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martedì 15 aprile 2025

LE CITTA' PROIBITE

1653_LE CITTA' PROIBITE . Italia, 1963. Regia di Giuseppe Scotese 

Prima che regista, Scotese era viaggiatore incallito: se per America di notte aveva peregrinato per il Nuovo Continente per un anno intero, per Le città proibite raddoppiò il tempo speso a spostarsi da un capo all’altro del mondo. E riguardo al suo essere cineasta, i suoi ideali erano elevati e certo non propriamente in linea con le caratteristiche intrinseche dei Mondo movie. “Oggi per il cinema è tempo di verità” confidò, infatti, ad un giornalista di Stampa sera in quell’autunno del 1963. Nell’articolo in questione, è poi illustrata un’interessante fase di realizzazione del documentario, il passaggio che colpì maggiormente la critica, ambientato nel quartiere delle prostitute di Bombay, in India. “Per questo egli, circa due anni fa, è partito con una troupe ridottissima alla ricerca dell’inconsueto, di ciò che la civiltà ha spesso vergogna di mostrare e tiene gelosamente e colpevolmente nascosto. Come il quartiere indiano in cui vivono migliaia di prostitute con i loro figli concepiti senza amore negli squallidi buchi che le autorità civili han voluto munire di inferriate. Sono quasi delle sepolte vive. Scotese fu allontanato più volte dal luogo, dalla locale polizia, con la sua cinepresa, il parco lampade e tutto il necessario per girare. Dovette riprendere qualche scorcio impressionante della vita orrenda di quelle povere disgraziate, con una 16 mm professionale, tenuta seminascosta dall’operatore Gianpaolo Santini”. [p. z., Due anni in giro per il mondo alla ricerca delle «Città Proibite», Stampa sera, anno 95, n.220, giovedì 19 – venerdì 20 settembre 1963, pagina 11]. La capacità di Scotese si manifestò anche nella scelta di utilizzare una pellicola ultrasensibile, in modo che, nella livida luce dell’alba, potessero rimane meglio impressi i volti smunti, rassegnati, sofferenti, della dolente umanità che giaceva inerte sui marciapiedi delle strade di Bombay. Il regista marchigiano, sempre disponibile al confronto, presentava così il suo film: “Che senso ha questo nostro mondo moderno? Lo abbiamo chiesto alla dolcezza dei popoli semplici, all’esperienza di quelli civili, ai popoli padroni, ai popoli servi, alle donne dei miliardari, a quelle di strada. Abbiamo percorso centomila chilometri alla ricerca dell’autentico, del reale volto delle città e degli uomini, quello di cui meno si parla” [p. z., Due anni in giro per il mondo alla ricerca delle «Città Proibite», Stampa sera, anno 95, n.220, giovedì 19 – venerdì 20 settembre 1963, pagina 11]. La critica, quando se ne occupò, riconobbe i nobili intenti di Scotese oltre all’indubbia capacità artistica: “Nel gran numero di prodotti analoghi, Le città proibite si distingue per una evidente volontà demistificatrice: se i luoghi presi di mira non sono nuovi –non sempre, almeno– allo schermo, piuttosto nuovo è lo spirito che informa la scelta delle immagini, il loro accostamento per affinità o per contrasto. Questo viaggio cinematografico ci conduce dai tradizionali quartieri del vizio di Londra, Parigi, Istanbul, Tokio, Las Vegas, alle cittadelle del denaro, alle capitali della finanza che si annidano nel cuore delle maggiori metropoli di occidente: mostra la favolosa ricchezza e la miseria estrema. II regista Giuseppe Scotese, i suoi collaboratori, gli autori del commento parlato, fanno un serio sforzo per esprimere, su quanto l'obiettivo capta, non giudizi moralistici, ma considerazioni umanamente aperte ed illuminate. Naturalmente vi sono diverse concessioni allo spettacolo, nel senso stretto della parola: ripetute volte, il gusto dell'inchiesta dal vivo è sopraffatto da un sapore meno genuino, intriso di artificioso e di preordinato. 

