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domenica 19 giugno 2022

L'ESORCISTA

1035_L'ESORCISTA  (The Exorcist). Stati Uniti, 1973; Regia di William Friedkin.

Oggi, probabilmente, L’esorcista di William Friedkin è universalmente riconosciuto come capolavoro. Il che, guardando il film, è facilmente comprensibile: quello tratto dall’omonimo best seller di William Peter Blatty è un horror che fa davvero paura, in una confezione formale notevole da ogni punto di vista. A cominciare dagli effetti speciali che sono straordinari ancor’oggi ma all’epoca, i primi anni Settanta, ebbero un impatto sconvolgente oltre che significativo: da quel momento in poi si ricorrerà sempre meno al fuori campo per relegare il mostro di cui avere paura. E così nel successivo new horror, di cui L’esorcista fu una sorta di apripista, con l’impiego di trucchi visivi sempre più efficaci e make-up raffinati, l’orrore potrà fare sfoggio di tutta la sua bruttezza sullo schermo, riuscendo a cogliere meglio il senso del termine che definisce il genere – laddove orrore è un mix tra paura e disgusto mentre, ad esempio, terrore indica solo la prima. Ma queste conseguenze sono dettagli: gli elementi che fanno del film di Friedkin un’opera epocale sono certamente gli effetti speciali uniti alla traccia audio, alla vena blasfema e all’eccellente gestione della suspense, visto che il racconto mette i brividi non solo nei passaggi più estremi. Degli effetti speciali si è detto: il vomito verde pisello (pare fosse veramente una passata di quel legume), la testa di Regan (Linda Blair) che ruota di 180°, la camminata della ragazzina posseduta a mo’ di ragno – rovesciato! – sulle scale, tanto per citare alcune delle scene più memorabili in tal senso. Il sonoro del film vinse l’Oscar e in effetti è tremendamente efficace. 

La composizione delle tracce musicali è affidata a diversi autori, Tubular Bells di Mike Olfield è l’angosciante tema principale ma tutta la colonna sonora, riarrangiata dalla London Symphony Orchestra, è notevole, con passaggi agghiaccianti e disturbanti. Oltretutto non è solo la musica a rendere il sonoro de L’esorcista così efficace: i colpi, i rumori, la voce d’oltretomba del demone, quando non è la musica a terrorizzarci o inquietarci subentra il loro lavoro a metterci in apprensione. In un film horror la traccia audio è cruciale perché il suono, a differenza dell’immagine che tutto sommato rimane relegata sullo schermo, ci immerge nella scena: spesso si avverte la vivida impressione che ci tocchi e ci avvolga. 

E il sonoro de L’esorcista lo fa splendidamente e in più di un momento durante la visione capiterà a chiunque di avere il dubbio che il sinistro rumore avvertito provenga da qualche parte al di qua dello schermo. Un aspetto che innegabilmente contribuì a rendere affascinante il film fu poi il linguaggio scurrile, a dir poco, della povera Regan mentre era posseduta. A dirla tutta, l’elemento che forse, perlomeno nei paesi cristiani – e cattolici nello specifico – diede maggior fama a L’esorcista fu la celeberrima scena del crocefisso, assai più dell’altra scena clou in questo senso, quella della statua della madonna profanata. Quella del crocefisso è una scena disturbante ai limiti della tollerabilità per l’individuo laico ma assolutamente inaccettabile per i credenti praticanti del tempo. Questo rese L’esorcista un testo eretico e, quindi, per il tipico pubblico del cinema horror, che da sempre annovera fan tra adolescenti e giovani, ancora più stuzzicante. Tuttavia sarebbe ingiusto ritenere che il film di Friedkin sia solo il frutto di scene blasfeme di grande impatto visivo ben supportate da un sonoro d’eccezione. 


L’esorcista
è molto ben costruito e, anzi, raggiunge forse il suo apice in fatto di paura quando il demone si appresta ad impossessarsi di Regan, con l’autore che ricorre ai classici trucchi del cinema di genere specifico e lo fa con grande perizia. Certo, a rendere unico il film sono gli eclatanti passaggi successivi, ma la loro forza è amplificata dall’innestarsi su un testo che già si era dimostrato valido a preparare il terreno con gli strumenti abituali del genere. La costruzione dell’intreccio narrativo, con il ritrovamento della statuetta del demone Pazuzu e della medaglietta di San Giuseppe in Iraq, è volutamente abbozzata. Così come la successiva evocazione fortuita da parte di Regan giocando con una tavoletta Oujia trovata in soffitta in quel di Washington. In effetti, questa flebile narrazione riesce nell’intento di porci nella stessa ignara condizione di Chris MacNeil (Ellen Burstyn), madre di Regan, che davvero non si capacita di cosa stia accadendo alla figlia. 

