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martedì 21 settembre 2021

IL GIARDINO DEI FINZI CONTINI

895_IL GIARDINO DEI FINZI CONTINI; Italia, 1970; Regia di Vittorio De Sica.

Il giardino dei Finzi Contini è un film di Vittorio De Sica tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani; il quale, dopo aver partecipato alla stesura della sceneggiatura, ritira la sua firma, non riconoscendo, nella messa in scena prevista, il suo lavoro letterario. Rimanendo così sul testo filmico, sorprende un po’ la evidente ricerca calligrafica di De Sica, palpabile sin dalle prime inquadrature. La pellicola regala immagini soffuse, ovattate, come se l’autore fosse alla ricerca di una poesia rispondente ai più canonici cliché. Anche gli attori scelti danno l’impressione di suffragare quest’idea: Lino Capolicchio nei panni di Giorgio e Domenique Sanda in quelli di Micol Finzi Contini hanno i volti rosei e puliti di innocenti ragazzetti di campagna. Forse De Sica si fa prendere un po’ la mano in quest’ottica naif, perché l’entrata in scena del gruppo di giovani in bicicletta, che ci introduce nel film, sembra quella di una recita in un teatro di periferia e non quella di una pellicola che ha vinto l’Oscar come migliore film straniero. A questi personaggi angelicamente ambigui nella loro indeterminatezza, si aggiunge un altro tipo di ambiguità, quella di Alberto Finzi Contini interpretato da Helmut Berger: la sua omosessualità e la sua salute cagionevole sono ulteriori elementi che rinforzano l’impressione di trovarci di fronte ad un mondo chiuso su sé stesso, estraniato dalle grave e prosaica realtà degli anni Trenta italiani. La presenza di Fabio Testi (nella parte di Malnate) potrebbe essere un elemento di rottura: al contrario degli altri interpreti ha una presenza scenica prorompente (ma non una corrispondete capacità recitativa) e non ha caso Micol se ne invaghisce. Purtroppo anche il Testi, attore più incline al fotoromanzo che al cinema, contribuisce a dare l’impressione di una ricerca di sentimentalismo poetico un po’ troppo a buon mercato. Forse l’idea di De Sica era creare un universo sfumato in cui i protagonisti facessero fatica, proprio per il loro vivere fuori dal mondo, a comprendere quello che gli stava accadendo. Un po’ come, all’interno del racconto filmico, i benestanti ebrei (i Finzi Contini) non arrivavano nemmeno a concepire che potessero essere deportati, dall’alto della loro condizione di agiati borghesi. In questo senso il film è funzionale, quello che non sembra tornare è la nostalgia che pervade quello sguardo verso un mondo calligrafico, di maniera, estraneo alla realtà, di cui non si riesce proprio a sentire la mancanza.







Dominique Sanda



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