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domenica 29 giugno 2025

LA PISANA

1690_LA PISANA , Italia 1960. Regia di Giacomo Vaccari

Questo interessante sceneggiato di Giacomo Vaccari è andato distrutto in un incendio e non ne rimane che un frammento. Tuttavia, stante la scarsità di opere riconducibili a Vaccari, vale la pena approfondire un minimo un serial televisivo che, stando a quanto si può intuire, era davvero di pregevole fattura. La Pisana è tratto da Le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo e, secondo Aldo Grasso è una felice trasposizione televisiva del romanzo: “La voce fuori campo del protagonista, che rivive il suo appassionato amore adolescenziale, ripropone la limpida prosa di Nievo, alternando le vicende sentimentali a quelle patriottiche. (…) Vaccari, impegnato in una delle sue prime prove, dimostra grande abilità nel tratteggiare le scene con pochi e sapienti tocchi.» [dal blog di Silvia Iannello, pagina web https://silvia-iannello.blogspot.com/2013/06/giacomo-vaccari-e-i-grandi-sceneggiati.html, visitata l’ultima volta il 15 giugno 2025]. Aldo Nicolaj, che curò la sceneggiatura insieme a Marcello Sartarelli, descrisse sulla pagine del Radiocorriere l’attenzione con cui si adattarono le pagine di Nievo: “Crediamo di non aver mai tradito il Nievo, in quanto abbiamo sempre preso dalle pagine del suo romanzo lo spunto e l’ispirazione per rendere più accessibile al grande pubblico quest’opera (…) Molti erano i modi di affrontare la riduzione: noi abbiamo preferito penetrare nel vivo del romanzo attraverso lo stesso racconto del protagonista, che consente di far arrivare al pubblico – quando la narrazione lo permette – l’armoniosa prosa del Nievo. Attraverso la voce del protagonista, rivivrà così l’appassionata storia d’amore tra la Pisana (Lydia Alfonsi) e Carlino (Giulio Bosetti), sullo sfondo storico della vita italiana negli anni che vanno dalla Rivoluzione Francese alla morte di Napoleone. (…) Logicamente, nello sceneggiato, così come nelle pagine di Nievo, la storia d’amore tra la Pisana e Carlino non è fine a sé stessa, ma costituisce un pretesto romantico per raccontare com’è stata dura e sanguinosa la nostra Storia negli anni prerisorgimentali, quando pochi uomini, col loro sacrificio, hanno preparato l’avvenire dell’Italia”. [Aldo Nicolaj, La Pisana, Radiocorriere Tv, n. 43, 1960, pag. 43]. E, leggendo queste parole, il rimpianto per l’impossibilità di una visione completa dell’opera, non può che aumentare.  

venerdì 27 giugno 2025

PAPARINO

1689_PAPARINO , Italia 1959. Regia di Giacomo Vaccari

In origine, quella che venne chiamata «prosa televisiva» in Rai consisteva in una sorta di «teatro filmato» che, con i suoi tempi, evolse poi nei celebri Sceneggiati come oggi li ricordiamo. In effetti questo tipo di produzioni erano trasmesse con una certa frequenza dall’emittente nazionale e ci sono autori, come ad esempio Giacomo Vaccari, che prima di focalizzare il loro lavoro sul nuovo «genere» –lo sceneggiato televisivo, appunto – si cimentarono spesso con questo tipo di opere. I debiti con il teatro sono enormi, in sostanza si potrebbero definire gli studi di registrazione Rai come un vero e proprio palcoscenico e l’udienza televisiva come gli spettatori accorsi per la rappresentazione. Come detto Vaccari realizzò numerosi di questi che vengono comunque considerati film a tutti gli effetti, almeno stando alle sue filmografie reperibili in rete; nel 1959 la Rai tramise Paparino, una commedia tratta da una pièce di Dino Falconi. Correva il 1949 quando Falconi scrisse appunto Paparino, una commedia leggera piena zeppa di equivoci, in una stagione in cui il teatro era concentrato su altri temi, più seri e drammatici: eppure all’Olimpia di Milano, il pubblico apprezzò. [Baglio Gino, Tre atti farseschi di Dino Falconi, Paparino, Radiocorriere Tv, n. 45, 8-14 novembre 1959, pagina 43]. Dopo un passaggio in radio nel 1951, la commedia di Falconi approdò anche in televisione, per una messa in scena, come detto, diretta da Giacomo Vaccari. I crediti attribuiscono lo scritto anche a Luigi Motta, coautore insieme al già citato Falconi, per quel che riguarda gli interpreti protagonisti si possono ricordare Umberto Melnati, è Stefano Marchi, Anna Menichetti, è Marta, e Mario Scaccia, è Giuseppe Marchi. 

Al netto dei continui imbrogli ed equivoci della trama, il canovaccio verte sulla contrapposizione tra i fratelli Marchi: Stefano, autore di commedie, e Giuseppe, operoso imprenditore. Tanto il primo è un perdigiorno, spendaccione, e sensibile al fascino delle attricette, come Marta, che frequentano il suo ambiente, quanto l’altro è morigerato e austero, ligio ai severi doveri famigliari. Un’impostazione che ricorda Signori si nasce [
Signori si nasce, Mario Mattoli, 1960], con Totò nel ruolo del fratello frivolo e spendaccione e Peppino De Filippo in quelli del serio lavoratore, del resto anche il film di Mattoli si basava appunto sulla commedia di Falconi. La prosa televisiva della Rai del 1959 non era paragonabile al contemporaneo cinema di Cinecittà, così come Umberto Melnati e Mario Scaccia non reggono il confronto diretto con Totò e Peppino. E anche il pur volenteroso Giacomo Vaccari, chiamato ad una gestione discreta della ripresa televisiva, non può competere con un vecchio marpione della Settima Arte come Mattoli, al tempo all’apice di una lunga e fortunata carriera. E, già che ci siamo, anche da un punto di vista del fascino femminile, la pur gradevole Anna Menichetti non ha certo il fascino di Delia Scala che, al tempo di Signori si nasce, aveva una trentina d’anni ma la proverbiale freschetta assolutamente inalterata. Eppure, Paparino non sfigura affatto nel confronto complessivo con l’illustre rivale cinematografico o, perlomeno, raggiunge il suo scopo, divertendo e facendo sorridere quando non ridere gustosamente. Di più: nel film televisivo, la critica sociale, l’accusa al perbenismo borghese, appare più efficace, perché Giuseppe, quando è vittima dell’ultimo inganno, essere accusato di avere avuto una scappatella ai tempi dell’università, accusa il colpo. La verve di Totò e l’accondiscendente capacità di fargli da spalla di Peppino, disinnescano, al contrario, questi aspetti «impegnati» del testo, che nell’opera di prosa televisiva emergono ancora graffianti. E, a conti fatti, non solo tra Paparino e Signori si nasce un confronto non è del tutto fuori luogo, ma potrebbe avere esiti sorprendenti.   