Da un punto di vista simbolico, l’incipit iracheno, assolato e polveroso, anticipa la presenza di qualcosa di estraneo al corpo del racconto filmico principale che si svolge nella grigia capitale americana. Insomma, ci sono molti elementi che concorrono a rendere L’esorcista il film memorabile che è diventato ma c’è un aspetto che può apparire forse secondario ma che è però interessante per il valore più generale che potrebbe avere. Se L’esorcista fu un successo immediato e clamoroso di pubblico, la critica ebbe nei confronti del capolavoro di Friedkin un approccio non del tutto omogeneo. Alcuni critici americani, tra cui il regista Joe Dante, furono positivamente impressionati dal film, mentre altrove ci fu chi non si dichiarò così convinto della bontà dell’opera, spesso probabilmente per motivi d’opportunità più che per lacune vere e proprie della stessa. 

In Italia, ad esempio, quello di Friedkin era davvero un testo scomodo. Innanzitutto il soggetto era stato concepito da un autore cattolico come Blatty ma ben difficilmente poteva ottenere un qualche riscontro favorevole dagli ambienti clericali, anche soltanto per l’eccessiva blasfemia delle scene citate. Nonostante in nessun posto come in Italia la Chiesa Cattolica sia importante, questo risultò un problema limitato, in sé stesso, perché la critica predominante nel Belpaese era di inclinazione fortemente progressista. Tra l’altro, si era nei primi anni Settanta e quindi nel pieno della rivoluzione culturale che trovò largo seguito anche tra i cinefili di professione. Tuttavia gran parte della critica fu anche più piccata del mondo cattolico ma lo fu dal contenuto del film riuscendo senza problemi ad andare oltre alle scene blasfeme: l’intellighenzia colse appieno il senso che Blatty voleva dare alla sua storia e che andava contro le imperanti convinzioni sessantottine. Il Male esisteva. Il che significava che non tutto ciò che di negativo infestava il mondo aveva una ragione sociale o economica, come invece sembrava essere convinta l’élite culturale. 

Il genere horror, in particolar modo da La notte dei Morti Viventi (1968, regia di George A. Romero), aveva quasi assunto il ruolo di bandiera della rivoluzione culturale nel mondo del cinema prestandosi a molte interpretazioni metaforiche che denunziavano la decadenza del modello borghese. Anche ad un livello più complessivo, per far questo, si era precedentemente iniziata un’opera di smantellamento della sovrastruttura culturale legata a vecchi concetti di cui la religione e i suoi dogmi erano una colonna portante. L’esorcista, con la sua terrorizzante paura legata al più classico cliché della tradizione, il Diavolo, scombinava le interpretazioni sociologiche dei critici. E lo faceva in modo consapevole. Il film ha anche una sponda metalinguistica, infatti, visto che Chris è un’attrice e uno dei personaggi importanti della storia, Burke (Jack MacGrowan) è il suo regista. Il film che stanno realizzando, tra l’altro, verte proprio sulla contestazione giovanile di cui molta critica cinematografica era figlia. La meschina figura del regista, inquadrato come una sorta di idiota di idee progressiste, sia per la natura del film che stava dirigendo ma anche per le offese rivolte al domestico di casa MacGrowan, che era di madrelingua tedesca e per questo accusato di essere nazista dal cineasta, è uno dei tre morti del racconto. Ma se il sacrificio dei due sacerdoti, padre Damien Karras (Jason Miller) e padre Merrin (un monumentale Max von Sydow) risolve la questione della possessione, la morte di Burke non porta alcun beneficio. 


E anche questo aspetto, per molti appassionati di critica cinematografica, dovette essere un motivo, forse inconscio, di scarso gradimento: la salvezza risiedeva negli uomini di chiesa e non in quelli di cinema. Inoltre, uno dei cavalli di battaglia preferiti dalla critica ma anche dalla stessa Settima Arte per dare spiegazione ai problemi che affliggevano i propri personaggi, in particolare i villain, era da anni la psicanalisi: spesso usata un tanto al chilo, altre volte con più avvedutezza, in ogni caso il ricorso alla disciplina del dottor Freud era ormai un vero e proprio topos narrativo del cinema horror e non solo. Una tendenza attinente alla realtà, questo è fuori dubbio, e che rispondeva alla chiave interpretativa dell’élite culturale: in fondo la questione sociale veniva trattata con lo stesso sistema dell’individuo in psicanalisi, cercando cioè cause nascoste da cui derivavano i malesseri, in questo caso della comunità. Il fallimento degli ottomila psichiatri, per citare le parole di Chris, che alla fine suggeriscono loro stessi di convocare un esorcista, è una mazzata sulle convinzioni della maggior parte dei critici cinematografici. Quello che Blatty e Friedkin mettono in scena, in effetti, è la contraddizione di decenni di lavoro atto a smantellare credenze e convinzioni religiose e superstiziose che, per restare in Italia, ai tempi nemmeno erano state completamente debellate. 

