1536_107 MADRI(Cenzorka) . Slovacchia, Cechia, Ucraina 2021; Regia di Péter Kerekes.
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Ancora
una volta arriva dall’Ucraina uno dei film più interessanti di questi ultimi
tempi. Stavolta la guerra non c’entra, visto che 107 madri –questa la
traduzione del titolo internazionale del film di Peter Kerekes– è ambientato in
un carcere femminile con detenute che hanno figli piccoli o sono in stato di gravidanza.
O forse la guerra c’entra lo stesso, perché a Odessa, nel 2021, la guerra è
impossibile da lasciar fuori da qualsiasi ambito. Tra l’altro, la situazione
che vediamo sullo schermo –un ambiente popolato da detenute perlopiù vedove,
alle prese con i problemi per gestire i figli piccoli– ricorda quella delle
tante donne che hanno i mariti impegnati al fronte o, peggio, che sono caduti
in battaglia. In ogni caso, quello che rende speciale l’Ucraina oggi, è certamente
legato al conflitto in corso, ma non in modo così diretto. Non sono le bombe o i
missili a rendere il paese dell’est Europa quello che è ora, un vero e proprio «ombelico del mondo», ma
la consapevolezza dei suoi abitanti, e non solo, che è lì che si stia facendo
la Storia, che si stia giocando il destino di buona parte dell’Umanità. Per
quale motivo, un regista slovacco, Peter Kerekes, si reca proprio in Ucraina,
per dirigere il suo film? 107 madri è un’opera atipica, è recitato ma, a
parte la protagonista Lesya, interpretata da Maryna Klimova, e di un altro
personaggio a cui presta le vesti Raisa Roman, il cast è formato, perlopiù, da
vere detenute. Curioso il caso di Lyubov Vasylina, che nel film interpreta
Nadia; la ragazza era stata rilasciata quando erano appena cominciato le riprese
–che si sono protratte per alcuni anni– ed è tornata in seguito in carcere
nelle vesti di attrice. Persino Iryna, la guardia carceraria coprotagonista, è impersonata
da Iryna Kyriazeva, che, anche nella realtà è “l’ufficiale operativo del carcere
di Odessa” [dall’intervista a Peter Kerekes: Alissa Simon, Il
regista di 107 mothers Kerekes riflette sul suo film a Venezia, Variety,
dal sito http://variety.com/2021/film/spotlight/107-mothers-director-kerekes-reflects-on-venice-film-1235055746/
visitato l’ultima volta il 22 agosto 2024].

Anzi, è stata proprio
lei ad avere un ruolo decisivo nelle scelte di Kerekes a proposito di come
realizzare il film. L’intenzione originale del regista slovacco era affrontare
il tema della censura; in effetti, il titolo originale, Cenzorka, a
quello fa riferimento. Trattandosi di una sorta di via di mezzo tra il
documentario e la fiction, il regista si è messo alla ricerca di un posto dove
poter filmare una qualche forma di censura che fosse ancora attiva e funzionante.
E qui si risponde alla domanda lasciata in sospeso: dove, se non in Ucraina, nella
terra della nuova frontiera, si può trovare un luogo simile? Una volta incontrata Iryna Kiryazeva, che tra
le sue funzioni aveva quelle di aprire, leggere e, eventualmente, censurare, la
corrispondenza delle detenute, è divenuto infatti chiaro che il posto ideale
per girare il film fosse il carcere di Odessa numero 74. Del resto, per citare
ancora le parole di Kerekes, “tutto era possibile ad Odessa” [ibidem]
compreso filmare un parto dal vivo per poi inserirlo nella trama del film. A
vederlo con gli occhi di un occidentale –che volenti o nolenti devono essere
pure quelli di Kerekes, visto che la Slovacchia è nell’Unione Europea– il compito
di Iryna è inaccettabile e sgradevole: ascolta all’interfono i colloqui durante
le visite e, soprattutto, legge e «corregge» le missive che queste ricevono, e
guarda caso, pone particolare attenzione a quelle con qualche spunto erotico
sentimentale. Tra le ragazze del carcere numero 74 ce n’è qualcuna ancora
piacente, in ogni caso Iryna, come le altre guardie, al confronto, appare
grossa e sgraziata.

