1683_MADEMOISELLE DOCTEUR aka SALONICCO NIDO DI SPIA, Francia 1937. Regia di George Wilhelm Pabst

Per la sua versione di Mademoiselle Docteur
(nota in Italia anche come Salonicco, nido di spie) il maestro George
Wilhelm Pabst mise al lavoro uno stuolo di sceneggiatori. La storia originale
era di Irma von Cube e Georges Noveaux su cui lavorarono Leo Birinsky e Herman
J. Mankiewicz; Jaques Natanson curò gli efficaci dialoghi. Al di là del fatto
che la protagonista a cui si ispira la vicenda fu un personaggio storico – la
spia nota come Fräulein Doktor e, appunto, Mademoiselle Docteur – non passa
certo inosservata la cura con cui Pabst volle preparare il film in fase di
scrittura. Va detto che poi, il regista, ammanta tutto quanto con la sua messa
in scena a tratti ipnotica, con immagini velate, ora da una tenda svolazzante,
ora dalle ombre notturne, mentre una trama labirintica spesso ci disorienta. Il
cast, fatto di nomi importanti del cinema francese dell’epoca, ci offre molte
sponde narrative, nessuna delle quali sembra quella su cui fare affidamento.
Cioè, la protagonista è ovviamente Mademoiselle Docteur, al secolo
Annamaria Lesser (una magnetica Dita Parlo), ma è una spia tedesca e, quindi,
per quanto affascinante, è chiaro che non può essere lei il supporto narrativo
a cui ancorarci. In questo senso giova forse ricordare che il film è del 1937
ed è prodotto in Francia, quando la Germania era sotto il giogo nazista e i
venti di guerra, la seconda mondiale, forse si cominciavano già a percepire. In
ogni caso, la figura di Mademoiselle Docteur, un po’ come tutte le spie
in gonnella degli anni 30, anticipa le femme fatale dei noir del
decennio successivo. Il genere principe degli anni 40 attingerà anche al
sapiente uso delle ombre e del superbo bianco e nero, propri della scuola
fotografica a cui appartiene Eugen Schufftan che, tornando al film in
questione, illustra da par suo le immagini della pellicola accompagnato dall’efficace
commento sonoro di Arthur Honegger. L’idea di Pabst sembra quella di
orchestrare un grande mosaico, composto da tanti splendidi frammenti non del
tutto complementari tra loro, ma di ingannare poi lo spettatore, in questo
senso, con la sontuosa messa in scena. Ad esempio, l’incipit con
l’interrogatorio del comandante Jacquart (Georges Colin) alla spia tedesca Courdane
(Pierre Blanchar), è notevole e poi la vicenda si sposta fino ad arrivare a Salonicco,
passando da un’ambientazione all’altra senza mai capire quale sia quella a cui
fare maggiore riferimento per seguire il discorso. C’è la storia romantica tra
Annamaria e il bel capitano Carrere (Pierre Fresnay), a cui però la donna
fatica a concedere corda (è pur sempre un’agente in missione), c’è il covo
delle spie celato dietro la bottega di Simonis, il fruttivendolo (Louis
Jouvet), c’è il comando alleato, c’è il Bristol Hotel e c’è il night club dove
si esibisce la bella Gaby (una notevole Vivianne Romance). Tra le tante
imbeccate della trama, c’è anche quella melodrammatica, con Gabi che si
incaponisce in una disputa del tutto campata per aria con Annamaria, di cui
teme che l’amato Courdane si sia invaghito. In realtà l’uomo sta facendo il
triplo gioco, costretto dalle circostanze, e, preoccupato solo di cavarsela,
non ha certo tempo per correre dietro alle signorine. Eppure, proprio un
risvolto di questa traccia estemporanea, sarà infine decisivo per il racconto,
a testimonianza di come l’intreccio proceda in modo imprevedibile. Il passaggio
più interessante, poi, è apparentemente del tutto scollegato dalla trama: ad un
certo punto, da Simonis si presenta un tizio alquanto strano, che potrebbe aver
pedinato una delle spie che fanno capo al negozio di fruttivendolo. Questo
signore (Jean-Louis Barrault) ha un che di ambiguo ma, in definitiva, non fa
che ordinare un melone; ma ecco che estrae un minaccioso coltello. Con il
quale, chiede semplicemente di assaggiare il frutto, diffidando delle
apparenze; il frutto, per quanto bello, potrebbe infatti essere insipido. Il
che, narrativamente, è logico pensare voglia sottintendere qualcosa di
importante, in una storia di spionaggio. Invece rimane un episodio che, col suo
carico di mistero e di minaccia incombente, alimenta la suspense generale pur
non avendo specifiche connessioni con i vari risvolti dell’intreccio. Il
finale, con il parapiglia che si scatena in seguito all’attacco aereo, manda a
gambe all’aria tutto il castello di carte costruito in precedenza. E’ un
passaggio di pura azione, tanto che, negli ultimi minuti, i dialoghi sono
assenti anche dopo che l’inseguimento in auto si conclude tragicamente. Nell’epilogo
le uniche parole sono quelle del comandante del plotone di esecuzione che
sentenzia la fine di Courdane, a cui non è bastato tradire i suoi complici per
salvare la pelle. E nemmeno tanto bene è andata a Mademoiselle Docteur, finita
in una casa di cura a guerra conclusa: nonostante la scena muta, più che la
parola, la donna sembra però aver perso il senno. E, a corredo di una storia
così volutamente dal significato sfumato, si può chiedersi se possa averlo mai
avuto chi, all’interno di una cosa priva di senso come la guerra, faceva
addirittura il doppiogioco.





Dita Parlo
