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martedì 17 giugno 2025

LA SECONDA MOGLIE

1685_LA SECONDA MOGLIE (The second woman)Stati Uniti 1951. Regia di James V. Kern

Per una volta, possiamo perdonare la faciloneria dei distributori italiani che decisero di intitolare La seconda moglie, il film dello sconosciuto James V. Kern che, nell’originale ha certamente un nome più pertinente, The second woman, ovvero «la seconda donna». Evidentemente, la voglia –leggi la possibilità di incrementare i guadagni al botteghino– di rendere esplicito il rimando al capolavoro hitchcockiano Rebecca – La prima moglie [Rebecca, di Alfred Hitchcock, 1940] era troppo forte per resisterle. E, in effetti, i riferimenti al celebre film del maestro inglese sono evidenti, sebbene se ne potrebbero trovare anche altri, ad esempio Angoscia [Gaslight, di George Cukor, 1944] per quel che riguarda il «decor» di certi ambienti. Ma rischieremmo di affossare troppo La seconda moglie che non ha la statura artistica cinematografica di quei capolavori. E sarebbe un peccato, perché il film di Kern è un onesto intrattenimento che sfrutta gli illustri capostipiti del genere per inserirsi discretamente nella loro scia, senza pretese autoriali ma approfittando del contesto ormai consolidato per giocare la sua partita mistery. Il tema è, infatti, di natura «gialla» con un enigma da risolvere che riesce, a distanza di tanti anni, a sorprendere ancora lo spettatore. La costruzione dell’incastro misterioso, infatti, è costruita coi tempi giusti e l’insorgere sul dubbio di chi possa essere il vero colpevole colpisce lo spettatore giusto un attimo prima della rivelazione della trama sullo schermo, esattamente come dovrebbe fare un Giallo da manuale. Certo, la sceneggiatura ha qualche forzatura, ma siamo nel campo di un film smaccatamente di genere, che ammette sin da subito di sfruttare l’eco dei più importanti esempi del filone. E se in questo ambito La seconda moglie ammette senza pudore il suo essere dichiaratamente opera minore, dal punto di vista formale il film è di ottimo livello, come si conviene alla Hollywood del tempo. Le location suggestive –la casa sulla scogliera, il mare ruggente sugli scogli– sono fotografate in un bianco e nero che attinge direttamente dai noir del decennio al tempo appena trascorso. 

Gli arredi delle case, i dettagli degli interni, certe inquadrature audaci, rimandano invece all’horror, per un mix comunque ben calibrato. Robert Young –nei panni di Jeff Cohalan, il protagonista vittima di una sorta di complotto che lo vuole distruggere– se la cava con la tipica nonchalance. A dargli man forte, e a salvarlo in dirittura d’arrivo della vicenda, c’è la controparte femminile, Ellen Foster, a cui Betsy Drake dona garbo e dolcezza ma a cui manca forse un po’ di consistenza scenica. Tuttavia la cosa, considerato il tenore di La seconda moglie, non disturba affatto la visione. E, come accennato, per una volta non disturba nemmeno il titolo italiano che riesce a essere doppiamente fallace; il che è, a suo modo, una sorta di record. Perché il titolo fa riferimento a due mogli del protagonista che, in realtà, non si sposa mai. Si è detto che Jeff è al centro di un complotto, per via del quale si sente invece perseguitato dalla sfortuna; o è, piuttosto, il senso di colpa per la morte di Vivian (Shirley Ballard), la sua fidanzata? Perché, a differenza da quanto indicato dal titolo italiano, la prima donna del protagonista muore durante un ricevimento prima delle nozze, e quindi quando ancora non è sua moglie. Ma neanche Ellen, la presunta seconda moglie a cui fa esplicitamente riferimento il titolo italiano, fa in tempo a sposarsi Jeff che, per quel che si vede nel film di Kern, rimane scapolo fino ai titoli di coda. Se non fosse che l’equivoco è tutto italiano, si potrebbe perfino pensare che il regista ci scherzi su: manca poco al sipario, i due protagonisti si stagliano su quel rabbioso mare che ha fatto da sfondo a tante scene del film ma la musica ci fa ampiamente capire che siamo al lieto fine. Jeff chiede quindi il permesso di formulare una domanda e Ellen si illumina in volto: in effetti sembra proprio la premessa per una richiesta di matrimonio. Invece l’uomo chiede delucidazioni su come la ragazza, esperta in materia di calcoli statistici per una compagnia di assicurazioni, sia riuscita a risolvere il giallo e a salvarlo per tempo. Ma è solo un diversivo, perché l’amore sboccia per il classico appassionato bacio finale e per il matrimonio ci sarà certo tempo in seguito. Ai distributori italiani rimane il record di due errori in un unico titolo. 





domenica 15 giugno 2025

LA SPIA DEI LANCIERI

1684_LA SPIA DEI LANCIERI (Lancer spy)Stati Uniti 1937. Regia di Gregory Ratoff

Basato su un soggetto non propriamente credibile, La spia dei lancieri di Gregory Ratoff è un curioso film che fa di una certa leggerezza la sua carta vincente seppur la trama dovrebbe, visto i presupposti, vertere su ben altro tenore. In effetti il protagonista, che è stato ficcato in una situazione di grandissimo pericolo e sua moglie addirittura si crede già vedova, sostanzialmente se la spassa con una sventola del calibro di Dolores del Rio, vera star della pellicola. Eppure, forse proprio in questa discrepanza, in questo volar basso dal punto di vista della tensione della messa in scena rispetto ai presupposti, c’è l’alchimia che permette al film di funzionare. Ma andiamo con ordine: la nota meno plausibile del racconto, e che ne mina la credibilità sin dalle fondamenta, è che gli inglesi catturino un ufficiale tedesco che è il sosia sputato di un loro tenente. Siamo nella Prima Guerra Mondiale, il barone von Rohback (George Sanders), una volta catturato, viene studiato di nascosto dal tenente Bruce (ovviamente lo stesso Sanders) che ne prenderà il posto inscenando una fuga per intrufolarsi nel quartier generale tedesco in qualità di spia. Per evitare fuoriuscite di notizie bisogna però far sparire il tenente inglese e si pensa di diffondere la notizia della sua morte, addirittura pubblicandone una sorta di necrologio sui giornali. Se la cosa può sembrare anche plausibile, è in realtà un altro passo falso del soggetto (oltre che degli inglesi) perché fornisce ai tedeschi l’informazione che tra gli ufficiali nemici c’è un sosia di von Rohback. Il passaggio è poi sfruttato, effettivamente, dall’ufficio della polizia segreta tedesca, in cui troviamo anche Peter Lorre nei panni del maggiore Gruning, ma sembra comunque un errore dilettantesco che agenti del controspionaggio non dovrebbero commettere. Insomma, si capisce ben presto che non sarà la credibilità della storia il punto di forza di questo La spia dei lancieri. Se Sanders prova a sfruttare la sua duttilità per cavalcare una vicenda che ondeggia tra due differenti generi, un po’ commedia un po’ storia di spionaggio di guerra, presto entra in scena il vero motivo di interesse della pellicola, Dolores del Rio. La star messicana è anch’essa un po’ fuori fuoco, nell’interpretazione di una ballerina ungherese, e per la verità il soggetto non le mette a disposizione scene di particolare rilevanza; comunque una manciata di costumi memorabili vengono messi a referto. E poco più, purtroppo; la traccia romantica che prevedibilmente si sviluppa, infatti, non ha concreti sbocchi essendo il tenente Bruce felicemente sposato con Joan (Virginia Field) da cui ha una figlioletta, e anche questa sembra una scelta poco avveduta dagli autori del soggetto. Tuttavia pur in un canovaccio tanto mal imbastito, il film funziona e ha anche qualche spunto degno di particolare interesse. Siamo nel 1937, il clima è già piuttosto plumbeo e probabilmente i venti di guerra stanno già spirando, il film è una produzione americana eppure i tedeschi non sono dipinti in modo particolarmente fosco, anzi. Se il tenente colonnello Hollen (Sig Rumann) è il solito bieco ufficiale teutonico visto in tanti film americani, il principe Schwarzwald (Joseph Schildkraut) è una divertente macchietta e il generale von Meinhardi (Maurice Moscovich) addirittura un uomo di buon senso. I dialoghi della sceneggiatura gli riservano una battuta che, visto che siamo già nel 1937, non si può forse definire profetica ma insomma… “il militarismo non può generare che altro militarismo e una guerra non può condurre che ad un'altra guerra” (!).  Un altro passaggio non banale è la sferzata di Joan, la moglie del tenente Bruce, quando scopre di essere stata ingannata e di aver pianto alla notizia della morte del marito che ora scopre essere falsa. Alla dura reprimenda che le rifila in aggiunta il colonnello Fenwick (Lionel Atwill) pur con la voce tremante risponde lapidaria: “è tutt’altro che facile essere patriota e donna nello stesso tempo”.
Parole sante e che valgono anche per gli uomini.   