A confermare che una forma di invidia mista a frustrazione,
sia un possibile corroborante all’azione censoria della donna, c’è la figura di
sua madre (Raisa Roman, una delle attrici storiche dell’Odessa State Yiddish Theatre)
che le rimprovera la vita sentimentale praticamente assente. La prospettiva non
è, quindi, per niente favorevole a Iryna, nonostante nei colloqui con Lesya e
le altre detenute si dimostri anche comprensiva. A proposito delle ragazze
ospiti del carcere, va detto che nessuna di loro sembra affrontare in modo
adeguato il tema del pentimento. Quelle che raccontano il motivo per cui sono
rinchiuse, parlano per lo più di un delitto inerente alla vita sentimentale: o
è il marito fedifrago a finire accoltellato o l’amante. Ma la cosa non sembra
aver lasciato particolari strascichi nell’animo delle donne o, almeno, non nel
modo in cui siamo abituati a vederli rappresentati al cinema. Nonostante la
difficoltà di queste ragazze a confrontarsi con le proprie colpe, la loro
condizione disagiata, la difficoltà di vivere appieno un momento importante
della vita come la maternità, suscita nello spettatore un sentimento di
solidarietà. Iryna, e il suo curiosare nelle lettere d’amore –spesso molto piccanti
ma sempre in modo divertente– di empatia ne suscita invece ben poca. Sembra che
la nostra guardia subisca una sorta di pena del contrappasso quando scopre che
sua madre le apra la posta privata per controllare se abbia finalmente trovato qualche
spasimante. E quando Iryna si lamenta dell’indelicatezza della genitrice,
questa le rinfaccia prontamente che lei lo fa abitualmente a danno delle donne
imprigionate nel carcere. I conti, in un certo senso, sembrano tornare: le
ragazze, come Lesya o Nadia, hanno sbagliato e pagano; anche Iryna sconta il
suo essere indiscreta con una vita sentimentale insoddisfacente o, meglio,
inesistente. Un equilibrio che, ad un occhio di uno spettatore occidentale,
inevitabilmente condizionato dal famigerato politicamente corretto, non sembra tuttavia
molto soddisfacente.

Le ragazze dovrebbero, nell’ottica di “elaborare la
propria colpa”, dimostrare maggiore pentimento, affinché il carcere riveli il
suo essere un percorso rieducativo. Nel finale, quando a Lesya viene negata la
libertà condizionata, e si appresta a vedere suo figlio destinato ad un
orfanotrofio, il suo rivolgersi a madre, sorella e persino suocera (Irina
Tokarchuk) –madre dell’uomo da lei ucciso– chiedendo di prendersi in carico il
bambino, appare impietosamente nel suo sfacciato opportunismo. La madre
rifiuta, adducendo la misera motivazione di non aver spazio, la sorella, che ha
tre figli piccoli, replica con la stessa scusa; la suocera, al contrario,
accetterebbe anche, ma unicamente per vendicarsi, negando poi a Lesya la
possibilità di riavere il figlio una volta scontata la pena. Insomma, non se ne
esce: la desolazione morale non è propria solo delle recluse ma sembra collettiva,
dell’intera società. Sembra quasi ironico, il regista Kerekes, quando mostra
che l’unico barlume di umanità ce l’abbia Iryna, la guardia, che prende in
simpatia il povero piccolo destinato all’orfanotrofio, e si fa aiutare da lui nell’azione
censoria delle lettere. Ma probabilmente è solo il nostro sguardo condizionato,
che non riesce più ad accettare le sfumature della realtà: forse, anche un atto
in linea teorica aberrante come la censura, non è poi così grave se fatto con
coscienza, con responsabilità individuale. Che Iryna, come persona, comincia a
mostrare, aiutando il povero bambino prima che questi venga trasferito, ma non
è che un piccolo anticipo.

Perché, poi, del tutto inaspettatamente, e con un
colpo di scena degno di un giallo, una soluzione che, in qualche modo, salva la
baracca, salta fuori. Iryna, la massiccia e poco femminile guardia, parte per
un viaggio in treno: con il vestito corto, le gambe distese sul sedile a
fianco, in un atteggiamento poco consono ad un “ufficiale operativo del carcere
di Odessa”, sembra anzi una bella donna. Si reca all’orfanotrofio, a trovare il
figlio di Lesya con un atto di solidarietà umana, o forse è l’istino materno,
che da solo riscatta l’intero desolante quadro sociale mostrato dal film. Un
film che, in quel momento, diviene bellissimo, quando figurativamente lo è
stato per molti dei suoi fotogrammi: immagini dalla valenza pittorica– e si
prenda il bel manifesto per farsene un’idea. Non un vezzo autoriale, sia chiaro, ma il modo cinematografico per raffigurare
lo stato di sospensione, di attesa, delle detenute in attesa che la propria reclusione
finisca. E pazienza per coloro i quali si
sono eventualmente annoiati nelle fasi precedenti, effettivamente un po’
statiche. 107 madri è un’opera che non segue i rigidi schemi del cinema conformato
ma si affida alla vitalità dei suoi personaggi che, seppur costretti, chi più
chi meno, da mille sbarre e ostacoli, hanno sprazzi di libertà di coscienza che,
nel codificato e omologato mondo occidentale, possono apparire spiazzanti. Maryna Klimova