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martedì 21 giugno 2022

PROFONDO ROSSO

1036_PROFONDO ROSSO . Italia, 1975; Regia di Dario Argento.

Con 4 mosche di velluto grigio Dario Argento si era svincolato definitivamente dalla logica del giallo, pur senza trovare una solida àncora a cui affidarsi se non un generico ascriversi al filone fantastico. Ma l’autore romano, a quel punto, forse si rende conto che è un appiglio troppo esile a cui affidare la legittimazione dell’estrema libertà narrativa di cui necessita la sua capacità visionaria, al tempo in grande fermento. L’idea di Argento per risolvere la questione, oltre ad essere il presupposto iniziale di Profondo rosso, è geniale: non un rimando al cinema, ma alla musica. L’esorcista (1973, regia di William Friedkin) aveva proprio in quei primi anni Settanta ribadito l’importanza della colonna sonora nel genere horror; Argento, per la sua svolta più estrema, che lo porterà dal thriller della trilogia animale al cinema dell’orrore esplicito di Suspiria (1977), imposta come principale coordinata quella musicale, dichiarando, in seguito, di essersi ispirato proprio alla musica del citato capolavoro di Friedkin. Facile, in questo senso, cogliere il riferimento, nel noto e terrificante tema dominante in Profondo rosso opera dei Goblin, a Tubular Bells di Mike Oldfield; in lavoro di Argento è però più strutturato rispetto ad un semplice rimando. Alla musica dei Goblin è infatti affiancato il lavoro del jazzista Giorgio Gaslini: due sono quindi le correnti musicali che compongono la traccia sonora, il rock progressivo e il jazz. Entrambi i generi si contraddistinguono per una notevole libertà interpretativa che tende a distaccarsi dalle logiche melodiche della musica mainstream. 

Un po’ come se l’autore romano volesse essere inteso come una sorta di regista jazz-horror. E per chiarire ulteriormente il tono stilizzato delle sue impressionanti scelte visive, che vogliono quindi distogliersi da una semplice riproduzione della realtà come invece accade nel giallo tradizionale, il regista offre altri due dettagli e, se uno dei due è inerente al mondo cinematografico, l’altro lo è meno esplicitamente. Il primo indizio non è propriamente nella pellicola, ma su uno dei manifesti di Profondo rosso. Uno dei disegni utilizzati richiama un lavoro del grafico Saul Bass, nello specifico La donna che visse due volte nell’edizione americana. Se il rimando a Hitchcock può avere la stessa valenza della via Fritz Lang in 4 mosche di velluto grigio, ovvero un semplice omaggio dal sapore farsesco, che ci porta quindi fuori strada, più inerente il riferimento a Saul Bass. Così come il grafico con semplici schizzi abbozzati riesce a rendere efficacemente il tenore delle pellicole che è chiamato a presentare, coi manifesti o coi titoli di testa, allo stesso modo Argento non intende perdere troppo tempo nel dettagliare la trama dei suoi racconti. L’efficacia visiva, così come nei disegni di Saul Bass, è anteposta alla cura dei particolari. 


L’altro elemento che Argento ci fornisce per comprendere meglio le sue intenzioni è l’arte del pittore Edward Hopper, citato in modo abbastanza evidente nel Blue Bar situato in una delle piazze più importanti della storia. Quello a cui sembra ambire l’autore romano nell’ispirarsi al pittore americano, è lo straniamento dell’individuo all’interno di un contesto che, seppur sembri quello quotidiano, gli risulta in qualche modo estraneo. Per far questo Argento mischia le ambientazioni, per cui se il racconto si svolge a Roma, la maggioranza delle scene in esterni sono girate a Torino, ad esempio il citato Blue Bar è situato in Piazza C.L.N., così come la cosiddetta villa del bambino urlante è un edificio liberty del capoluogo piemontese. Ma ci sono anche location a Roma e a Perugia, nel tentativo di non dare coordinate certe allo spettatore che se riconosce l’ambientazione come un suo terreno quotidiano, quello metropolitano, non potrà collocarla comunque in un concreto luogo reale. In effetti, tutto questo lavoro ricorda un po’ la strategia giallista, ovvero cercare di confondere lo spettatore per poi sorprenderlo. Per cui, se è vero che l’autore romano voleva maggiore libertà rispetto a quella concessa dalla narrativa gialla, non sembra intenzionato ad abbandonarne completamente gli stilemi. 


