce è la risposta che ebbero sul fronte della critica, perfino più di quello che ebbero sulla società. Questo perché, probabilmente, il citato pubblico «benpensante» era già stato, a metà anni Settanta, spodestato da un nuovo modello di spettatore conformato alle nuove linee guida progressiste, democratiche e corrette. E questo spettatore andava difeso, tutelato e, soprattutto, bisognava impedirgli di cambiare idea. E, se, il pubblico, non fosse già completamente assuefatto a questa nuova dottrina, la sua diffusione era appunto l’obiettivo dell’élite culturale. Da un lato, questa incessante propaganda culturale darà vita al cinema «impegnato», dall’altro sarà corresponsabile della morte del cinema ‘di genere’ italiano valido e serio. Il gotico italiano, gli spaghetti western, i thriller nostrani, noti all’estero come «gialli», i poliziotteschi, erano film duri, specchio di un paese dove era arduo cavarsela, e necessitavano di utilizzare la violenza come mezzo espressivo. L’Italia era un paese violento, negli anni Settanta in modo palese, ma lo era stato anche prima, nella strenua difesa del privilegio e della diffusa iniquità da parte della classe egemone. C’era stato il momento di dolersi, di riflettere sulla propria misera condizione, e fenomeni come il Neorealismo erano stati perfetti –e sublimi, cinematograficamente– per questo. Ma era poi giunto anche il momento di rialzare la testa, di provare a scuotersi. Questo avrebbe potuto avvenire in modi diversi, personali, non necessariamente assiepati sulle direttive della rivoluzione sessantottina che fu il fenomeno ‘di tendenza’ –per non dire di moda– in questo senso. Il paese fu attraversato da moti violenti, sia nella realtà che nella finzione artistica. La violenza nella vita quotidiana è sempre da condannare, ma in ambito artistico, può appunto essere un modo per condannare quella fisica e reale. A tal proposito, l’intellighenzia riuscì a compiere un capolavoro di ipocrisia: fu accettata, come inevitabile, perfino la violenza reale se contro il Sistema borghese; di contro, fu condannata addirittura quella in ambito artistico, se non fosse piegata e asservita alle logiche rivoluzionarie sessantottine. Tra i risultati, alla fine di questo processo, ci fu il cinema ‘di cassetta’, anestetizzato cerebralmente, degli anni Ottanta, che la buttava in caciara sperando di sfangarla con una paternalistica sottovalutazione da parte degli intellettuali, e poter continuare a fare soldi mostrando tette e culi. Prima che questo avvenne, ci fu ancora qualche sussulto, e avvenne proprio nei generi considerati più beceri, i Mondo – e i Cannibal, che ne furono una sorta di emanazione. Quasi per una sorta di reazione all’oppressione ideologica, i Mondo movie, in quella fase, divennero più sfacciati, dissacranti, e in questo senso, Savana violenta può essere, per assurdo, quasi un testo imprescindibile, una sorta di moto di protesta all’omologazione. Scanzonato nel suo complesso, ma, ogni tanto, capace di picchiare sotto la cintura. Questo non fa di Savana violenta un bel film, questo va detto; ma quei colpi, leggendo certe recensioni, devono aver fatto male.
E tanto basta.


Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE



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mercoledì 25 dicembre 2024

ULTIME GRIDA DALLA SAVANA

1597_ULTIME GRIDA DALLA SAVANA . Italia 1975: Regia di Antonio Climati e Mario Morra 