mercoledì 25 giugno 2025

L'IMBROGLIO

1688_L'IMBROGLIO , Italia 1959. Regia di Giacomo Vaccari

L’adattamento televisivo di commedie teatrali non sembrava lasciar spazio all’espressione artistica del regista di questo tipo di opere. Per capirci, spesso, il Radiocorriere Tv, che era l’organo di stampa ufficiale della Rai, in alcuni articoli di approfondimento manco si prendeva la briga di citare chi fosse dietro la telecamera. Del resto le prime riduzioni televisive erano sostanzialmente teatro filmato e la mano in regia era effettivamente tanto discreta da passare inosservata. In genere, comprensibilmente, era data più importanza all’autore del soggetto, soprattutto quando si trattava di opere letterarie famose, in qualche caso si sottolineava chi curava l’adattamento, in buona sostanza la sceneggiatura; quasi mai si teneva in considerazione chi dirigeva effettivamente la ripresa televisiva. Se potrebbe trattarsi di una sorta di mancanza, in senso assoluto, vista l’importanza di chi mette comunque l’ultima parola, quando c’è Giacomo Vaccari dietro la telecamera è una vera e propria ingiustizia. Vaccari aveva uno stile che, nonostante il garbo e la discrezione tipica delle «Riduzioni televisive» non venisse mai tradito, si percepiva distintamente. Si veda, ad esempio, la scena dello scherzo col formaggio sostituito dal sapone, in avvio de L’imbroglio: i personaggi della pensione ridono sguaiatamente in modo grottesco, in netto contrasto tanto con il clima narrativo del racconto quanto con il contesto. Certo, c’è da subito una caratterizzazione un po’ forzata delle figure, si pensi a Edvige (Betty Foà), la cameriera, o al vecchio impiegato (Achille Majeroni), ma la risata generale sembra effettivamente eccessiva nei toni. Gilberto Loverso, nel suo articolo sul Radiocorriere Tv, citava naturalmente Alberto Moravia, autore del racconto rappresentato, e Marco Visconti, lo sceneggiatore, ma dei meriti di Vaccari nessuna traccia. [Gilberto Loverso, L’imbroglio, Radiocorriere Tv n.17, 1959, pagina 34]. 

Opinioni legittime, sia chiaro, eppure anche l’utilizzo della musica, sin dai titoli di testa con la canzone di Domenico Modugno Piove (Ciao ciao Bambina), un pezzo forte e riconoscibile, ma anche durante il racconto, per sottolineare i momenti romantici che tradiranno il protagonista, sembrano scelte «registiche» in tutto e per tutto. O lo stesso incipit, con il protagonista, Gianmaria (Stefano Svevo), di cui ascoltiamo i pensieri, come partecipando con lui allo spettacolo che prenderà, per convenzione, ufficialmente il via dopo i crediti con la carrellata degli artisti impegnati. Forse Giuliana Lojodice sembra enfatizzare troppo il suo ruolo, in avvio, ma poi ci si rende conto che il suo registro interpretativo è perfetto per il personaggio di Santina, ragazza duplice, e la scena dello specchio è puro cinema da grande schermo, che inganna fin dal nome. Ottimo, seppur in un ruolo minore, Ubaldo Lay, dal momento che l’attore romano aveva un che di ambiguo che si esaltava nelle figure di individui discutibili. L’amarezza del racconto di Moravia sembra davvero terribile e, seppur si può trovar soddisfazione nello scorno di Negrini (il personaggio di Lay) e della sua degna compagna, la signora Cocanai (Laura Carli), certo la punizione per la malriposta ingenuità di Gianmaria appare anche eccessiva. O forse no; forse le centomila lire che Gianmaria regala a Santina non sono la tassa dell’ingenuo. In effetti, nel finale, la direttrice della pensione (Lia Angeleri), rimprovera Gianmaria di essere avventato e non ingenuo. Ecco, L’imbroglio che metteva in guardia l’individuo dal non credere alle facili promesse o alle storie strappalacrime, non voleva smorzare la fiducia nel prossimo, ma la dabbenaggine tipica di chi crede alle frottole per inseguire sogni di vanagloria. Al contrario, una certa ingenuità di fondo e la fiducia nel prossimo sono valori, ed è sacrosanto preservarli. Prova ne è la direttrice che rende l’orologio avuto in pegno da Gianmaria, rinnovandogli la propria fiducia. 