Di più: e se poi Argento, un bel po’ più avanti nella carriera, passerà alla storia come autore non proprio ortodosso, nella pratica della costruzione dell’intrigo giallo corretto, ovvero senza incongruenze, in Profondo rosso segna invece uno dei passaggi esemplari, forse in chiave più simbolica che funzionale, proprio in questo campo. L’idea, spiazzante, è quella di rischiare il tutto e per tutto mostrando per un breve istante al protagonista, Marc (David Hemmings), e al pubblico, il volto dell’assassino sin dal primo delitto. In realtà appare molto difficile se non impossibile, almeno durante la prima visione dell’opera, scorgere nello specchio il viso truccato di Clara Calamai, madre di Carlo (Gabriele Lavia) e colpevole dei vari omicidi che si susseguono nel film, e quindi il rischio di Argento è ben calcolato. Ciò non toglie che, almeno formalmente, il gioco del giallo è rispettato: si fornisce allo spettatore la possibilità di sciogliere l’intrigo, salvo poi distrarlo nel racconto per portarlo fuori pista fino alla rivelazione finale. In realtà lo stupore derivante da questo meccanismo, nel nostro caso, è depotenziato dal fatto che, come detto, è assai arduo che qualcuno possa aver colto il dettaglio col volto della Calamai nello specchio, ad inizio pellicola. 


Comunque si tratta di una trama che denota una notevole attenzione ai dettagli formali, per quanto decostruiti almeno nella loro funzionalità, forse proprio nell’intento di svuotare il film. Lo stupore, come il terrore, non nasce, sembra voler dire Argento, dalle classiche costruzioni narrative: il regista, in questo caso, le rispetta, ma al tempo stesso le disattiva, le svuota. Un po’ come nel quadro di Hopper I nottambuli, quello che percepiamo non è il fatto che ci siano (ben) quattro persone nell’immagine ma la loro solitudine e il vuoto che vi si respira. Argento ricrea una situazione di questo tipo, per lasciare lo spettatore in una sensazione di spaesato disagio e, a quel punto, la semplice comparsa di una marionetta animata sarà terrorizzante. 

La scena, quando viene mostrata l’uccisione del professor Giordani (Glauco Mauri), è comunque giustificabile a livello narrativo sebbene, in buona sostanza, appaia quasi gratuita. Lo spettatore non dovrebbe avere una valida ragione per essere poi così spaventato dalla comparsa della marionetta e invece la paura generata va decisamente al di là di quanto potrebbe essere prevedibile: in questa differenza c’è tutta la capacità registica di Argento in Profondo rosso. L’autore, ad un certo punto della carriera, verrà probabilmente penalizzato da questo suo stesso lavoro di decostruzione; qui, al contrario, è nel suo momento migliore. 

Può infatti contare sui riferimenti classici al thriller e all’horror, mischiarli con le influenze di suo gradimento e nell’operazione di smontaggio rimane ancora sostanza a sufficienza attaccata al suo lavoro. Quando inevitabilmente diverrà lui stesso e la sua opera il suo proprio riferimento, la situazione imploderà non essendo Argento autore da semina (come, ad esempio, i citati Hitchcock e Lang) ma da raccolto. In questo senso si può anche intendere la sua opera non tanto come un momento di rilancio ma di reset, nell’ottica della sopravvivenza in salute del genere del brivido; in ogni caso il suo arrivo sulla scena, negli anni Settanta, fu clamoroso. Il genere del terrore arrivava da decenni di pur apprezzabile formalismo e 
– sebbene ci fossero stati anche altri innovatori, ad esempio George A. Romero –sembrava la perfetta vittima per Dario Argento, che non a caso in Profondo rosso dà vita ai guanti del killer nelle scene degli omicidi. La storia per altro insegna che sia il thriller che l’horror sopravviveranno alla grande a quest'opera decostruttiva, probabilmente anche grazie alla capacità di metabolizzare al meglio la lezione argentiana. Se L’esorcista aveva dimostrato non solo che il diavolo faceva ancora paura, ma che con i moderni effetti speciali lo si poteva anche mostrare sullo schermo senza relegarlo sempre fuori campo, Profondo rosso gli eliminò un ulteriore vincolo. E se il diavolo – o il mostro o l’assassino, il male, insomma – fosse nascosto dietro la macchina da presa? 








Macha Mèril 




Clara Calamai 




Giuliana Calandra 



Daria Nicolodi 


Nicoletta Elmi 


Galleria di manifesti










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