Ai tempi di Mondo cane n.2, Mario Morra venne chiamato a curare il montaggio del film e conobbe Antonio Climati, autentico fuoriclasse della macchina da presa. Climati era stato direttore della fotografia per i film di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi e aveva maturato un progetto personale che si discostava un poco dallo stile sensazionalista dei Mondo movie. Qualche anno dopo, si era verso la metà degli anni Settanta, Climati trovò un accordo di massima con Mario Morra per realizzare un documentario naturalistico intitolato La grande caccia; si cominciò quindi a filmare fino ad accumulare una buona dose di materiale. Morra, che tra i due aveva maggiori competenze in sala taglio, coinvolse il produttore della Titanus Goffredo Lombardo, e si mise all’opera per dare forma al film. Questo stando allo stesso Morra, ma diamogli idealmente la parola per sapere come si sviluppò la trasformazione del girato nella sua prima versione filmica: “Avrebbe dovuto essere un film violento e invece successe che, mentre noi giravamo, uscì un film francese che parlava di animali e cose così, ed era divertente, e con Lombardo decidemmo che era un’idea geniale di cambiare politica del film. Non era più un film aggressivo, violento ma divenne divertente. Per cui, alla fine, La grande caccia non fu né carne né pesce. Uscito da pochi giorni andò malissimo, dopo di che decidemmo con Lombardo di rimetterci le mani sopra, facemmo qualche altra cosa, rimontammo, inserendo altre scene, il film e, in questa seconda fase, definitiva, mi aiutò molto Franco Prosperi. Dunque, il film fu integrato con un po’ di violenza, di sesso e uscì con un nuovo titolo: Ultime grida dalla savana. Il titolo lo scelse Limentani, uomo della produzione Titanus e il film andò bene. Non bene, benissimo: fu una cosa enorme perché uscì nello stesso periodo de Il padrino parte II e non so quale altro film e il nostro incassava più degli altri. Fu un grande successo”. [Conversazione con Mario Morra, Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 255]. Per dovere di cronaca, a fine stagione il citato film di Francis Ford Coppola ottenne un risultato migliore ma, effettivamente, Ultime grida dalla savana si piazzò tredicesimo nella classifica dei film più visti in Italia che, per uno shockumentary, era comunque un risultato ragguardevole, e contribuì ad un inaspettato rilancio del genere. Sull’apporto al film di Franco Prosperi, è interessante sentire cosa disse il diretto interessato in proposito nella già citata intervista su Jacopetti files: “Goffredo Lombardo mi propose di girare un altro film, che era Ultime grida dalla savana ma mi disse «Mio caro Franco, dato il casino che è sorto dopo Africa addio, io non posso affidarti questo film se tu lo firmi». E, allora, io accettai di girare Ultime grida dalla savana –che fu un grandissimo successo anche dal punto di vista economico– ma di non firmarlo come regista”. Alla precisa domanda «Quindi il film è firmato Climati e Morra ma, in realtà, l’ha girato lei?» Prosperi chiarisce il suo punto di vista: “Climati cominciò a girare un documentario che lui chiamò La grande caccia e lo produsse Lombardo, con la Titanus: quando il film uscì fu subito ritirato: fu un insuccesso completo. Solo allora Climati pregò Lombardo di contattarmi e di convincermi a metter le mani su quel film”. Il successivo interrogativo è ancora più netto: «quindi Prosperi è l’autore della versione del film conosciuto come Ultime grida dalla savana uscito nel 1975 con enorme successo di pubblico?» Prosperi: “Si, si, certo, certo”. [Postfazione. Sopravvivendo in una E. Da Mondo Cane a Belve Feroci. Conversazione con Franco Prosperi. Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagine 317 e 318]. 