lunedì 23 giugno 2025

IL CLUB DEI SUICIDI

1687_IL CLUB DEI SUICIDI , Italia 1957. Regia di Giacomo Vaccari

L'anno successivo al 1956, che aveva visto il suo esordio alla regia televisiva con Cabina telefonica, Giacomo Vaccari alza il tiro e prova, con successo, una trasposizione da un autore davvero illustre: Robert Louis Stevenson. L’autore scozzese, noto principalmente per Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde [1886] e L’isola del tesoro [1883], aveva scritto molti altri romanzi e racconti, e Pier Benedetto Bertoli è incaricato di trattare Il Club dei Suicidi per una riduzione televisiva, poi messa in scena e ripresa dal regista Giacomo Vaccari. Lo sceneggiato Rai è un film di un’ora e mezza scarsa e Bertoli si concentra sul primo dei tre episodi narrati da Stevenson, ovvero quello che nell’originale si intitolava Storia del giovane che distribuiva paste alla crema. Nel film, questo giovane (Paolo Carlini), si presenta bruciando sterline in una locanda, tra lo sgomento degli astanti. In questa prima carrellata sul volto degli avventori di un bar piuttosto sordido, si intuisce già la poetica di Vaccari: le facce, riprese tanto vicine da essere quasi deformate grottescamente, sono immobili, quasi fossimo di fronte ad un dipinto espressionista. L’effetto grottesco è, per la verità, troppo teatralmente enfatizzato e, a vederlo oggi, desta certo qualche perplessità; tuttavia va detto che Vaccari lo utilizza in questo modo estremo solo in avvio, per suggerire sin da subito il tono del suo racconto. Va infatti considerato che il film era previsto per la serata televisiva dell’unico canale Rai che, al tempo, trasmetteva nel Paese con chiari intendi educativi e divulgativi. Un testo di Robert Louis Stevenson era certo un titolo di merito per gli autori della rete nazionale, ma va detto che Il Club dei Suicidi, come lascia già intendere il titolo, affronta un tema molto delicato. L’atto di togliersi la vita è considerato, oltre che discutibile moralmente, soprattutto un gravissimo peccato dalla dottrina cristiana e in quegli anni Cinquanta la televisione aveva ancora un rispetto assoluto per quella che era la religione più largamente diffusa nel Paese. L’argomento è sviluppato dal racconto di Stevenson in modo sorprendentemente acuto, perché attraverso la trama abbiamo la scissione dell’atto suicida nelle due parti che lo compongono: l’omicidio e la morte. Questo permette di focalizzarsi meglio su ciascuno dei due punti cruciali che l’autoeliminazione porta con sé, quando, al contrario, il fatto che queste sue due componenti siano nel suicidio riassunte in un unico gesto, rischia di mandare ogni riflessione in proposito in cortocircuito. Se chi vuol morire può legittimamente accettare la morte, è più difficile da condividere l’idea di uccidere qualcuno, sebbene anche questo si sottoponga volontariamente al fatto di essere ammazzato. 

Qui sta la genialità di Stevenson, che dimostra come uccidere sia contrario, se non alla nostra natura, quantomeno alla nostra cultura, alla nostra morale; e non conta che la persona da ammazzare voglia morire, appare comunque chiaro ed evidente che si tratta di un’azione abominevole. A questo punto è perfino superfluo sostituire la persona «altra» da uccidere con sé stessi, per comprendere come il suicidio sia, di fatto, inaccettabile per le nostre comuni convinzioni morali. Nel film, il famigerato Club dei Suicidi è gestito dal Presidente (Tino Bianchi), mentre i veri protagonisti del racconto sono Lord Nevil (Leonardo Cortese) e il fido Gerald (Gainni Bortolotto). I quali, nella taverna dell’incipit sopradescritto, assistono incuriositi il baldo giovanotto prima bruciare sterline, poi pagare da bere a tutti gli avventori, quindi ballare ma sempre lasciando intendere una profonda disperazione. Nevil e Gerald decidono di scoprire le ragioni di questi bizzarri comportamenti e, fingendosi a loro volta in condizioni sciagurate, riescono ad entrare in confidenza con il giovanotto, che li invita a seguirli ad una misteriosa riunione: il Club dei Suicidi, appunto. In una bella scena pregna di suspense, i convenuti alla serata si siedono ad un tavolo e il Presidente distribuisce le carte: l’asse di fiori indicherà chi, per l’occasione, sarà il Gran Sacerdote della Morte ovvero l’assassino, l’asso di picche chi il prescelto per raggiungere l’obiettivo comune: morire. In questo modo l’atto di suicidarsi, che racchiude l’uccidere e il morire in un unico gesto, viene separato in due azioni distinte: questo consente di aver meno timore in colui che deve uccidere, in fondo a morire sarà un’altra persona. Ma, nel contempo, questa curiosa soluzione, uccidere un aspirante suicida, evidenzia l’atto criminoso che l’uccidere, chiunque sia la vittima, contiene. Stevenson, e di conseguenza lo sceneggiatore Bertoli e il regista Vaccari, con una manovra narrativa rendono evidente una questione morale che, spesso, è ancora dibattuta: è lecito, moralmente parlando, il suicidio? Non secondo la nostra cultura e tradizione di cui la morale a cui facciamo riferimento, è la più alta espressione: il tutto ben evidenziato in un semplice film televisivo. Era il 1957 e la Rai, grazie al prezioso lavoro di autori come Giacomo Vaccari, stava inaugurando la felice stagione degli sceneggiati.  


sabato 21 giugno 2025

CABINA TELEFONICA

1686_CABINA TELEFONICA , Italia 1956. Regia di Giacomo Vaccari

Presentato da Aldo Grasso come “il più moderno e sensibile regista della televisione italiana” [Televisione, Le Garzantine, Garzanti Editore, Milano, 2008] Giacomo Vaccari è scomparso prematuramente all’età di 32 anni lasciando un grande rimpianto dal punto di vista artistico oltre che naturalmente umano. Nel 1956 avviene il suo esordio alla regia, per un filmato breve, circa mezz’ora, ma interessante sotto più aspetti: Cabina telefonica, tratto da una rappresentazione teatrale opera di Peter Brook, rappresenta uno dei primi esempi di prosa televisiva in Rai. In effetti, siamo di fronte ad una sorta di «teatro filmato» ma la mano di Vaccari non si limita ad una mera rappresentazione del palcoscenico. Al contrario, è attiva, si muove, si avvicina, segue il protagonista, uno straordinario Arnoldo Foà, partecipa e soffre con lui: non è una tipica regia televisiva, quanto piuttosto un tentativo di utilizzare uno stile di ripresa più cinematografico. Il testo di Brooks è stringato e, per farlo risaltare, Vaccari forse pensa non basti la pur superba interpretazione di Foà, per quanto l’attore faccia ricorso al suo ampio bagaglio di recitazione teatrale. Negli anni a seguire, gli sceneggiati Rai troveranno un sapiente equilibrio sfruttando la tipica enfatizzazione del registro interpretativo proprio degli attori da palcoscenico, grazie al quale riusciranno a supplire una indubbia povertà di mezzi del media televisivo rispetto al cinema. Vaccari, sin dai primordi della Tv italiana, i tardi anni Cinquanta, sin dal suo esordio sul piccolo schermo, sembra dire, piuttosto, che anche la ripresa televisiva deve osare di più, deve essere più autoriale. Cabina telefonica è solo un assaggio del suo stile ma lascia intravvedere potenzialità che, purtroppo, se avranno forse modo di sbocciare completamente non lo faranno nella quantità auspicabile. Nel racconto in questione, Foà è Richard, un delinquente di mezza tacca londinese, che cerca disperatamente di parlare al telefono con Colly, un pesce più grande di lui, al quale deve soldi o altro, e che vuole farlo fuori. Per un contatto fortuito delle linee telefoniche, Richard entra in comunicazione con Gladys, una ragazza, con la quale si intrattiene in una conversazione assurda mentre, facendo il cascamorto, aspetta il momento di richiamare Colly. Ma quando la situazione diventa più critica, e diviene chiaro che il suo creditore ha già deciso la sua sorte, Gladys diviene ben più di un piacevole intermezzo, diventa l’ultima speranza. Vana, naturalmente. 

