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martedì 23 aprile 2024

LA FORESTA DEGLI IMPICCATI

1472_LA FORESTA DEGLI IMPICCATI (Padura Spanzuratilor). Romania 1965; Regia di Liviu Ciulei.

Bastano un paio di minuti a Liviu Ciulei per impostare il suo La Foresta degli Impiccati. Dopo una breve didascalia introduttiva, la Macchina da Presa inquadra una strada polverosa, poi raggiungiamo una colonna di soldati dell’Impero Austroungarico in marcia. L’immagine è in bianco e nero, la musica un po’ straniante, la fila di soldati ripresa da dietro riempie presto lo schermo dei tipici Stahlhelme , gli elmetti che erano in uso agli eserciti degli imperi centrali. Improvvisamente, uno dei soldati si gira alle sue spalle, guardando nell’obiettivo della Macchina da Presa; la musica ha una fastidiosa e acuta dissonanza, l’immagine si ferma sul fotogramma. Irrompono i titoli di testa, poi si insiste sull’immagine del soldato che guarda indietro, finché si arriva all’inizio del racconto filmico vero e proprio. Ma in quell’ermetico incipit, c’è già il senso del film: cosa succede se, nel corso forzato degli eventi della Storia, qualcuno guarda dietro di sé? Cosa succede se a qualche individuo sorge il dubbio di verificare cosa ci si è lasciato alle spalle, quali sono i frutti del proprio agire? Insomma, la guerra è sempre uno dei momenti chiave della Storia, e i soldati che marciano compatti simboleggiano tutti coloro che si lasciano guidare dagli ordini senza tentennamenti, dubbi, rimorsi. Il soldato de La Foresta degli Impiccati che guarda alle sue spalle è il qualcuno di cui si accennava prima; uno che si pone un dubbio, che si fa un esame di coscienza. E’ infatti una scena simbolica, non essendo legata al resto del racconto; e il fatto che il militare guardi in macchina, suggerisce che è compito proprio del cinema cercare di fungere da coscienza e in questo senso va quindi interpretato il lavoro di Liviu Ciulei che va successivamente ad entrare nel vivo. Siamo nel fronte rumeno, durante la Prima Guerra Mondiale e la storia comincia con un’impiccagione per diserzione. A finire sulla forca sarà il tenente Svoboda che, in forza al suo nome (che in slovacco significa libertà) aveva cercato appunto di disertare. E’ il tenente Apostol Bologa (Victor Rebengiuc) a fornirci queste indicazioni, mentre informa il capitano Klapka (interpretato dallo stesso regista Liviu Ciulei), appena aggregatosi al reparto. Il lavoro di imbastitura di Ciulei è sopraffino, fin da questi primi dettagli: il protagonista della storia è Bologa che appare sicuro del fatto suo, preoccupato di mettere in piedi un’esecuzione a regola d’arte coi pochissimi mezzi a disposizione, addirittura fiero di aver fatto parte della corte marziale che ha condannato Svoboda. 

Klapka non sembra affatto così contento di vedere qualcuno giustiziato, forse perché è di origine ceca proprio come Svoboda. Il comportamento perplesso del capitano, le sue parole, cominciano a minare la sicurezza di Bologa. E’ la funzione del cinema, evidenziata dal fatto che il personaggio di Klapka è interpretato dal regista del film: fare sorgere almeno qualche dubbio. E in Bologa, una volta che si è aperto uno spiraglio nell’ipocrita adesione ai dettami militari, i dubbi fioriscono in quantità: lui è rumeno ma di un’area sotto l’Impero Austroungarico e quindi si trova ora a combattere i propri connazionali. E questa situazione alimenterà, ora che gli è venuta meno la completa e ottusa adesione ai dettami militari, i suoi tentennamenti, i suoi scrupoli. Al punto che lo stesso capitano Klapka si sentirà quasi in obbligo di farlo tornare su posizioni più opportunistiche, evitando cioè di mettersi in luce come disfattista presso il comando militare. Quasi come se il cinema possa, in qualche caso, superare gli intenti stessi dei suoi autori. La funzione del cinema e la sua potenza anche e soprattutto nei confronti degli autori e non solo del pubblico, è resa in modo esplicito dalla vicenda del riflettore. Un fascio di luce (il cinema?) proveniente dalle linee nemiche tormenta le notti di Klapka (la coscienza del regista?) che, per poter continuare a prestare servizio sotto l’esercito, ha bisogno che il proiettore venga fatto smettere. Il capitano, come detto, è di origine ceca ed è già stato sospettato di infedeltà all’Impero; un altro passo falso gli sarebbe infatti fatale. 