Dolores del Rio


Galleria 




venerdì 13 giugno 2025

MADEMOISELLE DOCTEUR aka SALONICCO NIDO DI SPIA

1683_MADEMOISELLE DOCTEUR aka SALONICCO NIDO DI SPIA, Francia 1937. Regia di George Wilhelm Pabst

Per la sua versione di Mademoiselle Docteur (nota in Italia anche come Salonicco, nido di spie) il maestro George Wilhelm Pabst mise al lavoro uno stuolo di sceneggiatori. La storia originale era di Irma von Cube e Georges Noveaux su cui lavorarono Leo Birinsky e Herman J. Mankiewicz; Jaques Natanson curò gli efficaci dialoghi. Al di là del fatto che la protagonista a cui si ispira la vicenda fu un personaggio storico – la spia nota come Fräulein Doktor e, appunto, Mademoiselle Docteur – non passa certo inosservata la cura con cui Pabst volle preparare il film in fase di scrittura. Va detto che poi, il regista, ammanta tutto quanto con la sua messa in scena a tratti ipnotica, con immagini velate, ora da una tenda svolazzante, ora dalle ombre notturne, mentre una trama labirintica spesso ci disorienta. Il cast, fatto di nomi importanti del cinema francese dell’epoca, ci offre molte sponde narrative, nessuna delle quali sembra quella su cui fare affidamento. Cioè, la protagonista è ovviamente Mademoiselle Docteur, al secolo Annamaria Lesser (una magnetica Dita Parlo), ma è una spia tedesca e, quindi, per quanto affascinante, è chiaro che non può essere lei il supporto narrativo a cui ancorarci. In questo senso giova forse ricordare che il film è del 1937 ed è prodotto in Francia, quando la Germania era sotto il giogo nazista e i venti di guerra, la seconda mondiale, forse si cominciavano già a percepire. In ogni caso, la figura di Mademoiselle Docteur, un po’ come tutte le spie in gonnella degli anni 30, anticipa le femme fatale dei noir del decennio successivo. Il genere principe degli anni 40 attingerà anche al sapiente uso delle ombre e del superbo bianco e nero, propri della scuola fotografica a cui appartiene Eugen Schufftan che, tornando al film in questione, illustra da par suo le immagini della pellicola accompagnato dall’efficace commento sonoro di Arthur Honegger. L’idea di Pabst sembra quella di orchestrare un grande mosaico, composto da tanti splendidi frammenti non del tutto complementari tra loro, ma di ingannare poi lo spettatore, in questo senso, con la sontuosa messa in scena. Ad esempio, l’incipit con l’interrogatorio del comandante Jacquart (Georges Colin) alla spia tedesca Courdane (Pierre Blanchar), è notevole e poi la vicenda si sposta fino ad arrivare a Salonicco, passando da un’ambientazione all’altra senza mai capire quale sia quella a cui fare maggiore riferimento per seguire il discorso. C’è la storia romantica tra Annamaria e il bel capitano Carrere (Pierre Fresnay), a cui però la donna fatica a concedere corda (è pur sempre un’agente in missione), c’è il covo delle spie celato dietro la bottega di Simonis, il fruttivendolo (Louis Jouvet), c’è il comando alleato, c’è il Bristol Hotel e c’è il night club dove si esibisce la bella Gaby (una notevole Vivianne Romance). Tra le tante imbeccate della trama, c’è anche quella melodrammatica, con Gabi che si incaponisce in una disputa del tutto campata per aria con Annamaria, di cui teme che l’amato Courdane si sia invaghito. In realtà l’uomo sta facendo il triplo gioco, costretto dalle circostanze, e, preoccupato solo di cavarsela, non ha certo tempo per correre dietro alle signorine. Eppure, proprio un risvolto di questa traccia estemporanea, sarà infine decisivo per il racconto, a testimonianza di come l’intreccio proceda in modo imprevedibile. Il passaggio più interessante, poi, è apparentemente del tutto scollegato dalla trama: ad un certo punto, da Simonis si presenta un tizio alquanto strano, che potrebbe aver pedinato una delle spie che fanno capo al negozio di fruttivendolo. Questo signore (Jean-Louis Barrault) ha un che di ambiguo ma, in definitiva, non fa che ordinare un melone; ma ecco che estrae un minaccioso coltello. Con il quale, chiede semplicemente di assaggiare il frutto, diffidando delle apparenze; il frutto, per quanto bello, potrebbe infatti essere insipido. Il che, narrativamente, è logico pensare voglia sottintendere qualcosa di importante, in una storia di spionaggio. Invece rimane un episodio che, col suo carico di mistero e di minaccia incombente, alimenta la suspense generale pur non avendo specifiche connessioni con i vari risvolti dell’intreccio. Il finale, con il parapiglia che si scatena in seguito all’attacco aereo, manda a gambe all’aria tutto il castello di carte costruito in precedenza. E’ un passaggio di pura azione, tanto che, negli ultimi minuti, i dialoghi sono assenti anche dopo che l’inseguimento in auto si conclude tragicamente. Nell’epilogo le uniche parole sono quelle del comandante del plotone di esecuzione che sentenzia la fine di Courdane, a cui non è bastato tradire i suoi complici per salvare la pelle. E nemmeno tanto bene è andata a Mademoiselle Docteur, finita in una casa di cura a guerra conclusa: nonostante la scena muta, più che la parola, la donna sembra però aver perso il senno. E, a corredo di una storia così volutamente dal significato sfumato, si può chiedersi se possa averlo mai avuto chi, all’interno di una cosa priva di senso come la guerra, faceva addirittura il doppiogioco. 






