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mercoledì 1 giugno 2022

L'AMANTE INDIANA

1026_L'AMANTE INDIANA (Broken Arrow). Stati Uniti, 1950; Regia di Delmer Daves.

Leggete bene l’anno di uscita del film L’amante indiana: 1950. In fondo è facile smentire quanti, ancora oggi, si ostinano a dire che il cinema western dipinse costantemente i nativi americani come cattivi almeno fino al revisionismo del contro-western (Soldato Blu, 1970, di Ralph Nelson, tanto per fare un titolo). Ma sarebbe fiato sprecato perché questi signori, alcuni dei quali arrivano anche a scrivere saggi o articoli sull’argomento, evidentemente si affidano alla memoria (fallace) e non vanno a rivedersi i film western classici. Anche perché quello di Daves non fu certo l’unico caso e neppure il primo, in cui gli indiani vennero descritti con rispetto (prego, ascoltare le parole di Cochise nell’incontro tra gli Apache e i soldati americani ne Il massacro di Fort Apache, 1948, regia di John Ford). E Cochise e gli Apache sono protagonisti anche de L’amante indiana; in quest’occasione ad interpretare il capo indiano è chiamato il bravo Jeff Chandler che fornisce una prestazione memorabile. La scelta degli Apache è clamorosa ma anche significativa: tra tutte le tribù di indiani, alcune delle quali di indole pacifica o che si adeguarono relativamente in fretta all’arrivo dei bianchi, per il suo film Daves prese appunto proprio gli Apache, che erano gente dura e i cui concetti morali differivano leggermente dai nostri. Ad esempio per gli Apache era normale vivere di scorrerie; non erano agricoltori né allevatori, né intendevano diventarlo, e non è che gli rimanessero altre alternative per campare in quelle zone desertiche. 

Il luogo in cui vivevano, arido e povero, li aveva quindi forgiati ad una certa durezza di carattere, mettiamola così. Insomma, non era un popolo facile con cui convivere e questo potevano confermarlo non solo americani o messicani ma anche le tribù vicine di casa degli Apache, come i Pueblo o gli Hopi. L’idea di mettere proprio gli Apache al centro di una storia come L’amante indiana ha quindi un forte valore simbolico: se ne deduce che, se persino gli Apache avevano sostanzialmente ragione nei confronti degli invasori bianchi, figuriamoci gli altri. Accanto a questa sponda simbolica, Daves lavora poi con meticolosità da storico: intendiamoci, nonostante le parole di Tom Jeffords (James Stewart) non siamo di fronte ad un testo documentaristico ma si rimane nel puro campo della finzione. L’amante indiana è un western chiaro ed evidente. Però i dettagli con cui l’autore dissemina il suo racconto sono tutti attendibili nello specifico o lo sono, comunque, in modo più generale. 

La pratica degli scalpi, ad esempio, non era poi così diffusa tra le popolazioni native e fu effettivamente alimentata dopo il contatto con gli europei. Sempre a questo proposito, storicamente ci fu il pessimo uso da parte di alcuni bianchi di scotennare i pellerossa per avere una prova da esibire per incassare la ricompensa spettante a chi ne uccideva uno. Tornando alle usanze mostrate nel film, anche la cerimonia per la fine della pubertà delle ragazze del villaggio, tra cui spicca ovviamente un’adorabile Debra Paget quindicenne (Sonsierei, Stella del Mattino), è molto accurata e rispettosa. Difficile stabilire se quello che si vede sia tutto legato alla cultura apache o vi siano usati altri riferimenti; ad esempio la pratica di rompere la freccia (da cui il titolo originale Broken Arrow), per sancire la fine delle ostilità, pare fosse un’usanza Blackfoot. 

Ma, come detto, L’amante indiana non è un documentario e, quindi, queste licenze poetiche, se usate con riguardo, si possono concedere; d’altra parte sono tanti gli ammiccamenti storici, su eventi e personaggi, come il generale Howard (Basil Ruysdael) o il feroce Geronimo (Jay Silverheels), per cui l’impressione complessiva può avvicinarsi a quanto effettivamente accadde nella realtà dei fatti. Che non è cosa da poco perché Daves, nel 1950, proprio quando gli Stati Uniti prendevano consapevolezza della loro egemonia mondiale, arrivava con un film a mettere qualche pulce nell’orecchio della coscienza di tanti americani. Poi, certo, il western, proprio in quegli anni Cinquanta, diventerà l’epica per esaltare la grandezza dell’America e il suo ruolo di predestinata a stare dalla parte della ragione ma, insieme alla celebrazione della nascita della nazione – a cui non sfugge nemmeno L’amante indiana – alcuni di questi film cercarono di veicolare anche qualche perplessità sui modi in cui si era ottenuta. Nel suo tentativo di rivendicare le ragioni dei nativi e la loro dignità come popolo da rispettare, Daves ricorre ad una storia sentimentale tra un bianco, Tom Jefford e la giovane apache Stella del Mattino. In questo senso L’amante indiana finisce per essere un ponte simbolico non solo tra le due culture ma, metalinguisticamente, anche tra due correnti del western, quello romantico degli anni Quaranta e i classici del decennio successivo. E questo secondo aspetto è certamente più concreto visto che la convivenza tra bianchi e pellerossa bisogna ammettere che nella realtà poi non funzionò. E nel 1950 Daves lo sapeva bene tanto che, accanto ad un finale speranzoso per Cochise e gli Apache in genere, riserva un’amarissima conclusione alla sua storia sentimentale. Stella del Mattino viene infatti uccisa nel vile attacco a tradimento dei bianchi ostili alla pace con gli indiani ma Cochise proibisce a Jeffords di vendicarla trascinando di nuovo gli Apache in guerra. La pace è un bene troppo importante e perfino gli Apache, popolo che si professava guerriero, lo capì. E lo capì, o dovette capirlo, più rapidamente dei bianchi e tra questi, anche prima di quei bianchi che, tra gli altri, sembravano i meno bellicosi. E la prova di questo, purtroppo, si rinnova costantemente. 







  Debra Paget 








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