giovedì 19 giugno 2025

BUONASERA CON... GIACOMO VACCARI



Regista televisivo ormai dimenticato, Giacomo Vaccari, prima di scomparire prematuramente, diresse alcuni interessanti sceneggiati. Sarebbero degne di attenzione anche le sue riduzioni televisive, forme embrionali degli sceneggiati veri e propri che, purtroppo, sono perlopiù molto difficili, se non impossibili, da reperire. In ogni caso, anche l'esiguo materiale a disposizione merita di essere preso in considerazione per una visione che regala esiti anche sorprendenti. 

Il programma delle recensioni previste:

1956 CABINA TELEFONICA 

1957 IL CLUB DEI SUICIDI 

1959 L'IMBROGLIO 

1959 L'IDIOTA (si rimanda al link Quando la città DORME: L'IDIOTA )

1959 PAPARINO 

1960 LA PISANA 

1964 MASTRO DON GESUALDO 

martedì 17 giugno 2025

LA SECONDA MOGLIE

1685_LA SECONDA MOGLIE (The second woman)Stati Uniti 1951. Regia di James V. Kern

Per una volta, possiamo perdonare la faciloneria dei distributori italiani che decisero di intitolare La seconda moglie, il film dello sconosciuto James V. Kern che, nell’originale ha certamente un nome più pertinente, The second woman, ovvero «la seconda donna». Evidentemente, la voglia –leggi la possibilità di incrementare i guadagni al botteghino– di rendere esplicito il rimando al capolavoro hitchcockiano Rebecca – La prima moglie [Rebecca, di Alfred Hitchcock, 1940] era troppo forte per resisterle. E, in effetti, i riferimenti al celebre film del maestro inglese sono evidenti, sebbene se ne potrebbero trovare anche altri, ad esempio Angoscia [Gaslight, di George Cukor, 1944] per quel che riguarda il «decor» di certi ambienti. Ma rischieremmo di affossare troppo La seconda moglie che non ha la statura artistica cinematografica di quei capolavori. E sarebbe un peccato, perché il film di Kern è un onesto intrattenimento che sfrutta gli illustri capostipiti del genere per inserirsi discretamente nella loro scia, senza pretese autoriali ma approfittando del contesto ormai consolidato per giocare la sua partita mistery. Il tema è, infatti, di natura «gialla» con un enigma da risolvere che riesce, a distanza di tanti anni, a sorprendere ancora lo spettatore. La costruzione dell’incastro misterioso, infatti, è costruita coi tempi giusti e l’insorgere sul dubbio di chi possa essere il vero colpevole colpisce lo spettatore giusto un attimo prima della rivelazione della trama sullo schermo, esattamente come dovrebbe fare un Giallo da manuale. Certo, la sceneggiatura ha qualche forzatura, ma siamo nel campo di un film smaccatamente di genere, che ammette sin da subito di sfruttare l’eco dei più importanti esempi del filone. E se in questo ambito La seconda moglie ammette senza pudore il suo essere dichiaratamente opera minore, dal punto di vista formale il film è di ottimo livello, come si conviene alla Hollywood del tempo. Le location suggestive –la casa sulla scogliera, il mare ruggente sugli scogli– sono fotografate in un bianco e nero che attinge direttamente dai noir del decennio al tempo appena trascorso. 

Gli arredi delle case, i dettagli degli interni, certe inquadrature audaci, rimandano invece all’horror, per un mix comunque ben calibrato. Robert Young –nei panni di Jeff Cohalan, il protagonista vittima di una sorta di complotto che lo vuole distruggere– se la cava con la tipica nonchalance. A dargli man forte, e a salvarlo in dirittura d’arrivo della vicenda, c’è la controparte femminile, Ellen Foster, a cui Betsy Drake dona garbo e dolcezza ma a cui manca forse un po’ di consistenza scenica. Tuttavia la cosa, considerato il tenore di La seconda moglie, non disturba affatto la visione. E, come accennato, per una volta non disturba nemmeno il titolo italiano che riesce a essere doppiamente fallace; il che è, a suo modo, una sorta di record. Perché il titolo fa riferimento a due mogli del protagonista che, in realtà, non si sposa mai. Si è detto che Jeff è al centro di un complotto, per via del quale si sente invece perseguitato dalla sfortuna; o è, piuttosto, il senso di colpa per la morte di Vivian (Shirley Ballard), la sua fidanzata? Perché, a differenza da quanto indicato dal titolo italiano, la prima donna del protagonista muore durante un ricevimento prima delle nozze, e quindi quando ancora non è sua moglie. Ma neanche Ellen, la presunta seconda moglie a cui fa esplicitamente riferimento il titolo italiano, fa in tempo a sposarsi Jeff che, per quel che si vede nel film di Kern, rimane scapolo fino ai titoli di coda. Se non fosse che l’equivoco è tutto italiano, si potrebbe perfino pensare che il regista ci scherzi su: manca poco al sipario, i due protagonisti si stagliano su quel rabbioso mare che ha fatto da sfondo a tante scene del film ma la musica ci fa ampiamente capire che siamo al lieto fine. Jeff chiede quindi il permesso di formulare una domanda e Ellen si illumina in volto: in effetti sembra proprio la premessa per una richiesta di matrimonio. Invece l’uomo chiede delucidazioni su come la ragazza, esperta in materia di calcoli statistici per una compagnia di assicurazioni, sia riuscita a risolvere il giallo e a salvarlo per tempo. Ma è solo un diversivo, perché l’amore sboccia per il classico appassionato bacio finale e per il matrimonio ci sarà certo tempo in seguito. Ai distributori italiani rimane il record di due errori in un unico titolo. 