Dita Parlo 

mercoledì 11 giugno 2025

ON SECRET SERVICE aka SPY 77

1682_ON SECRET SERVICE aka SPY 77 , Regno Unito 1933. Regia di Arthur B. Woods

La presenza di Greta Nissen, star del cinema degli anni Trenta, è l’elemento più interessante di On Secret Service, noto anche come Spy 77. Cinque anni prima, quando la Nissen aveva ventidue anni ed era in rampa di lancio, Raoul Walsh e Howard Hughes la scelsero per il ruolo di protagonista ne Gli angeli dell’inferno, un film previsto e prodotto per essere un successo epocale. Greta era norvegese ma questo non costituiva un problema, dal momento che il film era muto, come tutti gli altri, al tempo. Se non che, la povera attrice finì nel classico caso di sliding doors: quello stesso anno uscì Il cantante jazz (regia di Alan Crosland), primo film sonoro della Storia e Hughes cambiò rapidamente i piani di produzione per il suo Gli angeli per l’inferno, che, cominciato appunto come film muto, fu completato come sonoro. A quel punto la Nissen fu messa fuori gioco dal suo accento scandinavo e venne chiamata, a sostituirla, tale Jean Harlow, allora sconosciuta, che divenne una star leggendaria anche grazie al film di Walsh. Ritiratasi in Gran Bretagna, la Nissen partecipò, tra gli altri, a questo film di spionaggio, On Secret Service, che segnò l’esordio dietro alla macchina da presa di Arthur B. Woods. Il fatto che il regista sia alle prime armi può, se vogliamo, deporre a suo favore, considerato che al film manchi sostanzialmente il senso del ritmo. Mentre è più difficile digerire il passaggio finale, in cui letteralmente inganna gli spettatori, mostrando l’aereo del capitano austriaco von Humberg (Kart Ludwig Diehl, marziale, come richiesto dal ruolo) venire abbattuto, salvo poi mostrarci il lugubre ufficiale vivo e vegeto ultimare la sua missione. C’è, per la verità, un’inquadratura in cui si vede un pilota zoppicante, e non sembra Diehl, allontanarsi e venire catturato dagli italiani: forse si intendeva che l’aereo colpito era un altro ma è una giustificazione cervellotica. L’idea sembra piuttosto quella di lasciar credere che von Humberg sia stato abbattuto, per preparare il colpo di scena in cui, al contrario, è riuscito a farla franca e passare le linee nemiche. Uno stratagemma davvero dozzinale in una fase del film, quella del combattimento nei cieli, che la passione per gli aeroplani del regista rende ancora più grave. Woods, infatti, più che per le qualità tecniche o artistiche, è passato alla Storia per essere stato l’unico regista britannico che si unì volontariamente alla Royal Air Force, durante la Seconda Guerra Mondiale, conflitto nel quale morì a soli 39 anni. Tornando a On Secret Service, si può ricordare che è ambientato durante la Prima Guerra Mondiale sul fronte italiano, dove si scontravano gli austriaci, rappresentati qui dal citato von Humberg, e gli italiani, lusingati da avere nei propri ranghi la Nissen nel ruolo della marchesa Marcella Galdi, agente del controspionaggio. Nell’incipit, la bella nobildonna ha un ruolo decisivo, sotto il profilo sentimentale, nell’intrigo che inguaia il povero capitano austriaco che, in seguito, viene espulso con infamia dall’esercito imperiale. Ripartendo da zero, von Humberg, si fa comunque valere e ottiene la possibilità di riscattare il proprio onore, con la rischiosissima missione di mascherare il tremendo agente segreto italiano 77, che passa puntualmente le informazioni al nemico. Le coincidenze, per cui von Humberg e la marchesa Gualdi si reincontrano a più riprese, si sprecano, ma in un film di spionaggio appena venato di romanticismo, sono licenze narrative consuete e tollerabili. In ogni caso, il sentimentalismo, che la Nissen prova ad infondere nel film, si perde nella lugubre messa in scena e, comunque, non intacca l’inflessibile corazza austera di von Humberg. Greta può comunque sfoggiare una serie di lussuosi abiti che rendono giustizia al suo elegante portamento, prima di un’uscita di scena tragica nella quale si aggrappata all’aereo di von Humberg che, eroicamente, decolla ugualmente e se la trascina via, fino al fatale volo nel vuoto della nobildonna. Complimenti.  



Greta Nissen 





lunedì 9 giugno 2025

ANGELI BIANCHI... ANGELI NERI

1681_ANGELI BIANCHI... ANGELI NERI , Italia, 1970. Regia di Luigi Scattini

L’interesse morboso per gli aspetti meno limpidi di quei paesi che, nell’opinione comune, erano ritenuti evoluti e emancipati, non accennava a scemare. Anni dopo, il regista Luigi Scattini, raccontava: “Ero reduce dal successo strepitoso di Svezia inferno e paradiso e in quel periodo mi arrivavano diverse offerte da produttori europei che volevano fare film simili a Svezia: Germania inferno e paradiso… Francia inferno e paradiso… Inghilterra inferno e paradiso, e così via”. Ma il cineasta torinese aveva in mente qualcosa di diverso: “Io volevo portare avanti il discorso documentaristico, perché ero nato come documentarista e quello volevo fare nella vita. Decisi quindi di continuare a girare questo tipo di film ma in un campo completamente nuovo e allora completamente inedito; quello della magia, della parapsicologia ma soprattutto la magia portata nei paesi civilizzati, moderni, come Stati Uniti, Inghilterra, Paesi Scandinavi.
Era la prima volta che si affrontava in Italia un argomento simile e questa era la notizia che cercavo, che stavo aspettando.
Ne parlai con i produttori, e anch’io, come già avevo fatto con Svezia inferno e paradiso, entrai a far parte della produzione, investendo i guadagni fatti con il precedente film.
Chiamai subito Claudio Racca, l’operatore che mi aveva seguito in Svezia e partimmo per realizzare il mio sesto film”. 

Il risultato è una sorta di rivisitazione in chiave attuale (di fine anni Sessanta) del classico La stregoneria attraverso i secoli [t.o. Häxan, di Benjamin Christensen, 1922] che una delle frasi usate per il lancio del film enfatizza efficacemente: «Sono uomini e donne che vivono tra noi… e cercano di imprigionarci con la millenaria magia nera delle streghe». Anche in Angeli bianchi… angeli neri scene documentaristiche si alternano ad altre ricostruite, almeno stando alle rassicurazioni di Scattini: “Era tutto vero quello che avevamo girato, non c’era nulla di falso, malgrado le affermazioni di alcuni critici dell’epoca, che ci accusarono di aver inventato tutto. Solo alcune scene, per motivi cinematografici, furono ricostruite ma con i veri protagonisti, rispettando la realtà dei fatti. Ripeto: era tutto vero!!!” 

Le accorate parole del regista, erano anche conseguenza dell’accoglienza avuta dal film da parte della critica, sintetizzabili nei severi giudizi di Morando Morandini e Paolo Mereghetti reperibili nei rispettivi dizionari dei film: “Si salva in questo paradocumentario la musica di Piero Umiliani. Il commento è artificio e irritante (con la voce di Enrico Maria Salerno), il montaggio, curato dallo stesso Scattini, è costruito con malizia” [Morando Morandini, Il dizionario dei film 2003, Bologna, Zanichelli Editore, 2002, alla voce Angeli bianchi… angeli neri]; “(Scattini) oscilli tra moralismi spiccioli e dileggi nello stile di Gualtiero Jacopetti”. [Paolo Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film 2015; Milano, Baldini & Castoldi. 201, alla voce Angeli bianchi… angeli neri]. In tema di autenticità di quanto mostrato, non giovarono certo all’opera le fuorvianti parole utilizzate sui quotidiani per promuovere il film: «Uno sconcertante, attuale, fatto di cronaca, una strage che sta sconvolgendo il mondo ha snidato dalle tombe gli… Angeli bianchi… angeli neri» descrizione che è davvero difficile giustificare vedendo poi il film di Scattini.
Che poi, sullo schermo, è meno peggio del prevedibile. Intanto, da un punto di vista tecnico, sia la fotografia di Claudio Racca che il montaggio dello stesso Scattini sono ben funzionati, mentre Umiliani alle musiche sforna una colonna sonora eccellente, con brani interpreti da artisti non particolarmente noti ma di rango quali Edda Dell’Orso, Nora Orlandi, I cantori moderni di Alessandroni e Shirley Harmer. Quanto al commento, Salerno interpreta con più compostezza di altre volte un testo scritto da Alberto Bevilacqua, in qualche passaggio certamente enfatico ma, all’interno del genere Mondo movie, nemmeno tra i più eccessivi.
Quanto alle scene, quelle inerenti ai riti satanici sono cinematograficamente suggestive, per quanto possano giustificare lo scetticismo riguardo alla loro veridicità mostrato dalla critica. Va detto che, nel corso degli anni, la cronaca nera ha semmai confermato che fenomeni di questo tipo avvengono realmente e hanno, tra l’altro, esiti in qualche caso tragici. L’Inghilterra la fa da padrona, in questo senso, sebbene i passaggi più curiosi, e anche più facilmente credibili, sono ambientati negli Stati Uniti. Tanto i seguaci occidentali di Krishna, che gli hippy dediti alla marjuana, erano fenomeni che, al tempo erano notissimi e possono, in un certo senso e senza voler mancare di rispetto a nessuno, possono essere presi a titolo di folklore nostalgico. Più inquietante il Movimento Maranatha svedese; più che altro ad inquietare sono le conseguenze che apprendiamo, stando al commento, ebbero alcuni adepti che rifiutarono la medicina moderna, in linea con le convinzioni radicali del culto pentecostale; suggestive le scene con i fedeli che cantano in coro. Sempre in tema di inquietudini lasciate dal film di Scattini, che come detto, qualche risultato appunto lo ottiene, sono le persone che, negli Stati Uniti, hanno cominciato a farsi ibernare appena decedute nella speranza di «tornare
» in un futuro quando la medicina avrà compiuto ulteriori passi in avanti. In questo passaggio finale, c’è forse davvero, come sostiene Mereghetti, un accostamento tipico alla Jacopetti: da chi non crede alla scienza medica, si passa a chi vi ripone troppo affidamento. Tuttavia, per quanto farebbe comodo come «chiusa», il parallelo non può essere trasferito nella valutazione in ambito cinematografico, perché se lo storico critico stronca senza appello Angeli bianchi… angeli neri, qui lo si può unicamente salvare dalla netta bocciatura.