A questo, punto, sempre nella citata intervista, Prosperi spiega come il suo intervento sia stato capillare su ognuna delle scene girate da Climati, integrandole con alcune girate ulteriormente e, soprattutto, «acquistando» le pellicole amatoriali con la scena più famosa del film. Ed è qui che si entra nel vivo della questione che da sempre riguarda Ultime grida dalla savana: la sequenza del turista sbranato dai leoni. In realtà, le scene violente e realistiche nel film sono almeno due: quella dei cacciatori di indios, nel finale, non è infatti certo da meno, non a caso è introdotta anch’essa da titoli in sovraimpressione, a voler enfatizzare la «solennità» del passaggio. Queste didascalie assicurano che le scene siano verissime, tanto quella del malcapitato turista finito in pasto ai leoni, che quella dei brutali cacciatori di indios. Tuttavia un certo grado di scetticismo si è presto diffuso e, in un certo senso, ha alimentato, almeno in parte, la fama di Ultime grida dalla savana. Certo, sul momento, il fatto di poter vedere simili atrocità, ha costituito un forte richiamo per il tipico pubblico dei Mondo movie; in seguito, anche l’ambiguità che circondò la veridicità di questi passaggi ha, a suo modo, contribuito. Curiosamente, Prosperi, nell’intervista poc’anzi riportata, quando viene incalzato sui particolari di queste riprese che avrebbe acquistato, rimane vago, preferendo rispondere sempre in modo evasivo. A titolo d’esempio: “Quindi, dove sta la verità sostanzialmente?” cerca di metterlo all’angolo l’intervistatore. “La verità è questa: spesso noi acquistavamo dei film che ci interessavano, in 8 mm o 9 mm, e aggiungevamo, dopo averle gonfiate a 35 mm, delle scene per completare il film”. [Postfazione. Sopravvivendo in una E. Da Mondo Cane a Belve Feroci. Conversazione con Franco Prosperi. Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 318]. In sostanza il cineasta romano riferisce il ‘modus operandi’ senza entrare nello specifico. Se, volendo ben vedere, la scena dei cacciatori di indios è la più atroce, dal punto di vista della crudeltà manifestata, l’attenzione generale si focalizzò prevalentemente sulla sequenza di tal Pitt Doenitz, il turista finito per essere sbranato dai leoni per colpa della scellerata decisione di andare a filmarli da troppo vicino. Come visto, Prosperi non si pronuncia, nel merito della veridicità, sebbene confessi, a proposito di questa scena –in un commento in questa sede già precedentemente citato– come tutto quanto avesse fatto, inerente ai Mondo movie, fosse «controverso». Nella stesura di Jacopetti files, Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, interpellano anche Mario Morra, in proposito, chiedendogli: “L’episodio fondamentale del film, quello che poi servì proprio da lancio, era quello del turista Pitt Doenitz che viene sbranato dai leoni: le acquistaste quelle immagini, oppure…” Anche Morra risponde in mondo un po’ ambiguo, negando, non si capisce bene cosa, poi ammettendo alcune manipolazioni ma poi, in chiusura, negandole sbrigativamente. “No, poi c’è stata una specie di processo. Volevano addirittura metterci nei guai perché avevamo girato una cosa del genere e noi dicemmo che la scena del film, quella scena, era stata costruita con un «animalaro» che aveva questi leoni e la cosa si calmò. Però non era vero”. [Conversazione con Mario Morra, Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 256].
Tutto chiaro? Mica tanto. Antonio Bruschini e Antonio Testori, nel loro Nudi e crudeli, scrivono, a proposito: “La sequenza, probabilmente almeno in parte autentica, è stata filmata in super 8 da altri turisti e risulta, proprio per il suo realismo, estremamente impressionante”. [
Antonio Bruschini e Antonio Testori. Nudi e Crudeli, i Mondo movies italiani; Bloodbuster, Milano. 2013, pagine 73 e 74].
Il che confermerebbe parzialmente le parole di Morra, ma si tratta dell’unica testimonianza –almeno tra quelle reperibili– in tal senso. La pagina italiana di Wikipedia riferita al film dedica la maggior parte del suo spazio alla sequenza in questione, pur non specificando le fonti da cui sono tratte le informazioni: “Il film viene ricordato soprattutto per la sequenza, di circa due minuti e assente nella versione chiamata La grande caccia, dell’uccisione di un turista olandese, tale Pitt Doenitz (che non è un nome olandese), da parte di una leonessa in un parco naturale in Angola (o in Namibia a seconda delle edizioni) sotto gli occhi di moglie e figli piccoli, che incautamente uscì dall'automobile. La sequenza, muta, girata con una cinepresa super 8 e che suscitò qualche perplessità già allora (a partire dalla vegetazione più mediterranea che della savana africana –si vedono anche dei pini– alla eccessiva lentezza della leonessa stessa nell’aggredire l’uomo, al pochissimo sangue fuoriuscito dalla vittima), in realtà venne totalmente costruita a tavolino. Franco Prosperi, che pur non comparendo come regista del film aiutò i due autori nella messa in scena, nel 2011 rivelò che venne tutto girato in un parco privato vicino Formia in provincia di Latina con dei leoni addomesticati. Nella sequenza si vede chiaramente che la vittima è interpretata da tre persone diverse (un biondo, un moro e addirittura un calvo) e che il cadavere poi portato via era in realtà un pupazzo creato da Carlo Rambaldi (che inserì il lavoro nel suo ‘curriculum vitae’ destinato agli addetti ai lavori). <http://it.wikipedia.org/wiki/Ultime_grida_dalla_savana visitato l’ultima volta il 2 aprile 2024>.
Anche il sito IMDb, tra le curiosità riferite al film, mette in dubbio la veridicità della scena. <
http://www.imdb.com/title/tt0155306/trivia/?ref_=tt_trv_trv visitato l’ultima volta il 2 aprile 2024>. Si tratta di informazioni utili ma di cui, come detto, è impossibile verificarne la provenienza. 


