1633_ARRIVA UN CAVALIERE LIBERO E SELVAGGIO (Comes a Horseman). Stati Uniti 1978. Regia di Alan J. Pakula
Dopo i successi della cosiddetta trilogia della paranoia (Una squillo per l’ispettore Klute, Perché, un assassino e Tutti gli uomini del presidente) Alan J. Pakula si cimenta con il genere classico per eccellenza, il western. L’approccio è decisamente personale, sebbene in tema con i tempi che sembrano ormai irrimediabilmente passati per il western classico: l’ambientazione è posteriore ai tempi della conquista del west, siamo già intorno dopo il 1940 e la protagonista scorazza per la campagna con una vecchia automobile, oltre che a cavallo. La protagonista è Ella –una Jane Fonda un po’ trasandata e sciupata, nel vano tentativo di imbruttirla– una ranchera che si oppone alle prepotenze Jacob Ewing (il sempre utile Jason Robards), il classico allevatore espansionista. Ad aiutare la donna, in principio, c’è solo il vecchio Dodger, (Richard Farnsworth) di cui sarà memorabile soprattutto l’uscita di scena, e per fortuna che a dar manforte all’improbabile duo di allevatori (una donna e un vecchio) arriverà Frank, il cavaliere del titolo, interpretato da un nerboruto James Caan. Il film non offre particolari espedienti narrativi né interpretazioni della cultura western che siano originali: Ewing conosce solo la legge della prepotenza e la impone, a chiunque gli si pari davanti, anche ai banchieri interessati al petrolio di cui pare sia ricca la zona. Anche Ella, in gioventù aveva ceduto, più che subito, alla violenza dell’uomo ma, da allora, le cose sono cambiate e la donna è divenuta l’ultimo baluardo irriducibile all’espansione di Ewing. Non sono queste cose, però, a rendere memorabile il film, in quanto non sono particolarmente originali: non basta che l’eroe che si oppone alle ingiustizie sia una donna, nemmeno una donna come Jane Fonda, per rendere la cosa particolarmente significativa.
In realtà non c’è niente di particolarmente significativo, in questo film, se non la resa del Sogno Americano. E Pakula, per rendere esplicito il fallimento di questo importante manifesto della cultura occidentale, e non solo a stelle e strisce, sceglie il genere che per antonomasia lo ha celebrato, il western, ma lo svuota completamente. Abbiamo visto come nel film ci siano infatti tutti gli stereotipi dei classici film sulla conquista del west ma non funzionano. La vera lotta, lo si capisce nella seconda parte della storia, non è tra l’allevatore piccolo e quello più grande ed espansionista, ma tra due sistemi economici, uno più arretrato e l’altro più speculativo e legato allo sfruttamento selvaggio delle risorse. Non di meno, se è vero che nella vicenda alla fine si unisce una coppia, non si vedono all’orizzonte figli o discendenti; mentre viene celebrata in modo discreto ma significativo la morte del vecchio mandriano, simbolo del tempo che fu. Anche la fotografia del celebrato Gordon Willis è tutt’altro che affascinante; forse tecnicamente ineccepibile, ma i paesaggi che mostra, pur se di grande fascino, mettono tristezza per via dei colori spenti e tipicamente televisivi. Pakula mostra la rabbia di una generazione: la stizza di Ella, la furiosa reazione di Frank che malmena brutalmente i due sgherri di Ewing. Rabbia per le ingiustizie, per le avversità e, nel contempo, questa generazione vede anche andare in fumo i propri sforzi, insieme al loro ranch che brucia e si consuma in un attimo: con la stessa assenza di enfasi con cui viene sbrigata la formalità dello scontro finale. Nel finale, i due si aggirano per i resti dell’incendio cercando di risistemare qualche trave: un’immagine triste, tra il commovente e il patetico. Se ci sarà una ricostruzione non sarà in questo cinema.
Jane Fonda
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