 




         

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sabato 7 giugno 2025

INGHILTERRA NUDA

1680_INGHILTERRA NUDA , Italia, 1969. Regia di Vittorio De Sisti

All’interno del giro del mondo che incarna lo spirito degli pseudo-documentari, prosegue la recente attenzione data ai paesi più sviluppati della civiltà occidentale. Vittorio De Sisti si incarica di andare a sbirciare dal buco della serratura di quello che succede in Inghilterra, e a Londra in particolare, indiscutibilmente uno degli snodi nevralgici del pianeta. Soprattutto in quegli anni Sessanta che, seppur stessero finendo, avevano visto la british invasion, capitanata dalla band musicale dei Beatles, tornare a dominare il mondo. In realtà, De Sisti, non sembra cogliere l’aspetto complessivo del fenomeno, concentrato com’è a cercare, nel puzzle filmico che compone Inghilterra nuda, ogni pretesto per mostrare le bellezze d’Albione al naturale. Del resto il titolo lo chiarisce subito e la deriva sexy dei Mondo movie, in fondo, non si era mai sopita del tutto, nemmeno quando aveva preso piede la sua controparte, quella sadico-violenta. La critica, al tempo, liquidò sbrigativamente il film: “Scotland Yard indaga sull’uccisione di una bambina in St. Bartholomew Park. Si vede il cadaverino (ma è una bambola) e gli agenti che lo compongono. Il commento si rivolge alla vittima, definita un'ingenua che era andata nel bosco per trovarvi Cappuccetto Rosso ed è invece incappata nel lupo: ma, come nella favola della nonna, toccherà alla polizia fare giustizia di chi non è buono. É questo uno dei vari reportage del documentarlo Inghilterra nuda e ne indica chiaramente i limiti. Vittorio De Sisti offre materiale non sempre di prima mano e di buon gusto e comunque mai illuminato da un'autentica idea di regia”. [Un curioso a Londra, Stampa Sera, anno 101, n. 111, 14, 15 maggio 1969, pagina 8]. Tuttavia alcuni passaggi, si lasciano ricordare, soprattutto per i particolari più scabrosi, che peraltro rendono particolare il film di De Sisti. Tra questi c’è senz’altro il club, inteso come sorta di locale, agghindato in stile nazista, con i camerieri che maltrattano i clienti, e la crocifissione volontaria a cui si sottopone un tizio. Più prevedibili i passaggi con il catch femminile, il teatro sperimentale che si riduce ad un’orgia collettiva, la nude-fashion, una presunta nuova tendenza della moda, e le ragazze completamente senza veli in una fattoria fuori Londra. Ritorna all’interno del genere mondo, dopo qualche film in cui se ne erano un po’ perse le tracce, il tema del transessualismo, con lo scrittore che si innamora del proprio domestico e decide, per poterlo sposare, di cambiare sesso. Tra i passaggi particolarmente assurdi merita una menzione il tipo che pratica dei buchi nella calotta cranica dei suoi pazienti per migliorare l’irrorazione di sangue nel cervello. Bella, nel complesso, la fotografia di Marcello Masciocchi; tra le scene memorabili, si può citare la ragazza nuda con il corpo dipinto dalla Union Jack, la bandiera britannica, che chiude il documentario camminando sulla neve. Notevole la colonna sonora di Piero Piccioni, e note di merito per la sua Richmond Bridge, cantata in modo convincente da Lydia MacDonald, già interprete per alcuni brani in Svezia inferno e paradiso. Eccezionale, poi, il manifesto del film, opera del maestro Sandro Simeoni (Symeoni), che, da solo, giustifica l’intera operazione cinematografica.   





  

         

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giovedì 5 giugno 2025

EASTERN FRONT

1679_EASTERN FRONT (Shidniy front), Stati Uniti, Ucraina, Lettonia, Repubblica Ceca, 2023. Regia di Vitaly Manskiy e Yevhen Titarenko

Quasi verso la fine di Eastern Front, Yevhen Titarenko, tra il serio e il faceto, prova ad immaginare come finire il documentario di cui, insieme al decano Vitaly Manky, è regista. La riconquista di Kherson, che ne farebbe la prima grande città ripresa ai russi dopo la violenta invasione cominciata il 24 febbraio 2022, sarebbe un finale a suo modo soddisfacente. Titarenko prova anche a formulare alcune ipotesi più ottimistiche: se Fronte Orientale fosse un film di guerra, un film «di genere», allora, ad essere liberata sarebbe l’intera Ucraina, Donbas e Crimea compresi. Se poi fosse un film di Science Fiction, allora il giovane regista immagina la Piazza Rossa in fiamme, cadaveri sparsi ovunque, la salma di Lenin oltraggiata, insomma, per Titarenko è fantascienza poter rendere quello che si dice «pan per focaccia» agli invasori. Anche in questo passaggio, che sembra un innocuo diversivo per annunciare la fine del documentario, c’è un bell’esempio dell’umorismo ucraino: mentre si finge di fare una battuta feroce contro il nemico, si dichiara la propria impotenza a fronte di una situazione ingiusta e insostenibile. Eastern Front è frutto della collaborazione tra Vitaly Mansky e Yevhen Titarenko: stando ai titoli di coda, il primo è autore e regista; il secondo è regista e direttore della fotografia. In pratica, si tratta di un’operazione metalinguistica simile, per restare nell’ambito dei film che trattano la crisi russo-ucraina, all’ottimo The Earth is blue as an Orange [The Earth is blue as an Orange, Iryna Tsilyk, 2020] della bravissima Iryna Tsilyk, ovvero un documentario che mostra come venga realizzato un documentario. In questo caso abbiamo Mansky che dirige, per così dire, «dall’esterno», nel ruolo di supervisione generale peculiare del regista cinematografico; dal canto suo Titarenko, «interpreta» la parte del regista d’assalto, tipico dei documentari, colui che si reca sulla scena dei fatti per prendere le notizie di prima mano. Il tema metalinguistico è quindi strutturale, in Eastern Front e, come già visto, in chiusura viene anche sottolineato in modo evidente, con Titarenko che immagina tre finali diversi in base agli ipotetici «generi», documentario, film bellico o di fantascienza. Ma c’è anche l’esplicito rimando agli spaghetti western, visto che, ad un certo punto, si sente il celebre tema musicale di Per qualche dollaro in più [Per qualche dollaro in più, Sergio Leone, 1965] di Ennio Morricone; un richiamo forte, considerato che, del cinema di «genere», il western all’italiana è forse l’esempio più sfacciato. Per quale motivo Mansky –che dei due registi è l’«autore», almeno stando ai credits– vuole sottolineare che Eastern Front è sì un documentario, ma è cinema esattamente come gli action movie bellici, i film di fantascienza e persino i western di Sergio Leone e compagnia? Perché Vitaly Mansky –che, tra i tanti incarichi di prestigio ha ricoperto anche quello di Responsabile della Produzione e della Trasmissione di Documentari per TV Russia, il primo canale pubblico del Paese, dirigendo personalmente documentari su Gorbaciov, Eltsin e Putin– conosce molto bene la differenza tra il cinema e gli altri media audiovisivi. Il cinema è sempre soggettivo e lo mette subito in chiaro, ribadendo l’importanza di chi dirige le operazioni e che, con la sua attività, offre sempre e comunque solo il suo personale punto di vista, che può anche essere collettivo se frutto di collaborazione, ma è sempre riferito al lato umano dei soggetti coinvolti. Naturalmente anche la televisione o internet sono soggettivi, ma cercano di dissimulare questa caratteristica spacciandosi per media «trasparenti». Mansky vuole evidenziare proprio questa caratteristica autoriale e personale –artistica in una parola– del cinema: mette infatti in scena un regista, Titarenko, che dirige un film ambientato in prima linea, nella guerra russo-ucraina. Per questo è possibile vedere i «dietro le quinte», perfino i dialoghi su come cercare di finire un documentario che, per sua natura, dovendo seguire delle vicende reali, non ha necessariamente una chiusa definibile a piacimento. Inoltre, ad inizio film, viene sottolineato come il nome di battaglia di Titarenko sotto le armi sia Rezhik, abbreviazione di Rezhiser, che significa appunto direttore, regista. Il giovane cineasta ha in effetti anche un ruolo di rilevanza nel Battaglione Hospitallers, un gruppo di volontari che si occupa di recuperare i feriti e portarli nei posti di soccorso. Insomma, Titarenko è regista dentro e fuori lo schermo, a sottolineare la natura metalinguistica dell’opera.  