Chi garantisce, se interpellato, di aver condotto accurate indagini da lunghissima data, è Daniele Aramu, 
l’autore della pagina Facebook dedicata ai Mondo Movie. Il 5 gennaio 2024 su questa pagina veniva pubblicato un post dedicato a Vivian Bristow, figlia di Carl: “Vivian Bristow è leggenda. Carl, il suo papà, aveva aperto il primo parco zoologico a Masvingo, nello Zimbabwe, nel 1968, inaugurando una tradizione familiare che si mantiene ancora oggi attraverso nipoti e pronipoti con la gestione di svariati parchi analoghi sparsi per il Continente Nero (e oltre). Vivian –detto Viv– già negli anni Settanta si era costruito una solida reputazione in qualità di animal-trainer presso il Ranch Resort <https://www.facebook.com/theranchproteahotel> a Limpopo (Sudafrica), offrendo i propri servigi, oltre che nel normale circuito turistico, nel cinema, nei documentari e nella pubblicità. Tra i film a cui ha collaborato, Ma che siamo tutti matti? (1982), Allan Quatermain e le miniere di re Salomone (1985) e, soprattutto, Ultime grida dalla savana (1975), nel quale veste i panni del mitologico Pitt Doenitz, ossia l’incauto turista cineamatore sbranato dai leoni. Naturalmente i leoni erano i suoi «gattoni», abilmente filmati e montati in maniera da simulare un’aggressione. Che poi erano «gattoni» per modo di dire: nel 1988 un malcapitato indigeno si era introdotto nottetempo nel giaciglio delle belve con l’intenzione di prelevare qualche libbra di carne. I suoi resti furono ritrovati soltanto una settimana dopo, a seguito della denuncia di scomparsa diffusa dai suoi familiari” <https://www.facebook.com/profile.php?id=100063474639539&locale=it_IT post del 5 gennaio 2024>.
Tutta questa attenzione per un brandello di film di pochi minuti potrebbe sembrare, e forse lo è, ingiustificata: ma è uno dei momenti più significativi, a suo modo, sella storia dei Mondo movie. Un qualcosa su cui è difficile farsi un’opinione, mancando basi concrete su cui formularla: in effetti, fu questa ambiguità una delle chiavi del successo degli shockumentary italiani.

Come detto Ultime grida dalla savana ottenne un ottimo riscontro di pubblico; tanto per cambiare, la critica non condivise tale entusiasmo. Ma, nella generale disapprovazione, ci fu anche qualche nota fuori dal coro: il quotidiano La Stampa, ebbe un approccio particolare al film. Il 4 settembre 1975 dedicò quasi metà della pagina degli spettacoli ad una descrizione minuziosa dei contenuti del film, corredando l’articolo con ben quattro foto. Da un punto di vista critico si può cogliere qualche interessante passaggio: “Ma la natura è davvero così meravigliosa? Lo è anche quando assume i toni di una sinfonia drammatica il cui tema è la violenza o la crudeltà? La natura ha le sue leggi, spesso più spietate di quanto si possa immaginare, ma tuttavia indispensabili per il suo equilibrio. L'uomo, dimenticando questa esigenza, tende a modificarle per accrescere il suo spazio vitale, per soddisfare il suo istinto aggressivo, per vincere una partita nella quale non poche volte è inizialmente il più debole. I fatti dimostrano che la vittoria dell'uomo può essere effimera, in quanto la sconfitta della natura è come un boomerang che ritorna per colpire chi l'ha lanciato. (…) Vi sono stati uomini che hanno esaltato la caccia come la prova suprema del coraggio virile. Tra essi, lo scrittore Ernest Hemingway. Ma, come tutti i poeti, Hemingway parlava del passato”. [C. M., Dalla savana il grido disperato della natura; La Stampa, anno 109, n. 203, giovedì 4 settembre 1975, pagina 7].

