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venerdì 17 giugno 2022

4 MOSCHE DI VELLUTO GRIGIO

1034_4 MOSCHE DI VELLUTO GRIGRIO . Italia, 1971; Regia di Dario Argento.

Più che il terzo capitolo della cosiddetta trilogia animale (insieme ai precedenti L’uccello dalle piume di cristallo e Il gatto a nove code), nella filmografia di Dario Argento 4 mosche di velluto grigio è considerato il primo film che segna una consapevole svolta fantastica. In effetti il riferimento agli animali dei titoli sembra un po’ pretestuoso, sebbene abbia poi originato una vera e propria moda in seno al cinema di genere italiano. Più interessante notare come 4 mosche di velluto grigio si regga e fonda la sua ragion d’essere su alcuni passaggi visivi mentre le carenze da un punto di vista narrativo dell’opera sembrano più frutto del disinteresse dell’autore per questo aspetto rispetto alle sue eventuali incapacità. Su questo, naturalmente, legioni di fan sono pronte a giurarci: il maestro del brivido italiano non si curava dei passaggi logici delle sue storie in virtù di una spiccata propensione al fantastico. Va detto che il fantastico, in Argento, non sembra essere scelto come terreno narrativo in sé per sé ma perché, nell’interpretazione che l’autore romano ne dà, è l’ambito che gli lascia maggior libertà d’azione. Lo scopo del regista è sorprendere, stupire, e ogni mezzo è lecito pur di arrivare ad avere una scena che colpisca nel segno. La sua notevole capacità visionaria, senza pastoie narrative che pongano limiti logico razionali, può così sprigionarsi. Si può quindi dire che 4 mosche di velluto grigio sia una sorta di ponte, un trampolino da cui Argento si stacchi definitivamente dalla logica della narrativa del brivido. Che non è una componente da poco, perché abitualmente nei racconti di paura c’è una base razionale – l’intrigo da dipanare, l’enigma da risolvere, il colpevole da trovare – e questo era vero anche per il nostro cinema di genere dei Settanta tanto che il thriller all’italiana all’estero è noto come giallo, termine con cui da noi si definiscono i razionalissimi libri di Agata Christie o Sherlock Holmes. Argento rinnega questa indole del thriller spostandosi verso l’horror – che strizza da sempre l’occhio al soprannaturale per fare paura – nel suo caso più per una convenienza propria di poter gestire a piacere il racconto e i suoi snodi. In un certo senso è una grande idea, ma che si consumerà relativamente in fretta. Se consideriamo l’abilità registica di Argento, le vette qualitative raggiunte, scopriremo che il suo periodo aureo è durato tutto sommato poco. Dopo il brillante esordio con la citata trilogia animale, l’autore romano tocca il vertice con Profondo Rosso (1975) e Suspiria (1977); con gli anni Ottanta, comincia un lento declino che va dall’ottimo Phenomena (1985) a Opera (1987) che segna un po’ la fine del suo momento felice. 

Non è che sia un periodo breve, per carità, ma rispetto ad autori a cui Argento viene spesso accostato, legittimamente se si considerano i suoi lavori migliori, la sua filmografia sembra scadere in modo brusco troppo presto senza praticamente mai riprendersi. E, parlando di 4 mosche di velluto grigio, viene il dubbio che sia stata la scadenza del bluff su cui si basa il film in questione e in sostanza anche la cifra più rilevante della poetica argentiana. Con questo non si vuole dire che l’autore sia un bluff, una scommessa scoperta; piuttosto che la sua intuizione sfrutti lo stesso meccanismo del giocatore di poker che azzarda confidando che gli avversari credano che abbia carte buone in mano. In sostanza, in un panorama in cui gli autori si sforzavano di arrivare al colpo di scena finale facendo al tempo stesso quadrare le sceneggiature in modo logico, gli spettatori si erano ormai abituati a questa pratica. Il giallo aveva delle regole ferree e l’abilità dello scrittore era, oltre ad imbastire una trama regolare, quella di distrarre il lettore con qualche stratagemma al fine da poter poi rivelare il colpo di scena che lo sorprendesse. 

Tra l’altro, tanto più lo spettatore o il lettore avesse avuto in modo – diciamo così – inconscio, la possibilità di capire chi fosse il colpevole quanto più, se lo stesso spettatore era stato opportunamente distratto, la sorpresa appariva efficace. Doppia, quasi: sorpreso dell’esito e sorpreso di non essersene reso completamente conto per tempo pur avendone avuto il modo. Su questo tipo di panorama, con 4 mosche di velluto grigio, Argento decide di cambiare le regole; anzi, di non rispettarne più alcuna, chiamando in causa il fantastico come pretesto per poter mettere in scena le sue visionarie e terribili scene senza alcun vincolo. E dove starebbe il meccanismo simile a quello del bluff? Fintanto che il pubblico conserverà l’impostazione di attendersi una qualche logica narrativa, l’irrazionalità argentiana avrà valore. Quando lo spettatore smetterà questa infrastruttura mentale, l’autore perderà il vantaggio che era abilissimo a cavarci. Come detto con 4 mosche di velluto grigio siamo solo all’inizio di questa svolta che prenderà Argento ma già si capisce che l’esplicito e ostentato rimando a Fritz Lang, il più rigoroso tra i maestri, rigoroso sotto ogni profilo, non può che essere uno scherzo. O meglio, un bluff.    


Mismy Farmer




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