Per Vladan Petkovic, recensore del sito Cineuropa.org, Eastern Front è “il documentario definitivo sui primi sei mesi dell’aggressione russa all’Ucraina”. [pagina web https://cineuropa.org/it/newsdetail/439199/, visitata l’ultima volta il 2 dicembre 2024]. Un’investitura mica da ridere, ma pienamente meritata da Mansky, Titarenko e i loro collaboratori: Eastern Front è un film notevole sotto ogni aspetto. Titarenko, con i suoi compagni, nello svolgere la fondamentale attività di soccorso, può attingere ad immagini direttamente dalla Prima Linea, e questo è già un valore assoluto per il documentario. Cosa che, per altro, si era già vista nel precedente lavoro del regista, Vouna Rady Myra/War for Peace; ma, con il suo apporto, Mansky cerca di andare oltre al semplice resoconto. In aggiunta a ciò, infatti, il film mostra una rara efficacia nel raccontare per immagini, anche attraverso l’ordine del montaggio delle scene, e qui è, appunto, assai probabilmente, la sapiente mano di Mansky a fare la differenza. L’avvio del film coglie la curiosa coincidenza della ricorrenza del Giorno dell’Indipendenza dell’Ucraina, il 24 agosto, che coincide con i sei mesi dall’inizio della guerra: i carri armati russi arrugginiti abbandonati per le strade di Kyiv sono efficaci monumenti al pericolo che ancora sovrasta l’Ucraina e la sua indipendenza. Poi si entra nel vivo dell’azione: una corsa a perdifiato in l’ambulanza, il ferito grave, molto grave, troppo grave, e bisogna andare veloci ma, allo stesso tempo, vanno possibilmente evitati scossoni e bruschi cambi di direzione. Il tempo stringe, il ferito è ferito ovunque, in ogni parte del corpo o quasi; il percorso è difficoltoso, ci sono le barricate da schivare, così come le buche della strada bombardata, mentre niente si può fare per i dossi artificiali ancora presenti sulla carreggiata, ma occorre fare in fretta. La telecamera inquadra l’interno dell’ambulanza, il caos coi soccorritori che si affannano e, nella concitazione, il ferito è visto solo di sfuggita. Poi, quando forse è troppo tardi, la telecamera sale e mostra la gravità della situazione, l’uomo ha il colore della morte sebbene gli addetti si affannino col massaggio cardiaco e l’ossigeno nell’estremo tentativo di riportalo in vita. Una scena traumatizzante; ma Mansky sa bene che non è brutalizzando gli spettatori che riuscirà a rendere la pesantezza della situazione nel suo Paese, e allora concede subito un po’ di respiro, con uno stacco radicale. Siamo da qualche parte nell’ovest dell’Ucraina, i ragazzi del Battaglione Hospitallers sono in costume da bagno, nei pressi di un lago, conversando tranquillamente sulla situazione, immersi nella calda luce solare. L’argomento più interessante è la costatazione di come la generazione precedente, quella dei genitori di questi giovanotti, sia stata talmente forgiata dal regime sovietico al punto che, per Putin e la sua propaganda televisiva, è un gioco da ragazzi imbottirgli la testa di falsità. Un membro del gruppo racconta di come sua madre fosse talmente convinta che i russi non fossero coinvolti negli scontri al fianco dei separatisti nel Donbas, al punto di non credergli quando le diceva di averli combattuti in prima persona. La donna riteneva più attendibili le bugie raccontate da un elettrodomestico piuttosto che la verità vista da suo figlio coi suoi propri occhi. Il montaggio prosegue alternando scene belliche, evidenziate da una luce dominante color seppia, ad altre prese da attimi di vita lontani dalla prima linea. 

Questo permette di confrontare le due situazioni, riportando sempre la realtà della guerra alla sua assurdità in rapporto alla normalità della vita quotidiana. Intanto, ci sono un paio di passaggi dal fronte insoliti, che servono a far ulteriormente riflettere lo spettatore sulla scala di gravità in cui si trova un Paese sotto brutale aggressione. La prima scena è spiazzante: i ragazzi protagonisti del documentario trovano alcune vacche di una fattoria che sono state abbandonate e sono ora immerse completamente nella palta e nel fango, bloccate senza alcuna possibilità di fuga. I giovani provano a tirarle fuori da questa sorta di sabbie mobili ma non c’è niente da fare per le povere bestie. Può sembrare strano, in un film che racconta della guerra, di soldati morti a decine, di civili massacrati, di città distrutte, ma vedere degli animali domestici lasciati agonizzare stringe il cuore. In fondo, le bestie, che colpa hanno della follia umana? Uno dei presenti commenta efficacemente: “È come l’Inferno di Dante!”. Davvero. L’altra scena che sorprende completamente lo spettatore è quella in cui uno dei militari entra in una residenza e viene aggredito dal cane di casa; l’uomo spara ripetutamente all’animale, lo insegue, continua a sparargli, finché non lo uccide. Una reazione spropositata, come sembra sottolineare anche uno dei presenti alla scena. In guerra, per quanto assurdo possa sembrare, ci si abitua al concetto di uccidere il nemico, che è costituito da persone come noi soltanto con un’altra divisa; o anche senza, visto che le vittime civili abbiamo imparato a considerarle come «effetti collaterali». Forse non è una cosa che accettiamo, nel nostro profondo, semplicemente è come se sospendessimo il giudizio morale sulla questione. Basta che l’oggetto nel mirino del mitra sia un animale domestico e non un umano, perché che questa sospensione decada e assistere all’uccisione di un cane ci turba. Genialità degli autori. Con questi carichi emotivi la tensione si accumula, seppure le scene con le riunioni famigliari tengano la situazione sotto controllo, ma nel complesso il documentario trova una strada originale per raccontare la guerra russo-ucraina, rispetto agli altri prodotti simili. Non che se ne dissoci, sia chiaro: forse sono solo coincidenze, ma non mancano nemmeno stavolta le tende svolazzanti delle finestre sventrate, simili a fantasmi, forse il cliché figurativo per antonomasia di questa guerra. E non manca nemmeno il tema della paura ucraina di venire cancellati dall’umanità, una vera fobia che certifica, più di ogni altra cosa, la brutalità degli invasori. C’è la solita ironia ucraina, per cui, in quest’occasione, si va sull’argomento parlando di una possibile raccolta dello sperma degli uomini impegnati al fronte prima che, con la loro morte, non si estingua del tutto l’etnia ucraina. Una preoccupazione che affligge le compagne dei nostri protagonisti, che sembrano quasi scherzarci su, ma che rivela la radicata preoccupazione ucraina di venire eliminati più che sconfitti. Questi dettagli, comuni agli altri documentari, sembrano ascrivere consapevolmente Eastern Front al filone dei film sulla guerra russo-ucraina, del resto Mansky e Titarenko hanno sottolineato in più modi che il loro è vero cinema e non un banale reportage. E, come il vero cinema, riserva un gran finale, seppure non si può certo dire che sia lieto, anzi. Dopo avercene dato un assaggio subito in apertura, con la citata scena dell’ambulanza, dopo averci mostrato il rapporto tra la guerra e la vita quotidiana, dopo aver sottolineato la gravità della situazione, dimostrando quanto gravi sono le sofferenze inflitte agli animali, si arriva al nocciolo, il fronte durante la battaglia. La scena è veloce, brutale come un’incursione, il bosco brullo, pattume sparso ovunque, poi l’esplosione, il fumo, le grida. Si fatica a raccapezzarsi, a capire quello che succede, la telecamera, un Iphone posto nel taschino di Titarenko, rotola insieme al regista, il mondo va sotto sopra ma tutto ciò conta poco al confronto con l’immagine della morte, dei caduti in battaglia, o forse sono solo feriti, chi può dirlo; ma, nel caso, devono essere davvero gravi. Gli Hospitallers ne raccolgono uno e via, di corsa a perdifiato verso il mezzo di soccorso. Il fiatone, qualcuno dice che è tutto ok, la telecamera inquadra il cielo lattiginoso tra i rami spogli poi lo schermo dissolve in un bianco abbagliante. È dunque questo, il destino dell’Ucraina? Sparire nel nulla? È un rischio, certo, ma Mansky e Titarenko hanno ancora qualcosa da dire. Una didascalia finale ci informa che i personaggi del film hanno parlato tra loro in russo e in ucraino. In un film ucraino, che racconta di come gli ucraini debbano combattere per non venire cancellati dagli aggressori, gli autori sottolineano l’utilizzo, nel loro film, della lingua russa, che è il primo elemento che contraddistingue un popolo. L’Ucraina ribadisce il suo diritto di esistere riconoscendo l’esistenza di chi la vuole eliminare. 