domenica 15 giugno 2025

LA SPIA DEI LANCIERI

1684_LA SPIA DEI LANCIERI (Lancer spy)Stati Uniti 1937. Regia di Gregory Ratoff

Basato su un soggetto non propriamente credibile, La spia dei lancieri di Gregory Ratoff è un curioso film che fa di una certa leggerezza la sua carta vincente seppur la trama dovrebbe, visto i presupposti, vertere su ben altro tenore. In effetti il protagonista, che è stato ficcato in una situazione di grandissimo pericolo e sua moglie addirittura si crede già vedova, sostanzialmente se la spassa con una sventola del calibro di Dolores del Rio, vera star della pellicola. Eppure, forse proprio in questa discrepanza, in questo volar basso dal punto di vista della tensione della messa in scena rispetto ai presupposti, c’è l’alchimia che permette al film di funzionare. Ma andiamo con ordine: la nota meno plausibile del racconto, e che ne mina la credibilità sin dalle fondamenta, è che gli inglesi catturino un ufficiale tedesco che è il sosia sputato di un loro tenente. Siamo nella Prima Guerra Mondiale, il barone von Rohback (George Sanders), una volta catturato, viene studiato di nascosto dal tenente Bruce (ovviamente lo stesso Sanders) che ne prenderà il posto inscenando una fuga per intrufolarsi nel quartier generale tedesco in qualità di spia. Per evitare fuoriuscite di notizie bisogna però far sparire il tenente inglese e si pensa di diffondere la notizia della sua morte, addirittura pubblicandone una sorta di necrologio sui giornali. Se la cosa può sembrare anche plausibile, è in realtà un altro passo falso del soggetto (oltre che degli inglesi) perché fornisce ai tedeschi l’informazione che tra gli ufficiali nemici c’è un sosia di von Rohback. Il passaggio è poi sfruttato, effettivamente, dall’ufficio della polizia segreta tedesca, in cui troviamo anche Peter Lorre nei panni del maggiore Gruning, ma sembra comunque un errore dilettantesco che agenti del controspionaggio non dovrebbero commettere. Insomma, si capisce ben presto che non sarà la credibilità della storia il punto di forza di questo La spia dei lancieri. Se Sanders prova a sfruttare la sua duttilità per cavalcare una vicenda che ondeggia tra due differenti generi, un po’ commedia un po’ storia di spionaggio di guerra, presto entra in scena il vero motivo di interesse della pellicola, Dolores del Rio. La star messicana è anch’essa un po’ fuori fuoco, nell’interpretazione di una ballerina ungherese, e per la verità il soggetto non le mette a disposizione scene di particolare rilevanza; comunque una manciata di costumi memorabili vengono messi a referto. E poco più, purtroppo; la traccia romantica che prevedibilmente si sviluppa, infatti, non ha concreti sbocchi essendo il tenente Bruce felicemente sposato con Joan (Virginia Field) da cui ha una figlioletta, e anche questa sembra una scelta poco avveduta dagli autori del soggetto. Tuttavia pur in un canovaccio tanto mal imbastito, il film funziona e ha anche qualche spunto degno di particolare interesse. Siamo nel 1937, il clima è già piuttosto plumbeo e probabilmente i venti di guerra stanno già spirando, il film è una produzione americana eppure i tedeschi non sono dipinti in modo particolarmente fosco, anzi. Se il tenente colonnello Hollen (Sig Rumann) è il solito bieco ufficiale teutonico visto in tanti film americani, il principe Schwarzwald (Joseph Schildkraut) è una divertente macchietta e il generale von Meinhardi (Maurice Moscovich) addirittura un uomo di buon senso. I dialoghi della sceneggiatura gli riservano una battuta che, visto che siamo già nel 1937, non si può forse definire profetica ma insomma… “il militarismo non può generare che altro militarismo e una guerra non può condurre che ad un'altra guerra” (!).  Un altro passaggio non banale è la sferzata di Joan, la moglie del tenente Bruce, quando scopre di essere stata ingannata e di aver pianto alla notizia della morte del marito che ora scopre essere falsa. Alla dura reprimenda che le rifila in aggiunta il colonnello Fenwick (Lionel Atwill) pur con la voce tremante risponde lapidaria: “è tutt’altro che facile essere patriota e donna nello stesso tempo”.
Parole sante e che valgono anche per gli uomini.   


Dolores del Rio


Galleria 




venerdì 13 giugno 2025

MADEMOISELLE DOCTEUR aka SALONICCO NIDO DI SPIA

1683_MADEMOISELLE DOCTEUR aka SALONICCO NIDO DI SPIA, Francia 1937. Regia di George Wilhelm Pabst