Due giorni dopo, lo stesso quotidiano torinese approfondì meglio l’argomento: “Sotto l'intento «ecologico», immagini raccapriccianti, come quella dell'uomo sbranato dal leone, con gusto masochistico. (…) Da Jacopetti a oggi il nostro cinema documentario ha allenato gli spettatori a digerire anche i bocconi più pesanti, anzi a ricercarli con gusto quasi masochistico. Nell'intenzione di Climati e Morra, come nel commento di Alberto Moravia, si avverte chiaramente una denuncia ecologica, una difesa degli animali che scompaiono per la furia sterminatrice dell’uomo. Ma il cinema è fatto di immagini, non di parole. Così, mentre conosciamo con simpatia il naturalista che ha scelto di vivere in amicizia con i lupi nelle foreste della Baviera e scopriamo gli affascinanti e crudeli metodi di caccia degli aborigeni australiani, eccoci spettatori atterriti della tragica fine del turista Pitt Doenitz, sbranato dai leoni in un parco africano, o dell'esecuzione sommaria di alcuni indios dell'Amazzonici catturati da killer delle compagnie commerciali interessate allo sfruttamento di quelle zone selvagge. Sono questi «2 documenti sconvolgenti» sui quali soprattutto punta il richiamo pubblicitario. Certo sono immagini che si inchiodano nella memoria, come il piccolo africano giustiziato dai mercenari ai tempi di Africa addio. Anche se invece dei fatti filmati impressiona sempre di più il sangue freddo degli uomini che stanno dietro la macchina da presa e magari hanno la furbizia e il mestiere di dedicarsi ai primi piani dei familiari della vittima chiusi in macchina mentre a pochi metri alcuni leoni finiscono il macabro banchetto. In sala, durante la proiezione di ieri pomeriggio, qualcuno fischietta mentre sullo schermo corrono le immagini dell'assassinio degli indios amazzonici e delle terribili mutilazioni che i carnefici eseguono sui loro corpi. É un modo di scaricare la tensione. La maggior parte del pubblico non sembra però turbato da questi episodi di atroce violenza. E coglie nel complesso soltanto il positivo messaggio ecologico rimasto sullo sfondo del film. Patrizia, studentessa, 23 anni, dice: «Mi piacciono molto i documentari e li seguo tutti. Questo ha momenti davvero terribili, ma l'ho trovato molto interessante ed educativo». «É pieno di belle scene ed ha anche momenti di poesia», aggiunge l'amica Antonella, di 19 anni, studentessa, «L'episodio del turista sbranato non mi ha colpito eccessivamente. É la verità e bisogna accettarla, così, senza commenti». Un signore di mezza età spiega: «Sono venuto a vederlo da solo perché mia moglie non sopporta le immagini di violenza. Penso di aver fatto proprio bene». Per Sandro, 18 anni, studente, il film dimostra che «gli animali sono migliori dell'uomo». La «maschera» della sala, 55 anni, conferma l'indice di gradimento della platea. «La pente esce soddisfatta –dice– il film piace. Alcune sequenze sono violentissime. Passo la vita al cinema e posso dire che raramente ho visto cose tanto forti. Comunque il pubblico sembra gradirle e quando esce non protesta». Anche la cassiera non ha ricevuto alcuna lamentela: «Non ci sono trucchi e gli spettatori non fanno reclami. Sanno quello che vengono a vedere. Dicono, ci sia una scena di leoni che sbranano un uomo. Penso che non mi fermerò mai in sala per vederla» [s. c.,Che grida crudeli dalla savana, La Stampa, anno 109, n. 205, sabato 6 settembre 1975, pagina 7].