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martedì 3 giugno 2025

BUTTERFLY VISION

1678_BUTTERFLY VISION (Bachennya metelyka), Croazia, Repubblica Ceca, Svezia, Ucraina 2023. Regia di Maksym Nakonechnyi

Dopo circa un’ora di film, Lilya (Rita Burkovska), la protagonista di Butterfly vision, in mimetica da guerra, arriva a Troitska Ploshcha, un’area aperta nei pressi dello Stadio Olimpico di Kyiv. Lo spiazzo è caratterizzato da una serie di linee convergenti verso il centro, un disegno geometrico formato dalle mattonelle della pavimentazione. Dall’alto, la piazza sembra quasi una sorta di mirino: e, in effetti, è stata colpita con una bomba proprio al centro, proprio al crocevia delle linee. Nella loro opera distruttrice, gli aggressori non si sono peraltro limitati a questo sberleffo quasi umoristico, come si può vedere dando una rapida occhiata in giro: palazzi ed edifici, stadio olimpico compreso, portano i pesantissimi segni dei bombardamenti.  È una delle «visioni della farfalla» a cui si riferisce il titolo, e la farfalla in questione è naturalmente Lilya che, infatti, sotto le armi aveva il nome di Butterfly, farfalla, appunto. Queste visioni apocalittiche sono legate, naturalmente, allo stato di guerra del paese, ma, in modo più specifico, alla diretta esperienza avuta dalla ragazza, durante il suo servizio nell’esercito, in qualità di ufficiale nella ricognizione aerea militare. Lilya, nel Donbas, è stata catturata dai separatisti, tenuta incarcerata una decina di mesi e poi rilasciata nell’ambito di uno scambio di prigionieri: durante la detenzione è stata torturata e stuprata. I controlli medici a cui viene sottoposta dopo la liberazione stabiliscono che è rimasta incinta. Il marito, Tokha (Valivots Liubomyr), non accetterà mai la cosa, che la stessa donna, ovviamente, non è che riesca a gestire con disinvoltura. L’ipotesi di un aborto è presa in considerazione, ma non è una cosa che si possa decidere così, a cuor leggero.  Il che non rende certo felice il marito, un veterano ora aggregato ad una milizia ultranazionalista le cui operazioni non sono del tutto edificanti: in un raid contro un campo rom, ci scappa un morto tra gli inermi civili. Tokha, insieme ai suoi degni colleghi, è sottoposto a processo ma viene rilasciato quando si scopre che sua moglie, l’eroina appena rilasciata dopo una lunga prigionia, è incinta. Uno youtuber filorusso insinua però qualcosa a proposito di questa gravidanza e Tokha non regge oltre, mettendo tragicamente fine alla sua vita. Intanto, Lilya, pur tra mille travagli, ha infine partorito una bambina, ma decide di non tenerla e la lascia in affido ad una famiglia. Poi si reca allo Stadio Olimpico di Kyiv: le linee della vicina piazza convergono verso il punto centrale, intonse, e li vi si uniscono. Si uniscono esattamente come potevano essere unite la sua vita, quella di suo marito e quella dei loro ipotetici figli. La sua visione, la Butterfly vision, è stata davvero profetica, la guerra ha distrutto la sua famiglia: lei all’estero, il marito morto suicida, la figlia in adozione. 

La paura maggiore, negli ucraini, è quella di venire letteralmente cancellati dall’aggressione russa, e il film di Maksym Nakonechnyi è un valido esempio di questo diffuso timore. La famiglia della protagonista è smembrata, sparpagliata, disonorata, anche chi sopravvive è costretto ad emigrare, come Lilya e sua madre; e la piccola bambina è adottata da una coppia –che parla in inglese, il che lascia supporre non si tratti nemmeno di ucraini– che spera comunque di andarsene all’estero a breve. Nel complesso Butterfly vision è un film che propone alcuni temi importanti con un’estetica poco formale, al punto che spesso sembra di essere di fronte ad un documentario o uno degli ibridi con cui il cinema ucraino sta proponendo spesso la guerra russo-ucraina. Formati diversi, come la scena del citato youtuber o le immagini viste dalla soggettiva di un drone di ricognizione, si alternano al normale flusso video; ma anche le immagini tradizionali, sono prese senza le tipiche attenzioni della regia, proprio come capita in un filmino amatoriale. Le visuali dall’alto sono spesso accostate a quelle dell’ecografie, un rimando al tema portante del racconto; queste «visioni della farfalla» sono introdotte da veloci disturbi del flusso video, definiti in genere «glitch», a significare la distorsione della realtà per far spazio appunto a flash di disparate fonti, come anche il subconscio o i traumatici ricordi della protagonista. L’idea di utilizzare il glitch come strumento di montaggio, rimanda direttamente a This rain will never stop [This rain will never stop, Alina Gorlova, 2020] di cui Nakonechnyi era stato produttore. Il regista è un progressista convinto e nel film si può osservare la sua ferma denuncia a quei fenomeni effettivamente presenti in Ucraina, con la destra radicale intollerante nei confronti di minoranze etniche quali Rom o di altro tipo, come omosessuali, lesbiche e transgender. Eppure è grazie a lui, oltre che alla co-sceneggiatrice Iryna Tsilyk – apprezzata regista di The Earth is blue as an orange [The Earth is blue as an orange, Iryna Tsilyk, 2020]– se abbiamo uno sguardo sulla questione dell’aborto meno arroccato su posizioni pregiudiziali di quanto siamo abituati a vedere. Nel racconto del film, non è ben chiaro quale sia l’orientamento politico di Lilya: è un militare, certo, ma si occupa di ricognizioni aeree, il che, simbolicamente, potrebbe essere inteso come la caratteristica di chi cerca di guardare meglio, per farsi un’opinione. C’è un accenno al Maidan, le proteste note come Euromaidan, che avevano, tra le altre correnti che le animarono, una forza progressista nel senso che diamo noi in occidente al termine; inoltre, la ragazza si mostra sconvolta quando scopre che il marito e i suoi camerati hanno ammazzato un civile nell’incursione al campo rom. Più semplice inquadrare Tokha, che fa volontariamente parte di una milizia squadrista di evidente matrice fascista e ultranazionalista. Eppure, tra i due, è proprio l’uomo a reagire più negativamente alla notizia che la moglie sia rimasta incinta in seguito allo stupro da parte dei secessionisti, e a caldeggiare l’aborto. Per essere onesti, la posizione di Lilya nel merito non è così definita, del resto si tratta di una persona fortemente traumatizzata e le sue reazioni o decisioni sono quindi influenzate da questo stato. O, forse, è proprio la sua visionarietà, a permetterle di avere uno sguardo di insieme che rivela tutti gli aspetti della questione, rendendo una decisione simile davvero dolorosa, almeno da un punto di vista etico e morale; in ogni caso impossibile da prendere per partito preso. Questo quadro è, in concreto, l’opposto di quello a cui siamo abituati ad ascoltare, nel dogmatico racconto della nostra élite culturale: qui il reazionario è favorevole all’aborto, mentre la persona di prospettive più ampie si pone almeno qualche dubbio. Ma, forse, in questa considerazione c’è almeno un errore: d’accordo su come siano inquadrati i conservatori, ma sono davvero persone aperte al dubbio, al confronto, i cosiddetti progressisti? Anche quando si toccano i loro insindacabili dogmi?   