In ogni caso, il soggetto di Blatty sembra avere un conto aperto con il cinema non riservandogli sostanzialmente mai un trattamento di riguardo. Il tenente Kinderman (Lee J. Cobb), personaggio sostanzialmente inutile nella vicenda, insiste nell’invitare al cinema i preti della storia, prima ci prova con padre Karras e nel finale con padre Dyer (William O’Malley). Questo secondo scambio di battute costituisce una delle sostanziali differenze tra la versione di Friedkin (1973) e quella voluta da Blatty (2000). Lo scrittore tenta di stemperare un po’ l’angoscia e il dubbio che il regista aveva voluto lasciare aleggianti con il suo ambiguo finale, forse preferibile. Tuttavia non si può evitare di notare come il film che propone di vedere Kinderman, seppur diverso nelle varie traduzioni nei differenti paesi, non esista mai nella realtà. Nel caso italiano, tanto per dire, il presunto film in questione è un improbabile, oltre che inesistente, Otello con John Wayne e Anita Ekberg. 

E dire che il tenente asserisce di essere un patito di visioni cinefili da commentare poi approfondendo l’argomento. Certo, una nota scherzosa o poco più, forse nel tentativo, assai vano, di alleggerire la plumbea atmosfera del lungometraggio. Ma anche uno sberleffo al tipico approccio critico alla Settima Arte. Sempre in ottica di rimandi al mondo del cinema, non può nemmeno sfuggire che per il ruolo di massimo esorcista competente sia chiamato Max von Sydow, interprete del capolavoro di Ingmar Bergman Il Settimo Sigillo (1957), dove l’attore svedese se la doveva vedere nientemeno che con la Morte in persona. Stavolta la partita è con il demone Pazuzu, e il nostro eroe darà un contributo decisivo pur lasciandoci la pelle: insomma, il cinema, perlomeno quello prerivoluzionario, ha comunque una sua valenza anche ne L’esorcista. Ma è un’interpretazione metalinguistica, occorre cioè conoscere la filmografia di uno degli attori per poterla intendere. Viceversa, alla spietata critica più generale al mondo dell’arte – la misera figura del regista e anche quella del suo film, benché appena abbozzato – e della scienza – i medici impotenti e presi a male parole dalla bambina posseduta prima e, in parte, anche dalla madre disperata poi – fa da contraltare il ruolo della chiesa, custode della via verso la salvezza. 


Per la verità, il passaggio decisivo lo compie padre Karras, prete in forte crisi di vocazione e, allo stesso tempo, medico psichiatra e che risulta essere, quindi, una figura tutto sommato interlocutoria. Però per riuscire nell’impresa deve ritrovare la fede oltre a fare una scelta di sacrificio che certo rientra maggiormente nella sua vocazione religiosa piuttosto che in quella medica. Insomma, il critico medio italiano si trovava di fronte ad un film che rinnegava la svolta rivoluzionaria che il cinema horror, consapevolmente dal citato film di Romero del 1968 in poi, si pensava avesse intrapreso. Il fastidio di fronte alla scomodità di doversi allineare alla critica cinematografica di orientamento religioso era forse solo parte del problema. Il tasto dolente è che L’esorcista arrivava e, con la paura che diffondeva, azzerava tutto il percorso che si poteva credere di aver già fatto, arrivando a darlo per scontato. Se una banale storia di un demone, che più o meno altri non era se non un’incarnazione del Diavolo, poteva farci tanto paura, era inutile cercare di dire che il Male non esisteva e piuttosto c’era sempre una motivazione sociale dietro il disagio. A questo proposito, forse serve ricordare che c’è un piccolo dubbio, che il film lascia, ed è quello legato alla bottiglietta di finta acqua santa con cui padre Karras ingannava il demone. Cosa poteva significare? Che anche il Male subiva la forza dell’autosuggestione? Che non c’era alcuna valenza mistico-religiosa nell’acqua santa, visto che quella normale sortiva un effetto simile? L’esorcista, anche in forza di questo passaggio ambiguo, non offre una risposta netta. Quello a cui ci mette di fronte, e che risultò tanto scomodo da accettare, è un cortocircuito della nostra capacità razionale. Forse il Diavolo non esiste. Ma la paura del Diavolo eccome.  








Linda Blair 



Ellen Burstyn




Gallerie di manifesti 




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