Per la sua versione di Mademoiselle Docteur (nota in Italia anche come Salonicco, nido di spie) il maestro George Wilhelm Pabst mise al lavoro uno stuolo di sceneggiatori. La storia originale era di Irma von Cube e Georges Noveaux su cui lavorarono Leo Birinsky e Herman J. Mankiewicz; Jaques Natanson curò gli efficaci dialoghi. Al di là del fatto che la protagonista a cui si ispira la vicenda fu un personaggio storico – la spia nota come Fräulein Doktor e, appunto, Mademoiselle Docteur – non passa certo inosservata la cura con cui Pabst volle preparare il film in fase di scrittura. Va detto che poi, il regista, ammanta tutto quanto con la sua messa in scena a tratti ipnotica, con immagini velate, ora da una tenda svolazzante, ora dalle ombre notturne, mentre una trama labirintica spesso ci disorienta. Il cast, fatto di nomi importanti del cinema francese dell’epoca, ci offre molte sponde narrative, nessuna delle quali sembra quella su cui fare affidamento. Cioè, la protagonista è ovviamente Mademoiselle Docteur, al secolo Annamaria Lesser (una magnetica Dita Parlo), ma è una spia tedesca e, quindi, per quanto affascinante, è chiaro che non può essere lei il supporto narrativo a cui ancorarci. In questo senso giova forse ricordare che il film è del 1937 ed è prodotto in Francia, quando la Germania era sotto il giogo nazista e i venti di guerra, la seconda mondiale, forse si cominciavano già a percepire. In ogni caso, la figura di Mademoiselle Docteur, un po’ come tutte le spie in gonnella degli anni 30, anticipa le femme fatale dei noir del decennio successivo. Il genere principe degli anni 40 attingerà anche al sapiente uso delle ombre e del superbo bianco e nero, propri della scuola fotografica a cui appartiene Eugen Schufftan che, tornando al film in questione, illustra da par suo le immagini della pellicola accompagnato dall’efficace commento sonoro di Arthur Honegger. L’idea di Pabst sembra quella di orchestrare un grande mosaico, composto da tanti splendidi frammenti non del tutto complementari tra loro, ma di ingannare poi lo spettatore, in questo senso, con la sontuosa messa in scena. Ad esempio, l’incipit con l’interrogatorio del comandante Jacquart (Georges Colin) alla spia tedesca Courdane (Pierre Blanchar), è notevole e poi la vicenda si sposta fino ad arrivare a Salonicco, passando da un’ambientazione all’altra senza mai capire quale sia quella a cui fare maggiore riferimento per seguire il discorso. C’è la storia romantica tra Annamaria e il bel capitano Carrere (Pierre Fresnay), a cui però la donna fatica a concedere corda (è pur sempre un’agente in missione), c’è il covo delle spie celato dietro la bottega di Simonis, il fruttivendolo (Louis Jouvet), c’è il comando alleato, c’è il Bristol Hotel e c’è il night club dove si esibisce la bella Gaby (una notevole Vivianne Romance). Tra le tante imbeccate della trama, c’è anche quella melodrammatica, con Gabi che si incaponisce in una disputa del tutto campata per aria con Annamaria, di cui teme che l’amato Courdane si sia invaghito. In realtà l’uomo sta facendo il triplo gioco, costretto dalle circostanze, e, preoccupato solo di cavarsela, non ha certo tempo per correre dietro alle signorine. Eppure, proprio un risvolto di questa traccia estemporanea, sarà infine decisivo per il racconto, a testimonianza di come l’intreccio proceda in modo imprevedibile. Il passaggio più interessante, poi, è apparentemente del tutto scollegato dalla trama: ad un certo punto, da Simonis si presenta un tizio alquanto strano, che potrebbe aver pedinato una delle spie che fanno capo al negozio di fruttivendolo. Questo signore (Jean-Louis Barrault) ha un che di ambiguo ma, in definitiva, non fa che ordinare un melone; ma ecco che estrae un minaccioso coltello. Con il quale, chiede semplicemente di assaggiare il frutto, diffidando delle apparenze; il frutto, per quanto bello, potrebbe infatti essere insipido. Il che, narrativamente, è logico pensare voglia sottintendere qualcosa di importante, in una storia di spionaggio. Invece rimane un episodio che, col suo carico di mistero e di minaccia incombente, alimenta la suspense generale pur non avendo specifiche connessioni con i vari risvolti dell’intreccio. Il finale, con il parapiglia che si scatena in seguito all’attacco aereo, manda a gambe all’aria tutto il castello di carte costruito in precedenza. E’ un passaggio di pura azione, tanto che, negli ultimi minuti, i dialoghi sono assenti anche dopo che l’inseguimento in auto si conclude tragicamente. Nell’epilogo le uniche parole sono quelle del comandante del plotone di esecuzione che sentenzia la fine di Courdane, a cui non è bastato tradire i suoi complici per salvare la pelle. E nemmeno tanto bene è andata a Mademoiselle Docteur, finita in una casa di cura a guerra conclusa: nonostante la scena muta, più che la parola, la donna sembra però aver perso il senno. E, a corredo di una storia così volutamente dal significato sfumato, si può chiedersi se possa averlo mai avuto chi, all’interno di una cosa priva di senso come la guerra, faceva addirittura il doppiogioco. 