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domenica 1 giugno 2025

PROCESSES

1677_PROCESSES, Polonia, 2023. Regia di Andrei Kashperski

Presentata in alcuni festival cinematografici come opera unica, Processes di Andrei Kashperski è stata in precedenza una sorta di miniserie in quattro episodi trasmessa dal canale Belsat TV. Qui è utile, anche per comprendere meglio il film e le sue finalità, spendere giusto due parole per presentare questa interessante piattaforma televisiva in lingua bielorussa: fondata nel 2007 in collaborazione con la rete polacca Telewizja Polska e il Ministero degli Esteri di Varsavia, Belsat TV <pagina web https://belsat.eu/79795897/пра-нас visitata l’ultima volta il 26 ottobre 2024> propone un palinsesto indipendente dal governo di Minsk e, verrebbe da dire «di conseguenza», dal Cremlino. Le posizioni critiche nei confronti di Lukashenko, presidente bielorusso, e di Putin, suo corrispettivo russo, nonché in proposito all’invasione armata in Ucraina, hanno fatto finire Belsat TV all’indice sia di Minsk che di Mosca. Nonostante ciò, l’emittente continua il suo lavoro e un’opera intelligente e interessante come Processes è certamente un bel biglietto da visita per questo atipico canale. Come detto, l’opera in questione si compone di quattro episodi e si parte subito col botto: Fostering [si utilizzeranno i titoli scelti dai distributori per l’edizione internazionale, onde evitare equivoci con le traduzioni dall’originale; per questo primo episodio, in italiano, il significato è Affidamento] è un racconto spassoso, demenziale e terribilmente caustico. Nikolai (Andrei Novik), un agente della OMON, la polizia antisommossa bielorussa, nello zelante adempimento dei suoi doveri, cattura tre manifestanti che protestano contro la guerra. Una volta arrivato al comando, gli comunicano che non c’è posto nelle patrie galere e che deve quindi portarseli a casa e lì tenerceli per la durata prevista dalla prigionia. Qui sorgono i problemi per Nikolai: che non sono però connessi alla palese illegalità della cosa, al fatto che il suo appartamento non sia certo spazioso come una reggia o che i suoi due figli piccoli si possano trovare ad avere a che fare con tre sconosciuti in ambito domestico. Il punto dolente è «Kitten» (Valentina Gartsueva), ovvero la moglie del poliziotto, che, sul momento, non sembra certo entusiasta, per usare un eufemismo, di trovarsi per casa i tre manifestanti. È evidente che le premesse del soggetto siano in pieno surrealismo e gli autori –Mikahail Zuy oltre allo stesso Kashperski– nello svolgimento della trama, ne alimentino adeguatamente l’assurdità. Alcune pennellate sono memorabili, a cominciare dalla paciosa donna che incita i poliziotti a menar di manganello, nella scena iniziale, e poi ne diviene vittima, assurdamente scambiata per una dimostrante. Oppure il mutamento di opinione di Kitten, che prima mal sopporta i tre «ospiti» e poi coglie gli aspetti vantaggiosi della situazione, facendoli sgobbare ai mestieri di casa. O la curiosa e tenera amicizia che si stipula tra i tre, assai presunti, facinorosi e i due figli della coppia, sebbene nella scena più assurda Kashperski e Zuy si permettano perfino una sorta di autoironia che, data la situazione bielorussa, è una doppia nota di merito. Si è detto di come la produzione dell’opera sia parte di un movimento critico nei confronti del regime totalitarista di Minsk e tutta quanta l’impostazione di Fostering –e di tutto Processes, naturalmente– lo lasci palesemente intendere. In questo senso i tre manifestanti sono, per deduzione, facenti parte di questo stesso movimento: la natura non violenta e l’indole docile, evidenziano la loro differenza dalla brutalità della milizia –ben incarnata da Nikolai, il protagonista– e anche dalla più che opportunistica indifferenza di molti –che può essere colta nell’atteggiamento di Kitten. Ad un certo punto, uno dei figli di Nikolai ha bisogno di essere aiutato nei compiti scolastici; vista la difficoltà con attività che non siano fisiche, il poliziotto ha la brillante idea di costringere uno dei manifestanti a farlo al posto suo. Vuoi per la natura mansueta del giovane, vuoi per la paura di prendere manganellate, vuoi per l’amicizia istaurata col bambino, in ogni caso il nostro baldo giovanotto ben si presta al compito. Qui sembra evidenziarsi quella diffusa e convinta «superiorità intellettuale» che caratterizza le persone progressiste nei confronti dei beceri e reazionari difensori dei poteri forti. Sennonché c’è in agguato la citata ironia degli autori: difatti, proprio questi compiti saranno la causa di un sonoro voto negativo per il ragazzino. Nikolai, furibondo, ricorre quindi al manganello per ringraziare l’eppur volenteroso manifestante. Alla fin fine, il periodo di reclusione termina, e i tre giovani vengono rilasciati dall’agente; ma l’episodio si chiude con una scena sostanzialmente analoga a quella dell’incipit, se non fosse che il poliziotto cattura una persona palesemente estranea a qualsiasi –seppur legittimo– corteo di protesta. Come prima, peggio di prima: questa sembra proprio un’affermazione che riassuma lo stato delle cose bielorusso.

