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lunedì 11 marzo 2024

L'UOMO IN NERO

1451_L'UOMO IN NERO (Judex). Francia, Italia, 1963; Regia di Georges Franju.

Dopo i suoi primi lungometraggi, Il delitto di Thérèse Desqueyroux sembrava una svolta alta, nella filmografia di Georges Franju: l’intimo e impegnativo testo letterario all’origine del film con Emmanuelle Riva, e la superba capacità di tradurlo in pellicola da parte del regista francese, poteva far presagire l’intenzione da parte dell’autore di un approccio più colto alla Settima Arte. Abituato nei suoi film a spiazzare lo spettatore, Franju impone anche alla sua carriera una nuova sterzata, stavolta di senso opposto rispetto alla precedente: L’uomo in nero, il successivo lungometraggio, è una sorta di remake del serial cinematografico Judex del 1916, opera di Louis Feuillade ispirato all’omonimo romanzo d’appendice di Arthur Bernède. Sia che si consideri come riferimento l’opera letteraria, sia che si prendano i film, è evidente che si tratti di lavori di grana decisamente più grossa rispetto al romanzo Thérèse Desqueyroux di François Mauriac. Judex era un personaggio mascherato, l’uomo in nero del titolo italiano del film in questione, simile al celebre Fantomas ma con la non trascurabile differenza che non era un criminale ma un giustiziere. Negli anni Dieci del XX secolo in Francia spopolarono i serial cinematografici dedicati a personaggi cattivi, il citato Fantomas ma anche I vampiri, sempre per mano di Feuillade. Judex fu una sorta di risposta alle critiche che l’autore aveva ricevuto per aver raccontato sempre storie di criminali e malfattori. In realtà si trattava solo di un aggiustamento di facciata, visto che la critica alla società borghese, tipica di queste produzioni che sconfinavano spesso nel surreale, rimaneva inalterata. Probabilmente c’è anche una certa logica evolutiva, nella cronologia della comparsa di questi personaggi: prima arrivarono dei protagonisti che, per farsi largo contro la convenzione borghese, dovettero assumere un ruolo negativo

Una volta messo sotto accusa il sistema, si poteva presentare un eroe come Judex, che si poneva dalla parte della Giustizia a fronte della corruzione borghese. Cinquant’anni dopo, Franju, che ha sempre una matrice sociale nella sua opera, dovendo scegliere tra questi personaggi pone l’obiettivo su quello positivo, quello che può legittimamente sconfessare l’ipocrisia del sistema borghese e denunciarne il suo essere criminale. Curiosamente, proprio in quegli anni, in Italia, attecchiranno invece i fumetti neri, a cominciare da Diabolik i cui debiti con Fantomas sono sempre stati riconosciuti. Fosse uscito nelle sale qualche anno dopo, L’uomo in nero, forse, avrebbe potuto essere inteso come una risposta al fenomeno degli eroi neri italiani ma, come detto, Franju anticipò i tempi e quindi può trattarsi di una mera coincidenza (per la verità il primo fumetto di Diabolik uscì a fine 1962 ma non ebbe certo immediata rilevanza internazionale). Il quasi contemporaneo ricorso a questi eroi mascherati, comunque inquietanti, in contesti diversi, lascia intendere che i tempi fossero maturi in quest’ottica ma è da notare che L’uomo in nero di Georges Franju è un film superiore anche ai migliori adattamenti cinematografici degli eroi neri italiani. Oltre ad avere alle spalle un diverso retroterra. Il regista bretone, capace sin dal principio della carriera di trovare la giusta alchimia tra realismo e fantastico, dimostra anche stavolta la straordinaria abilità nel dosare i vari ingredienti, anche apparentemente poco conciliabili, con rara maestria. 

