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sabato 25 giugno 2022

LA CASA E' NERA

1038_LA CASA E' NERA (Khaneh sia ast). Iran, 1963; Regia di Forugh Farrokhzad.

Nel 1963 la poetessa persiana Forugh Farrokhzad dirige questo choccante documentario ambientato in un lebbrosario iraniano. La fotografia in un fantastico e impietoso bianco e nero molto contrastato non fa alcuno sconto alla bruttezza dei poveri malati che sono ripresi senza commiserazione, ma con assoluto rispetto, dall’artista mediorientale. Le immagini sono forti, difficili da sopportare; le parole della poetessa che accompagnano il loro scorrere, lasciano intendere il rammarico per una sorte tanto avversa occorsa agli sfortunati protagonisti della pellicola. La casa è nera, frase che dà il titolo al documentario, è presa dal finale del film, dove un maestro chiede ad un alunno non più giovanissimo di scrivere alla lavagna qualcosa con la parola ‘casa’. La casa è nera, scrive quindi il nostro studente, ripensando senza troppo ottimismo al lebbrosario che li ospita. Poco prima c’è il passaggio migliore del documentario: un piccolo alunno di quella stessa classe sta leggendo un testo didattico a proposito del pianeta Venere. Il maestro chiede dunque ad un altro studente, dalla faccia un po’ perplessa, perché si debba ringraziare Dio per averci dato un padre e una madre. Il ragazzino risponde senza cambiare espressione: “non lo so. Non ho né uno né l’altra”. Ma il maestro in questione non demorde, risoluto a migliorare la prospettiva con cui i suoi piccoli allievi debbano guardare la vita. “Fammi l’esempio di alcune cose belle” chiede ad un altro ancora. Il bimbo, che sembra tra i meno colpiti dalla lebbra, risponde compiaciuto: “la luna, il sole, i fiori, giocare”. Il maestro insiste, forse cercando di far comprendere il valore del creato, nel bene e nel male, ai suoi tanto sfortunati allievi. Stavolta interroga una vera teppa che, segni della lebbra a parte, ha l’aria del vero birbante. “E tu, fammi l’esempio di alcune cose brutte”. Il briccone si fa un attimo pensieroso, poi, sornione, spara: “la mano, il piede, la testa”, elencando, evidentemente, le parti del corpo che vengono con più frequenza deformate dalla lebbra. Tra le risate generali della classe, il maestro prova invece a rimanere impassibile, mentre gli occhi vivaci del piccolo mariolo rivelano la consapevolezza di avere scherzato su un argomento che forse il docente voleva trattare più seriamente. Ma non c’è niente di più serio – nel senso di profondo – della spensieratezza, della gioia di vivere e della vitalità di un ragazzino. Che nemmeno la lebbra riesce a smorzare. 







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