Il secondo episodio, Patriotic education [letteralmente, Educazione patriottica] è una sorta di rivisitazione molto libera della fiaba di Barmalej, una specie di girotondo tradizionale russo. [Barmalej, Kornej Ivanovič Čukovskij, 1925]. Una scolaresca di bambini, non più di una decina, si reca con la propria maestra a visitare la sede del KGB accompagnata da due buffi individui, molto simili tra loro, che sembrano usciti da una sinistra versione del fumetto Tintin [Tintin, Hergé, 1929]. Proprio come in certe cantilene, ad ogni tappa del «giro turistico» un membro della truppa viene in qualche modo sottratto al gruppo, che prosegue in numero via via sempre più esiguo. Sono ormai solo una manciata i bambini che arrivano al momento clou del tour negli uffici dei servizi segreti bielorussi: l’interrogatorio di un sospettato. A turno, i ragazzi, spronati da un sinistro ufficiale (Igor Sigov), devono premere su un tasto che comanda l’elettroshock al prigioniero, finché, a fronte di una scossa più sostenuta delle altre, il pover’uomo confessa –non è dato sapere cosa. Ora c’è l’ultima tappa, l’esecuzione del reo confesso: il ragazzino che ha ottenuto l’ammissione di colpevolezza del sospettato, è chiamato a premere ancora, stavolta sul grilletto di una pistola. In un cortile chiuso tra alti edifici, alle cui finestre vediamo le sagome di adulti e bambini che osservano la scena immobili e in silenzio, il condannato è ucciso con un colpo in testa. L’ufficiale ride, i due agenti ridono, ride persino la maestra, che fin lì aveva mantenuto un comportamento interlocutorio; una bambina vomita, mentre il ragazzino che ha premuto il grilletto è rimasto impietrito. Come gli spettatori, probabilmente.  
Dreamed [Sognato, in italiano] è il terzo episodio e propone un’altra situazione assurda: tutti i funzionari di un non meglio specificato ministero governativo fanno lo stesso identico sogno, in continuazione, tutte le notti. Nel sogno, il presidentissimo, muore. Inizialmente, sembra una preoccupazione inconscia del solo Nikolai Ivanovich (Oleg Garbuz) ma, ben presto, si scopre che anche gli altri membri del ministero ne soffrono. Persino la segretaria, Yulechka, è tormentata dallo stesso incubo: tra i vari funzionari, si comincia a temere che si tratti di un sogno profetico. A Nikolai e ai suoi collaboratori appare chiaro che si tratti di un attacco della propaganda occidentale, ma occorre chiarirsi meglio le idee per decidere il da farsi. Il sogno, una volta condiviso tra i vari membri del ministero, viene meglio definito: ci sono fiori, del resto c’è un funerale, e, soprattutto, piove. Una bizzarra coincidenza legata ad una prossima celebrazione nazionale convince tutti quanti che il sogno sia davvero una premonizione: il presidente, la Prima Persona, morirà proprio in quell’occasione. Ma che fare? Avvertirlo del pericolo? Adducendo ai sogni profetici come fonte di informazione? Sarebbe come ammettere di essere spie al soldo del nemico. Allo stesso modo sarebbe rischioso farsi trovare nei paraggi durante la celebrazione, se capitasse qualcosa di brutto al presidente. Yulechka fa notare che nel sogno piove e, secondo le sue esoteriche conoscenze sulle interpretazioni dei sogni, la pioggia significa cambiamento. Forse poteri superiori sono al lavoro e ai nostri funzionari non resta che assecondarli: e, sorpresa, la cosa non sembra poi dispiacere molto a Nikolai e colleghi. Arriva il fatidico giorno: una scusa sull’emergenza epidemiologica ha giustificato la loro assenza, e così, mentre il presidente va incontro al suo destino, i nostri si preparano a festeggiare degnamente la sua prevista dipartita, non prima di aver registrato una confessione in cui denunciano le atrocità del regime e la loro ferma opposizione ad esso. Stappato lo spumante, sono pronti a brindare al nuovo corso, quando finalmente giunge Yulechka con l’atteso comunicato stampa. Dal quale, tuttavia, si apprende che il sogno non era affatto profetico. Il presidente, felice dell’ottima riuscita della celebrazione, ringrazia tutti i presenti; e anche gli assenti.  

La guerra, finora, è stato un tema appena sfiorato, dal film –si sentono alcune grida dei dimostranti, all’inizio del primo episodio– ma per il resto la graffiante ironia di Processes è stata rivolta al governo di Minsk e ai suoi apparati di potere, la polizia antisommossa, il servizio segreto o i ministeri pubblici. Eppure la guerra, nello specifico quella russo-ucraina, coinvolge direttamente il popolo bielorusso in un sanguinoso conflitto in cui, da quelle parti, è ancora più arduo orientarsi. Anche perché, almeno se diamo retta a Program schedule [in italiano, Programma orario] in Bielorussia non si parla della guerra; logico visto che non c’è nessuna guerra. Almeno stando all’informazione di regime, che è l’unica messa ufficialmente disposizione dei cittadini. E, quindi, figuriamoci se i militari bielorussi possano venire coinvolti in qualcosa che nemmeno esiste. Impossibile; o no? Zoya (Yana Troyanova) riceve una telefonata da suo figlio: strano, il ragazzo è all’esercitazione militare. La comunicazione cade immediatamente ma Zoya fa in tempo ad udire alcuni scoppi. I rumori della guerra? La donna prova a richiamare, ma il telefono del figlio non è più raggiungibile. Che siano vere le voci che si sentono sussurrare in giro? Che davvero i ragazzi bielorussi siano mandati a combattere in una guerra di cui ufficialmente si nega perfino l’esistenza? Zoya è una commessa ma, turbata com’è da questo pensiero, comincia ad essere meno efficiente sul lavoro e confida alla bizzarra collega le sue preoccupazioni. Poi ha la malsana idea di telefonare ad un programma televisivo per cercare aiuto o informazioni a proposito di suo figlio. La sua richiesta ha come primo risultato una sinistra ispezione da parte di due ragazze mandate dall’autorità. In seguito, Zoya viene invitata a partecipare al programma televisivo citato: una trasmissione surreale ma, in fin dei conti, nemmeno troppo diversa dalla classica televisione spazzatura che si può vedere al pomeriggio sui nostri canali. E la donna sembra rientrare nei ranghi: ora è convinta non solo che la guerra sia un’invenzione, ma pure che suo figlio lo sia. Il finale, naturalmente, considerato la natura di Processes, rimescola di nuovo le carte, con Zoya che si trova a tu per tu con Nikolai, l’agente della OMON del primo episodio, per una sorta di «ricominciare dal principio», quasi fossimo al gioco dell’oca, ma con alcuni presupposti diversi. Stavolta la polizia antisommossa rimane a mani vuote, Zoya rompe la cortina –di cellophane!– e sparisce, non prima di aver infilato una specie di spillone in un occhio a Nikolai.
La guerra è un altro elemento che –seppur in modo indiretto e mai realmente messa sullo schermo– alimenta la circolarità della trama: le prime parole che si odono nell’episodio che apre Processes sono “no alla guerra” gridate dai manifestanti e nell’ultimo il tema è il tentativo del regime bielorusso di negarne l’esistenza. Per la verità non si può sapere quanto siano pianificati, questi dettagli, dal momento che l’opera venne trasmessa originariamente come serie televisiva e non come lungometraggio diviso in episodi. In ogni caso, l’impressione complessiva è quella di un mondo chiuso che ristagna perennemente nella medesima condizione. Ad alimentare quest’idea ci sono i personaggi e le situazioni ricorrenti trasversalmente ai vari episodi: ad esempio, Nikolai, inteso sia come il poliziotto della Omon, sia come nome, curiosamente comune anche al funzionario protagonista del terzo; la giudice che si interrompe per bere mentre legge la sentenza di condanna; le mani che si sporcano d’inchiostro; i personaggi che dormono sul pavimento, accanto al letto; i bizzarri cappellini fioriti della commessa in Program schedule o il refrain di ripetere da quanto tempo si conoscono tra loro i protagonisti di Dreamed. Tra le scene che incarnano il versante assurdo dell’opera si può citare poi quella della sala fumatori, in quest’ultimo episodio: Nikolai sta discutendo con un collega e vediamo che sono seduti ad una certa distanza. Il collega è nervoso, per via dei sogni ricorrenti, e non riesce ad accendersi la sigaretta: Nikolai, stando seduto, allunga il braccio con l’accendino e, a sorpresa, riesce ad arrivare fino alla sigaretta del collega! L’immagine successiva chiarisce che Nikolai è ancora seduto al suo posto. Nel montaggio di questa piccola sequenza è racchiuso non solo il senso dell’episodio ma di tutto Processes e, addirittura, della situazione bielorussa: si fa finta di niente, si assembla il filmato come fosse tutto normale, senza curarsi che la situazione non lo è affatto. È un passaggio assurdo, Nikolai non può accendere la sigaretta del collega stando seduto a tre quattro metri di distanza; ma la cosa più assurda è che il filmato cerchi –e, in buona sostanza, riesca, perché l’incongruenza, per lo spettatore, non è così clamorosa– a spacciare la cosa come credibile. Più che le visite domestiche di sorridenti ma inquietanti funzionarie dell’autorità, della suadente dialettica delle presentatrici televisive, del brutale zelo della OMON, della persuasiva «cordialità» degli agenti del KGB, ad incarnare al meglio la propaganda di regime d’oltrecortina è la spudorata capacità di fingere ciò che non è possibile fingere. Al punto che, per averne ulteriori conferme, basta guardare un qualunque social network e cercare quelli che –nei nostri lidi, tra i nostri «contatti»– fanno proprie questa improbabili e surreali bugie per smentire la propaganda occidentale. Da cui si può ben desumere che l’assurdità di Processes non è solo specchio della situazione bielorussa.