L’approccio al film è dichiaratamente ironico, si vedano le didascalie in perfetto stile cinema muto, ma anche nostalgico. Al tempo stesso le gag umoristiche sono ben distribuite, perlopiù affidate ad un personaggio marginale come il detective Cocantin (Jacques Jouanneau) sebbene una certa ironia di cui è intrisa la storia faccia capolino qua e là man mano che la vicenda si snoda e si riesce a coglierne meglio il clima. Perché, naturalmente, in avvio il film sembra piuttosto cupo; poi la spiazzante scena del ballo inquieta ancor di più e solo lo scorrere dei minuti permette di comprendere lo sguardo sornione con cui Franju sta giocando. La citata scena del ballo in maschera è folgorante ed è probabilmente il passaggio più famoso del film – forse dell’intera filmografia di Franju – ed è giustamente significativa. Il regista sottolinea e rinnova il collegamento con il surrealismo tipico dei serial cinematografici d’epoca, con l’annessa contestazione al mondo razionale borghese, mentre sfuma il tenore della storia visto che il banchiere Favraux (Michel Vitold) non viene ucciso ma spedito nel mondo dei sogni. Sogni drogati, naturalmente, a simularne la morte ma Judex (Channing Pollock) rivela fin da questa scena, posta quasi in principio, di non essere un criminale; piuttosto si scopre che le lettere che accusano il banchiere di essere un affarista senza scrupoli sono veritiere. La scena del ballo con i personaggi che indossano inquietanti maschere da uccello non è solo di fortissimo impatto scenico, quindi, ma è anche il punto cruciale del racconto. Le continue svolte e i ripetuti colpi di scena successivi serviranno unicamente a sorreggere il racconto: ormai si è capito che Judex è l’eroe e Favraux, da buon capitalista, il criminale. 

Non l’unico, per la verità, visto che l’istitutrice di casa Favraux, Marie/Diana (una conturbante Francine Bergé) e il suo amico Moralès (Théo Sarapo) provano a recitare il ruolo di cattivi della storia, collezionando peraltro più fiaschi che successi. Una caratteristica comune ai personaggi della storia, si è detto dello sguardo ironico della stessa, a cui non fa eccezione nemmeno Judex che, sul finire della vicenda, finisce legato come un salame. A cavarlo dai pasticci spunta dal nulla Daisy (una Sylva Koscina in vesti attillate, convocata solo per il finale): Franju sembra voler ribaltare i cliché dei romanzi d’appendice mettendo l’eroe in pericolo (Judex legato) e la damigella Daisy che s’arrampica sulla torre per salvarlo. La presenza della Koscina vestita con un fasciante costume d’acrobata bianco è colta al volo dal regista che inscena una lotta corpo a corpo tra il personaggio dell’attrice di origine jugoslava e quello della Bergé, per l’occasione in un altrettanto sexy calzamaglia nera da cattiva. Oltre a queste due figure femminili non manca naturalmente Edith Scob nei panni più eleganti della dolce Jacqueline, figlia di Favraux e oggetto dell’amore di Judex, sorta di trait d’union tra i due personaggi maschili simbolicamente rilevanti della storia. In definitiva il film risulta piacevole, la trama è incalzante e alcuni passaggi sono pregevoli figurativamente, mentre la critica al sistema borghese non manca nemmeno stavolta. Così come la matrice surrealista, che permette di digerire in questa chiave anche gli stratagemmi tecnologici e fantasiosi tipici dei personaggi in calzamaglia. Tra questi, il più inquietante è una sorta di telecamera che, mentre riprende Favraux nella prigione di Judex, ne mostra direttamente le immagini al banchiere stesso. Franju intuisce, con larghissimo anticipo sull’opinione pubblica, che non è la ripresa di nascosto, come ci si attenderebbe da una telecamera posta in una cella, ad essere davvero nociva per il soggetto filmato ma la consapevolezza di essere osservato in continuazione. Ma non è tanto un discorso sulla privacy che interessa al regista quanto il peso morale che lo sguardo del cinema implica. E quello di Franju non è un cinema di soppiatto ma un atto di accusa senza troppe remore.  





Sylva Koscina 




Francine Bergé 



Edith Scob 



Galleria 



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