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mercoledì 5 marzo 2025

I MALAMONDO

1632_I MALAMONDO  . Italia 1964. Regia di Paolo Cavara

Paolo Cavara, dopo i primi lavori con Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, decise di intraprendere la carriera di regista in forma individuale. Per la verità, la sua prima opera, I Malamondo, non si discosta dal solco tracciato da Mondo cane, raccogliendo inevitabilmente un’accoglienza non troppo diversa dalla critica.  Tra le tante trancianti stroncature, si possono citare: “Un’altra occasione sprecata”, A.S. Corriere d’informazione, “Insomma, il solito ipocrita e indisponente moralismo”, Vice, La Notte, “Aiuto di Jacopetti in Mondo cane e La donna nel mondo, Paolo Cavara ne riprende il cinismo, la sardonicità, la disperazione, ma con minor passione, con minor disincanto”, L.P. La Stampa [Jacopetti Files, da pagina 67 a 72]. Giudizi un po’ superficiali, per la verità, perché, contemporaneamente, c’era già chi osservava: “È invalso l’uso di incrudelire contro film di corrotta e deformata documentazione che vanno sotto l’etichetta comune di pellicole «sexy». Si tratta di un giudizio frettoloso, perché da prodotto a prodotto le differenze sono notevoli. Prendete questo I Malamondo: sotto il titolo bizzarro non c’è che una collezione di aneddoti, ora gustosi e ora piuttosto anodini, sulle stranezze del mondo attuale. Non è sadismo, né gusto dell’orrido” [Vice, Il Giorno, Jacopetti Files, pagina 70]. Ancora più rinfrancante quest’altro commento: “Si tratta generalmente di episodi ricostruiti, sì, ma con fedeltà e piglio realistico” [Guglielmo Biraghi, Il Messaggero. Jacopetti Files, pagina 75]. Sull’autenticità di quanto mostrato da Cavara, sembra quindi ci sia unanime accordo sul dire che si tratti piuttosto di ricostruzioni, del resto la natura dei segmenti narrativi lo conferma. Come si potrebbero cogliere al volo le riprese della forsennata corsa in motocicletta dei «teddy boys» di Leicester, o partecipare, in modo discreto, alla festa della porchetta in Versilia? E che dire del passaggio tributato a Adriano Celentano, che sembra uno scarto raccattato da uno dei Musicarelli del tempo? Il «Molleggiato», qui degno rappresentante di quelli che al tempo erano definiti «urlatori», e contrapposti ai «melodici» dell’italica tradizione della canzone italiana, interpreta Sabato triste che, duole dirlo, è il passaggio musicalmente forse più debole del film. Perché, il commento sonoro de I Malamondo, opera di Ennio Morricone, è invece uno dei punti di forza del lungometraggio e, in definitiva, la sua vera ancora di salvataggio. A questa, infatti, sembra appellarsi anche Cavara con l’armonia di certe sue riprese, quella evocativa del lancio del paracadute ma anche forse il passaggio migliore del film, che nasconde un piccolo colpo di scena, con la coppia norvegese in procinto di separarsi sul molo. In questi frangenti il regista rallenta il ritmo, che nei Mondo movie è spesso sincopato per sua natura, e la splendida melodia tema del film, Questi vent’anni miei, si prende la ribalta, concedendo allo spettatore attimi di pura estasi. Tuttavia, nel complesso, I Malamondo non può certo definirsi un film convincente. Cavara sembra non voler rinnegare totalmente la prospettiva di Mondo cane, e propone una lettura unilaterale e forzata di quello era sicuramente il problema principale del tempo, ovvero quello generazionale. Che, per assurdo, visto la contingente situazione, è una soluzione anche legittima, in un certo senso: a pochi anni dall’esplosione della contestazione giovanile, generalizzare sulle insofferenze delle nuove generazioni, poteva essere anche un lecito strumento per rendere l’idea. Però è vero che Cavara non ha la verve corrosiva di Jacopetti, e la sua bravura emerge in altri momenti di cinema, come accennato quelli citati in cui, insieme alla musica di Morricone, si prende delle pause evocative o comunque meno aspre. Nelle intenzioni, positivo anche il segmento ambientato a Dachau, sede del famoso Campo di Concentramento nazista, con il quale l’autore cerca forse di allontanare da sé le etichette che le precedenti esperienze gli avevano in qualche modo affibbiato. Ma, in definitiva, l’autore non ha la capacità lirica per sostenere le sue ambizioni e anche nel chiudere il suo film, per quanto gli ingredienti gli avesse preparati a dovere, manca un adeguato supporto emotivo. Sulla la lieve musica di Morricone, vediamo una bella ragazza, vagamente triste, che apprendiamo essere in preda a tendenze suicide, un problema serio che affliggeva la gioventù svedese. A questo punto Cavara chiude il suo film in una chiesa: quasi che questa possa essere la soluzione per i disagi generazionali. La Storia dirà che la rivoluzione sessantottina metterà al primo posto, tra gli obiettivi da contestare, proprio la religione costituita, scendendo nelle piazze al motto di Né Dio, né Stato, né Famiglia. E questo è simbolico di come il regista, pur nei lodevoli intenti, non riesca, con I Malamondo, a cogliere nel segno che si era probabilmente preposto.




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