È inusuale e comunque molto interessante, lo spazio che il giornalista dedicò ad una sorta di sondaggio presso gli spettatori, perché restituisce un’idea, seppur legata ad un numero limitato di testimonianze, di cosa potesse pensare il pubblico dell’epoca.
Tuttavia, attraverso il prezioso contributo di Jacopetti files possiamo notare come, nel complesso, le recensioni non nascondano il proprio disappunto: “ Spettatore avvisato, è il caso di dirlo, mezzo salvato: il film contiene due spezzoni documentaristici che sono fra i più agghiaccianti che ci si amasi stato dato di vedere”. [
Gianni Castellano, Il resto del carlino, 5 settembre 1975. Da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 238]. O anche: “Come nei film japottiani l’apparenza è moralistica (salviamo gli animali dai fucile e dall’inquinamento) quanto è falso e mistificatorio il discorso che, di fatto, appare sullo schermo”. [Vice, L’eco di Bergamo, 14 settembre 1975. Da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 239]. E per chiudere in bellezza: “Un nuovo documentario che sotto le apparenze di un discorso etnografico nasconde il morboso compiacimento per la distorsione raccapricciante e per gli effetti più appariscenti della violenza”. [A.V., «Il Secolo XIX», 6 settembre 1975. Da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 238].
Da un certo punto di vista, Ultime grida dalla savana è un film emblematico per i Mondo movie: è la dimostrazione che, anche qualora gli autori volessero fare qualcosa di diverso –La grande caccia– in realtà il pubblico esigeva ben altro: violenza, dura e realistica violenza. Era una necessità autentica degli spettatori? O era stata indotta da Jacopetti, Prosperi e compagnia? Sembra un po’ il classico quesito «è nato prima l’uovo o la gallina» e, in effetti, è difficile tracciare una linea precisa su dove finiscano i desideri spontanei e dove inizino quelli condizionati. In economia, raccontano che domanda e offerta siano in qualche modo collegate; ma questo è tanto più vero quanto siamo in un sistema in cui il mercato si basi soprattutto su beni di prima necessità. Nella società del consumo, del benessere e del superfluo, diventa più difficile capire cosa determini la richiesta di un prodotto, se una vera necessità da parte dei consumatori o un bisogno indotto artificialmente dalla pubblicità. Per avere conferma di questo dubbio basta guardarsi attorno: quante solo le cose che possiamo vedere a portata di sguardo e di cui potremo fare tranquillamente a meno? Lo stesso discorso, forse, di può ipotizzare per il cinema: i Mondo movie, con le loro scene violente, vere o false che fossero, rispondevano ad una esigenza reale degli spettatori? O semplicemente il pubblico ne era divenuto in qualche modo dipendente?
Quello che era certo, in quel 1975 in cui uscì Ultime grida dalla savana, era che ormai il pubblico premiava un film con scene esplicite di violenza, mentre ignorava un documentario più naturalistico come La grande caccia.