Dita Parlo 

mercoledì 11 giugno 2025

ON SECRET SERVICE aka SPY 77

1682_ON SECRET SERVICE aka SPY 77 , Regno Unito 1933. Regia di Arthur B. Woods

La presenza di Greta Nissen, star del cinema degli anni Trenta, è l’elemento più interessante di On Secret Service, noto anche come Spy 77. Cinque anni prima, quando la Nissen aveva ventidue anni ed era in rampa di lancio, Raoul Walsh e Howard Hughes la scelsero per il ruolo di protagonista ne Gli angeli dell’inferno, un film previsto e prodotto per essere un successo epocale. Greta era norvegese ma questo non costituiva un problema, dal momento che il film era muto, come tutti gli altri, al tempo. Se non che, la povera attrice finì nel classico caso di sliding doors: quello stesso anno uscì Il cantante jazz (regia di Alan Crosland), primo film sonoro della Storia e Hughes cambiò rapidamente i piani di produzione per il suo Gli angeli per l’inferno, che, cominciato appunto come film muto, fu completato come sonoro. A quel punto la Nissen fu messa fuori gioco dal suo accento scandinavo e venne chiamata, a sostituirla, tale Jean Harlow, allora sconosciuta, che divenne una star leggendaria anche grazie al film di Walsh. Ritiratasi in Gran Bretagna, la Nissen partecipò, tra gli altri, a questo film di spionaggio, On Secret Service, che segnò l’esordio dietro alla macchina da presa di Arthur B. Woods. Il fatto che il regista sia alle prime armi può, se vogliamo, deporre a suo favore, considerato che al film manchi sostanzialmente il senso del ritmo. Mentre è più difficile digerire il passaggio finale, in cui letteralmente inganna gli spettatori, mostrando l’aereo del capitano austriaco von Humberg (Kart Ludwig Diehl, marziale, come richiesto dal ruolo) venire abbattuto, salvo poi mostrarci il lugubre ufficiale vivo e vegeto ultimare la sua missione. C’è, per la verità, un’inquadratura in cui si vede un pilota zoppicante, e non sembra Diehl, allontanarsi e venire catturato dagli italiani: forse si intendeva che l’aereo colpito era un altro ma è una giustificazione cervellotica. L’idea sembra piuttosto quella di lasciar credere che von Humberg sia stato abbattuto, per preparare il colpo di scena in cui, al contrario, è riuscito a farla franca e passare le linee nemiche. Uno stratagemma davvero dozzinale in una fase del film, quella del combattimento nei cieli, che la passione per gli aeroplani del regista rende ancora più grave. Woods, infatti, più che per le qualità tecniche o artistiche, è passato alla Storia per essere stato l’unico regista britannico che si unì volontariamente alla Royal Air Force, durante la Seconda Guerra Mondiale, conflitto nel quale morì a soli 39 anni. Tornando a On Secret Service, si può ricordare che è ambientato durante la Prima Guerra Mondiale sul fronte italiano, dove si scontravano gli austriaci, rappresentati qui dal citato von Humberg, e gli italiani, lusingati da avere nei propri ranghi la Nissen nel ruolo della marchesa Marcella Galdi, agente del controspionaggio. Nell’incipit, la bella nobildonna ha un ruolo decisivo, sotto il profilo sentimentale, nell’intrigo che inguaia il povero capitano austriaco che, in seguito, viene espulso con infamia dall’esercito imperiale. Ripartendo da zero, von Humberg, si fa comunque valere e ottiene la possibilità di riscattare il proprio onore, con la rischiosissima missione di mascherare il tremendo agente segreto italiano 77, che passa puntualmente le informazioni al nemico. Le coincidenze, per cui von Humberg e la marchesa Gualdi si reincontrano a più riprese, si sprecano, ma in un film di spionaggio appena venato di romanticismo, sono licenze narrative consuete e tollerabili. In ogni caso, il sentimentalismo, che la Nissen prova ad infondere nel film, si perde nella lugubre messa in scena e, comunque, non intacca l’inflessibile corazza austera di von Humberg. Greta può comunque sfoggiare una serie di lussuosi abiti che rendono giustizia al suo elegante portamento, prima di un’uscita di scena tragica nella quale si aggrappata all’aereo di von Humberg che, eroicamente, decolla ugualmente e se la trascina via, fino al fatale volo nel vuoto della nobildonna. Complimenti.  



Greta Nissen 





lunedì 9 giugno 2025

ANGELI BIANCHI... ANGELI NERI

1681_ANGELI BIANCHI... ANGELI NERI , Italia, 1970. Regia di Luigi Scattini

L’interesse morboso per gli aspetti meno limpidi di quei paesi che, nell’opinione comune, erano ritenuti evoluti e emancipati, non accennava a scemare. Anni dopo, il regista Luigi Scattini, raccontava: “Ero reduce dal successo strepitoso di Svezia inferno e paradiso e in quel periodo mi arrivavano diverse offerte da produttori europei che volevano fare film simili a Svezia: Germania inferno e paradiso… Francia inferno e paradiso… Inghilterra inferno e paradiso, e così via”. Ma il cineasta torinese aveva in mente qualcosa di diverso: “Io volevo portare avanti il discorso documentaristico, perché ero nato come documentarista e quello volevo fare nella vita. Decisi quindi di continuare a girare questo tipo di film ma in un campo completamente nuovo e allora completamente inedito; quello della magia, della parapsicologia ma soprattutto la magia portata nei paesi civilizzati, moderni, come Stati Uniti, Inghilterra, Paesi Scandinavi.
Era la prima volta che si affrontava in Italia un argomento simile e questa era la notizia che cercavo, che stavo aspettando.
Ne parlai con i produttori, e anch’io, come già avevo fatto con Svezia inferno e paradiso, entrai a far parte della produzione, investendo i guadagni fatti con il precedente film.
Chiamai subito Claudio Racca, l’operatore che mi aveva seguito in Svezia e partimmo per realizzare il mio sesto film”. 

Il risultato è una sorta di rivisitazione in chiave attuale (di fine anni Sessanta) del classico La stregoneria attraverso i secoli [t.o. Häxan, di Benjamin Christensen, 1922] che una delle frasi usate per il lancio del film enfatizza efficacemente: «Sono uomini e donne che vivono tra noi… e cercano di imprigionarci con la millenaria magia nera delle streghe». Anche in Angeli bianchi… angeli neri scene documentaristiche si alternano ad altre ricostruite, almeno stando alle rassicurazioni di Scattini: “Era tutto vero quello che avevamo girato, non c’era nulla di falso, malgrado le affermazioni di alcuni critici dell’epoca, che ci accusarono di aver inventato tutto. Solo alcune scene, per motivi cinematografici, furono ricostruite ma con i veri protagonisti, rispettando la realtà dei fatti. Ripeto: era tutto vero!!!” 