Ed è proprio a Bologa, colui di cui ha risvegliato la coscienza, che ordina di distruggere il faro. Bologa compie l’impresa, inoltrandosi oltre le linee nemiche e perdendo un cannone e alcuni uomini del commando: ma ai vertici militari pare comunque un’operazione di grande coraggio. Il tenente si lascia però sfuggire qualche perplessità e, proprio nel momento in cui è all’apice della sua carriera militare, comincia il suo declino, finendo sospettato di avere rimorsi di coscienza. Il tema delle diserzioni era probabilmente reale tra le fila di un esercito multietnico come quello Austroungarico; il regista se ne serve per un primo passo nell’ottica di una presa di coscienza di quanto la guerra sia inaccettabile anche da un punto di vista laico e non solo religioso, come sembrava poter essere interpretabile dal racconto di Liviu Rebreanu all’origine del soggetto. La traccia religiosa, intuibile già dal nome del protagonista, Apostol, non può però essere trascurata dal film: saranno dodici, proprio come gli apostoli, i contadini impiccati perché volevano arare il terreno per la semina e questo mal si conciliava con le esigenze belliche. Quando questi poveretti vedono Bologa, rumeno come loro, si illudono che possa fare qualcosa per salvarli: in effetti, con evidente sadismo, il comando ha designato proprio il tenente per presiedere la corte marziale che deve condannare (la sentenza era già decisa) i suoi connazionali. Ma se Bologa è una figura salvifica, lo è solo in senso morale, proprio come Cristo: non manca nemmeno l’ultima cena, offertagli dalla dolce Ilona (Ana Széles). Le donne della storia rappresentato le possibilità di scelta per l’uomo: c’è Roza (Gina Patrichi), la prostituta, che offre una vita di piacere, cogliendo le opportunità; c’è Marta (Mariana Mihut), la sposa promessa, tutta superficialità e conformismo; e c’è Ilona, la povera contadina. Ormai Bologa non può più accettare, non solo la volgarità di Roza, ma nemmeno l’ipocrisia borghese di Marta: ma Ilona appartiene a quella gente che il tenente è chiamato a condannare a morte. 

La Foresta degli Impiccati è un testo morale, che riflette sulla coscienza dell’individuo e, in questo, riesce a divenire quindi universale. Per questo la varie tracce, quella privata (i rapporti con le donne), religiosa (la sua crisi morale), nazionale (il non voler combattere i nemici suoi compatrioti) si fondono in una teoria universale, suggerita nel film dalla presenza del soldato Johan Maria Müller (Emeric Scháfer). Müller nella vita civile ha un negozio di libri e quindi è depositario, in un certo senso, del sapere, della cultura collettiva. Oltre a Johan, il nostro porta il nome di Maria, cosa sottolineata con scherno in più di un passaggio nel film: Maria è un nome femminile, infatti, ma questo simboleggia l’universalità del personaggio che, con i suoi discorsi pacifisti, contribuisce alla redenzione morale di Bologa. Insomma la vicenda, che si avvale della solida base del citato libro preso a soggetto, è molto ben strutturata. Da un punto di vista formale prettamente cinematografico l’opera è altrettanto sorprendente: Liviu Ciulei si affida pochissimo al montaggio, preferendo riprese lunghe, quasi veri e propri piani-sequenza. La Macchina da Presa è in costante movimento, ora sinuoso, ora con violente panoramiche; l’impressione è di una rappresentazione realistica, in quanto poco artefatta. 

E’ un modo di interpretare il cinema molto raffinato, perché si rende una messa in scena che quasi ostenta i limiti del mezzo tecnico della ripresa, e che il montaggio maschera in modo pressoché perfetto, per rendere la ripresa stessa più credibile. E anche la scelta del bianco e nero sembra andare in questa direzione: si è optato per la soluzione fortemente non realistica (visto che la realtà è a colori) che era uno dei limiti storici del cinema, per conferire al testo un sapore documentaristico rievocando le immagini in bianco e nero che sono emblema della Grande Guerra. Perfino la musica lavora in modo non lineare, presentandosi con suoni ben poco armonici ma riuscendo, nel corso del lungometraggio e nel suo complesso, a creare un’atmosfera perfettamente complementare al testo filmico. Non a caso per La Foresta degli Impiccati Liviu Ciulei vinse il premio come miglior regia al Festival di Cannes del 1965, sebbene va detto che non sia un testo facilissimo. Il lavoro avvolgente del regista rumeno, inizialmente, può lasciare un po’ straniti; inoltre l’azione è praticamente assente e tutto lo sviluppo è affidato ai dialoghi o alla messa in scena, sobria e severa ma indiscutibilmente evocativa, si prenda la sequenza con i dodici impiccati come esempio. Insomma, un film che è davvero un esame di coscienza: duro, senza sconti ma, proprio per questo, gratificante.  






Anna Széles




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