Questo aspetto, che –per via della particolare storia produttiva del film di Climati, Morra e Prosperi– emerge in modo chiaro, mette in secondo piano un’altra considerazione dichiarata in modo esplicito da Ultime grida dalla savana: l’attacco frontale a Walt Disney. Quasi a voler giustificare la violenza esplicita dei Mondo movie, gli autori di Ultime grida dalla savana si difendono attaccando i documentari edulcorati prodotti dalla Disney, dove il comportamento di alcuni animali veniva umanizzato, quasi fossimo in uno dei loro mitici cartoon, ma, per rendere plausibile la storiella educativa da trarre, si trascuravano alcuni effetti collaterali scomodi. Nel commento di Alberto Moravia letto da Giuseppe Rinaldi, si sottolinea, in effetti, come guardando gli orsi pescare i salmoni, nei classici documentari dello «studio» di Topolino, sia tipico soffermarsi sulle difficoltà dei plantigradi alle prese con gli sguscianti pesci, dimenticando che anche questi ultimi sono esseri viventi. Una polemica un po’ sterile, per la verità, perché i film Disney, al tempo, erano prevalentemente indirizzati ad un pubblico molto giovane che, in ogni caso, avrebbe avuto il tempo per farsi un’idea più attendibile sulle leggi della Natura. Non è accusando di scarsa credibilità la Disney che i Mondo movie possono in qualche modo riscattare la loro fama: semmai si può osservare come, almeno tecnicamente, i cineasti all’opera nel più vituperato genere del cinema italiano –in questo caso Climati alle riprese, Morra al montaggio, Prosperi alla revisione del tutto– siano preparati. Sulla pagina web della rivista Nocturno dedicata alla scomparsa di Antonio Climati, possiamo trovare l’analisi dettagliata di due sequenze cruciali in Ultime grida dalla savana, che dimostrano l’abilità di Climati e Morra. Il primo di questi passaggi è una danza di indigeni africani nudi in cui vengono mostrati senza alcuna reticenza alcuni nudi integrali maschili. Anzi, secondo l’articolo di Nocturno, c’è un’attenzione morbosa da parte della macchina da presa per i membri dei danzatori. In effetti sono magistrali tanto la scelta delle inquadrature, che il montaggio: geniale, poi –come sottolinea l’articolo in questione– la scelta di trovare una sorta di sospensione, tra i movimenti sincopati dovuti ai salti della danza, e l’uso del rallentatore, che ne dilata il ritmo narrativo. L’altra sequenza è, ‘ça va sans dire’, quella del turista sbranato dai leoni. Qui, l’articolo di Nocturno, si sofferma molto di più sulla costruzione del passaggio narrativo, sottolineando sia la perizia tecnica del montaggio, sia come sia volutamente intuibile che si tratti di una ricostruzione. Se si possono avanzare anche dubbi, in questo senso, è però difficile dare torto all’articolo quando evidenzia l’ironia con cui gli autori chiusero la sequenza: “ecco il fermo immagine della leonessa che tiene la cinepresa in bocca – una sottolineatura che ha il valore di una strizzatina d’occhio allo spettatore”. <
http://www.nocturno.it/antonio-climati-scompare-a-84-anni/ visitato l’ultima volta il 5 aprile 2024
>.
Nonostante le difficoltà a trovar la forma giusta, Ultime grida dalla savana riuscì –si potrebbe, o forse dovrebbe, azzardare anche un «meritatamente»– a rilanciare i Mondo movie quando ormai il fenomeno sembrava andare a scemare. Soprattutto, garantì a Antonio Climati e Mario Morra di girare immediatamente un nuovo documentario che, stando agli strilli sui quotidiani, sarebbe stato ancora più «impressionante».  