Le accorate parole del regista, erano anche conseguenza dell’accoglienza avuta dal film da parte della critica, sintetizzabili nei severi giudizi di Morando Morandini e Paolo Mereghetti reperibili nei rispettivi dizionari dei film: “Si salva in questo paradocumentario la musica di Piero Umiliani. Il commento è artificio e irritante (con la voce di Enrico Maria Salerno), il montaggio, curato dallo stesso Scattini, è costruito con malizia” [Morando Morandini, Il dizionario dei film 2003, Bologna, Zanichelli Editore, 2002, alla voce Angeli bianchi… angeli neri]; “(Scattini) oscilli tra moralismi spiccioli e dileggi nello stile di Gualtiero Jacopetti”. [Paolo Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film 2015; Milano, Baldini & Castoldi. 201, alla voce Angeli bianchi… angeli neri]. In tema di autenticità di quanto mostrato, non giovarono certo all’opera le fuorvianti parole utilizzate sui quotidiani per promuovere il film: «Uno sconcertante, attuale, fatto di cronaca, una strage che sta sconvolgendo il mondo ha snidato dalle tombe gli… Angeli bianchi… angeli neri» descrizione che è davvero difficile giustificare vedendo poi il film di Scattini.
Che poi, sullo schermo, è meno peggio del prevedibile. Intanto, da un punto di vista tecnico, sia la fotografia di Claudio Racca che il montaggio dello stesso Scattini sono ben funzionati, mentre Umiliani alle musiche sforna una colonna sonora eccellente, con brani interpreti da artisti non particolarmente noti ma di rango quali Edda Dell’Orso, Nora Orlandi, I cantori moderni di Alessandroni e Shirley Harmer. Quanto al commento, Salerno interpreta con più compostezza di altre volte un testo scritto da Alberto Bevilacqua, in qualche passaggio certamente enfatico ma, all’interno del genere Mondo movie, nemmeno tra i più eccessivi.
Quanto alle scene, quelle inerenti ai riti satanici sono cinematograficamente suggestive, per quanto possano giustificare lo scetticismo riguardo alla loro veridicità mostrato dalla critica. Va detto che, nel corso degli anni, la cronaca nera ha semmai confermato che fenomeni di questo tipo avvengono realmente e hanno, tra l’altro, esiti in qualche caso tragici. L’Inghilterra la fa da padrona, in questo senso, sebbene i passaggi più curiosi, e anche più facilmente credibili, sono ambientati negli Stati Uniti. Tanto i seguaci occidentali di Krishna, che gli hippy dediti alla marjuana, erano fenomeni che, al tempo erano notissimi e possono, in un certo senso e senza voler mancare di rispetto a nessuno, possono essere presi a titolo di folklore nostalgico. Più inquietante il Movimento Maranatha svedese; più che altro ad inquietare sono le conseguenze che apprendiamo, stando al commento, ebbero alcuni adepti che rifiutarono la medicina moderna, in linea con le convinzioni radicali del culto pentecostale; suggestive le scene con i fedeli che cantano in coro. Sempre in tema di inquietudini lasciate dal film di Scattini, che come detto, qualche risultato appunto lo ottiene, sono le persone che, negli Stati Uniti, hanno cominciato a farsi ibernare appena decedute nella speranza di «tornare
» in un futuro quando la medicina avrà compiuto ulteriori passi in avanti. In questo passaggio finale, c’è forse davvero, come sostiene Mereghetti, un accostamento tipico alla Jacopetti: da chi non crede alla scienza medica, si passa a chi vi ripone troppo affidamento. Tuttavia, per quanto farebbe comodo come «chiusa», il parallelo non può essere trasferito nella valutazione in ambito cinematografico, perché se lo storico critico stronca senza appello Angeli bianchi… angeli neri, qui lo si può unicamente salvare dalla netta bocciatura.

 




         

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sabato 7 giugno 2025

INGHILTERRA NUDA

1680_INGHILTERRA NUDA , Italia, 1969. Regia di Vittorio De Sisti

All’interno del giro del mondo che incarna lo spirito degli pseudo-documentari, prosegue la recente attenzione data ai paesi più sviluppati della civiltà occidentale. Vittorio De Sisti si incarica di andare a sbirciare dal buco della serratura di quello che succede in Inghilterra, e a Londra in particolare, indiscutibilmente uno degli snodi nevralgici del pianeta. Soprattutto in quegli anni Sessanta che, seppur stessero finendo, avevano visto la british invasion, capitanata dalla band musicale dei Beatles, tornare a dominare il mondo. In realtà, De Sisti, non sembra cogliere l’aspetto complessivo del fenomeno, concentrato com’è a cercare, nel puzzle filmico che compone Inghilterra nuda, ogni pretesto per mostrare le bellezze d’Albione al naturale. Del resto il titolo lo chiarisce subito e la deriva sexy dei Mondo movie, in fondo, non si era mai sopita del tutto, nemmeno quando aveva preso piede la sua controparte, quella sadico-violenta. La critica, al tempo, liquidò sbrigativamente il film: “Scotland Yard indaga sull’uccisione di una bambina in St. Bartholomew Park. Si vede il cadaverino (ma è una bambola) e gli agenti che lo compongono. Il commento si rivolge alla vittima, definita un'ingenua che era andata nel bosco per trovarvi Cappuccetto Rosso ed è invece incappata nel lupo: ma, come nella favola della nonna, toccherà alla polizia fare giustizia di chi non è buono. É questo uno dei vari reportage del documentarlo Inghilterra nuda e ne indica chiaramente i limiti. Vittorio De Sisti offre materiale non sempre di prima mano e di buon gusto e comunque mai illuminato da un'autentica idea di regia”. [Un curioso a Londra, Stampa Sera, anno 101, n. 111, 14, 15 maggio 1969, pagina 8]. Tuttavia alcuni passaggi, si lasciano ricordare, soprattutto per i particolari più scabrosi, che peraltro rendono particolare il film di De Sisti. Tra questi c’è senz’altro il club, inteso come sorta di locale, agghindato in stile nazista, con i camerieri che maltrattano i clienti, e la crocifissione volontaria a cui si sottopone un tizio. Più prevedibili i passaggi con il catch femminile, il teatro sperimentale che si riduce ad un’orgia collettiva, la nude-fashion, una presunta nuova tendenza della moda, e le ragazze completamente senza veli in una fattoria fuori Londra. Ritorna all’interno del genere mondo, dopo qualche film in cui se ne erano un po’ perse le tracce, il tema del transessualismo, con lo scrittore che si innamora del proprio domestico e decide, per poterlo sposare, di cambiare sesso. Tra i passaggi particolarmente assurdi merita una menzione il tipo che pratica dei buchi nella calotta cranica dei suoi pazienti per migliorare l’irrorazione di sangue nel cervello. Bella, nel complesso, la fotografia di Marcello Masciocchi; tra le scene memorabili, si può citare la ragazza nuda con il corpo dipinto dalla Union Jack, la bandiera britannica, che chiude il documentario camminando sulla neve. Notevole la colonna sonora di Piero Piccioni, e note di merito per la sua Richmond Bridge, cantata in modo convincente da Lydia MacDonald, già interprete per alcuni brani in Svezia inferno e paradiso. Eccezionale, poi, il manifesto del film, opera del maestro Sandro Simeoni (Symeoni), che, da solo, giustifica l’intera operazione cinematografica.   





  

         

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