Galleria 




Il successo che rilanciò i Mondo movie fu, in quel 1975, Ultime grida dalla savana: al di là dei meriti specifici del film, fu notevole anche la colonna sonora che lo sostenne. Carlo Savina compose musiche di grande respiro orchestrale, tra le quali vale la pena ricordare Questa grande terra, e Caccia al cervo, pescando, nella composizione delle tante tracce, tra svariate ispirazioni nella storia della musica. Memorabili anche le canzoni, pubblicate anche come 45 giri: dal rock’n’roll di Leave the rest of me [C. Savina e G. Kopland] e For You and Me [C. Savina e G. Kopland], cantate da Gilbert Kopland, alla melodica My Love [C. Savina e G. Kopland] interpretata da Ann Collin. 



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lunedì 23 dicembre 2024

NOMERY

1596_NOMERY . Ucraina, Polonia, Francia, Cechia 2020: Regia di Oleh Sentsov e Akhtem Seitablaev

Visivamente, il lungometraggio sembra una mera rappresentazione teatrale ma, ad uno sguardo più attento, non si può dire che gli autori abbiano semplicemente piazzato la macchina da presa davanti al palcoscenico riprendendo attori e scenografia. Certo, c’è l’evidente volontà, espressa in modo cinematografico, e confermata poi dallo stesso regista in un’intervista a Cineuropa [dal sito Cineuropa.org, pagina web https://cineuropa.org/it/interview/386397/, visitata l’ultima volta il 3 novembre 2024], che la forma si adegui al contenuto, che era appunto prettamente di natura teatrale. Su questo argomento Sentsov non si dilunga in spiegazioni, ma sul fatto che l’impressione ricercata non fosse quella del classico film pare evidente sin dall’inizio, dove il montaggio, la vera essenza del cinema, è usato con parsimonia. Più appariscente, in questo senso, l’ambientazione, che sembra effettivamente il palcoscenico di un teatro, che alimenta la sensazione claustrofobica e la mancanza di vie di uscita. Efficace anche la fotografia di Adam Sikora, che riesce ad assecondare visivamente il surrealismo grottesco della vicenda. Nomery, in sostanza, utilizza gli strumenti propri del cinema per mettere in scena il teatro, ed è, quindi, un prodotto un po’ più raffinato di quel che può sembrare a prima vista. Nel surreale racconto su cui verte il film, i dieci personaggi hanno i numeri al posto del nome e vivono in un ambiente chiuso seguendo pedestremente un programma quotidiano che prevede alcuni passaggi obbligati. Due guardiani li tengono sotto tiro, letteralmente, nel caso i membri di questa bizzarra comunità si facessero venire strane idee, mentre a dirigere tutto quanto questo «mondo» è Zero (Viktor Adrienko). Zero, chiamato in causa spesso da First (Oleksandr Yarema) manco fosse una sorta di divinità, ha l’aspetto di un annoiato pensionato che si comporta come un capriccioso tiranno. Il citato First è, come prevedibile, l’attempato capoccia della combriccola, e non fa altro che badare a mantenere la propria posizione privilegiata, spalleggiato dalla prosperosa Second (Irina Mak), sua compagna per rigorosa convenzione numerica. Difatti, i numeri dispari sono uomini, mentre i successivi pari sono donne e le relazioni previste sono in ordine strettamente progressivo, primo e seconda, terzo con quarta e così via. Oltre ai citati capostipiti, tra gli altri membri si possono ricordare l’affascinante Fourth (Lorena Kolibabchuk), che scombina gli accoppiamenti previsti seducendo Seventh (Evhen Chernykov), vero protagonista della storia. In realtà il più autentico ribelle è Ninth (Aleksandr Begma), che si oppone apertamente alle assurde e inflessibili regole della anomala comunità, ma, dopo un iniziale tradimento, sarà proprio Seventh a raccoglierne il testimone. La natura ambigua di Seventh –resa evidente anche dalla relazione con Fourth senza per questo abbandonare la sua compagna prevista dall’ordine numerico, Eighth (Agata Larionova)– è un segnale da non sottovalutare. A rivoluzione completata, perché è di questo che parla Nomery, Seventh si rivelerà un tiranno assai peggiore di quanto non fosse Zero. Prima che ciò avvenga, fa la sua comparsa Eleventh (Maksym Devizorov) –il cui valore numerico lascia intendere che sia il figlio dal rapporto clandestino tra Seventh e Fourth– che altera l’ordine costituito ma, al momento della verità, si rivela un fuoco di paglia. Per una volta, considerato il messaggio piuttosto esplicito, tanto vale lasciare la parola all’autore a proposito del significato del film. “La pièce è stata scritta nel 2011, tre anni prima degli eventi di Maidan. Forse era una specie di premonizione, ma non c’era modo di sapere cosa sarebbe successo a me. Ma, in ogni caso, questa sceneggiatura simboleggia ciò che pensavo in quel momento sulla necessità di opporsi all'ingiustizia a cui stavo assistendo intorno a me. (…) Questo film è un’opera d’arte che avverte le persone di stare attente ogni volta che iniziano una rivoluzione. Quando sei in grado di rovesciare il vecchio regime, ciò non significa automaticamente che sei in grado di costruirne uno migliore. Quindi fin dall’inizio, devi concentrarti su come migliorare il tuo regno, non solo su quello nuovo”. [Ibidem]. Seppure come progetto originale avesse certamente una natura premonitrice, il film fu distribuito a fine 2020, quindi ben dopo le proteste di Euromaidan –o Maidan, a seconda di come le si vogliano chiamare– e la crisi che ne seguì. Tuttavia, come affermato dallo stesso Sentsov, in Nomery possiamo intravvedere l’incombere della catastrofe; e, in questo senso, il film è certamente molto efficace.