Ma non mancano le sequenze di qualità: prime fra tutte, quelle che aprono il sipario sull'infernale strada delle prostitute di Bombay: un aspetto tremendo, sconvolgente, del nostro mondo diviso. Notevoli, per l’identica ragione, le scene di Hong Kong: esistenze degradate, ai limiti dell’animalità, così lontane dalle colorate figurazioni delle agenzie turistiche. Ed ecco, anche, il rovescio del quadro: la faccia sorridente di Cuba liberata, vigile nella difesa della sua rivoluzione, ma pronta sempre a manifestare un gioioso, straripante, sentimento della vita. Tra i momenti di carattere folcloristico, fanno spicco poi le danze cerimoniali degli Aztechi, così come i cupi riti dei negri di Haiti. Il film è a colori: maggiormente incisivo, si direbbe, proprio là dove l’operatore ha lavorato quasi di frodo, carpendo autentici segreti”. [ag. Sa., Le prime: Le città proibite, L’Unità, venerdì 13 settembre 1963, pagina 7]. In quest’altro esempio, la scelta differente d’approccio di Scotese, rispetto a Jacopetti, è citata apertamente: “Le città proibite, ovvero quelle dove ci sia del marcio, variamente dissimulato. I molti realizzatori del film, che reca la firma di Giuseppe Scotese, non hanno proseguito l’assunto con l’accanimento che ci avrebbe messo Jacopetti; ma d’altra parte non sono rimasti alla superficie. Le città proibite mette fuori a tratti (basterebbero le sequenze sulle prostitute di Bombay e in generale sulla miseria dell'India) un autentico pungiglione di cinema etnologico; e soltanto per amore di cassetta ha purtroppo inserito, in un severo contesto che illumina la dolorosa ineguaglianza delle sorti umane e sconcertanti aspetti della nostra, diciamo così, civiltà, riempitivi di maniera e consueti spogliarelli, ai quali la lustra allegorica (come in quello dell’uomo «nella gabbia del desiderio») complica, ma non allevia la sconcezza. Lo spettatore tolga da questo pittoresco vagabondaggio per il mondo –Londra, Parigi, Istanbul, Greenwich Village, Virginia City, Las Vegas, Bombay, Haiti, Giamaica, Cuba, New York, Tokio eccetera– le cose veramente valide (per esempio, il «turismo organizzato» di Giamaica, persin capace di abbattere la barriera razziale), gusti il commento quando non è retorico, la bellezza delle immagini a colori; e il resto condoni ai fati commerciali di un «genere» anche troppo fortunato” [Sullo schermo, un documentario italiano, La Stampa, anno 97, n.237, domenica 6 ottobre 1963, pagina 6]. Nonostante il film sconti i soliti problemi con la veridicità di quanto mostrato, del resto comuni anche ai normali documentari, riesce alla lunga ad essere davvero convincente. Per la verità, il commento –opera dello stesso Scotese e letto da Alberto Lupo– ogni tanto scivola nel moralismo; ma, del resto, qual è il confine tra morale e moralismo? Non è semplice, affrontare i temi che angosciano la società senza rischiare, in qualche caso, di andare anche solo leggermente «oltre». E anche riguardo all’approfondimento degli argomenti trattati, che non è certo esaustivo, va tenuto a mente che si tratta di un film, un’opera destinata alla divulgazione di massa. Un lungometraggio destinato alle sale, non è, e non può essere, lo spazio per una seria e dettagliata analisi di dinamiche sociologiche: può semmai stimolare, e Le città proibite lo fa, l’interesse ad approfondire. Dopo qualche passaggio non memorabile tra Londra e Parigi, il film si fa, infatti, via via più interessante. Certo, il segmento narrativo dedicato a Bombay è davvero sconvolgente, come raccontano i recensori dell’epoca, ma anche la descrizione di come la Rivoluzione Cubana reinterpreti a suo modo gli spettacoli nel mitico Tropicana, a L’Avana, vale assolutamente la pena di essere vista. Così come al Giappone è dedicato un momento non banale. In prima istanza, con i lottatori di Sumo, la cosa sembra unicamente un dettaglio folcloristico ma poi la voce di Alberto Lupo ci fornisce alcune considerazioni che fanno riflettere. L’occupazione americana, in seguito alla sconfitta del paese nella Seconda Guerra mondiale, non ha solo sradicato la religione più diffusa, lo shintoismo, ma ha minato l’identità nazionale, tanto che, al tempo, il Giappone viveva ancora una profonda crisi interiore. Restando in linea con i cliché dei Mondo movie, Le città proibite esemplifica tale situazione mostrando come, già ai tempi, nel paese del Sol Levante si fosse persa l’usanza di avere bagni in comune per uomini e donne. Ad introdurre la malizia e il pudore, secondo Scotese, sarebbero stato il puritanesimo occidentale; è andata smarrita, così, l’innocenza in sintonia con la natura che caratterizzava la cultura sessuale nipponica. La colonna sonora, affidata a Marcello Giombini è fondamentale, nel trainare il documentario in questa fase, con il tempo che passa e il rischio di appesantire la visione, in questo genere di operazioni, è dietro l’angolo. Al contrario, Le città proibite entra proprio adesso nel vivo e si rivela, a sorpresa, uno dei migliori Mondo movie in assoluto. Scotese ci porta a Wall Street, sorta di isola nell’isola, se consideriamo il nucleo finanziario di New York all’interno di Manhattan, il cuore della Grande Mela. Di più: la sede della borsa americana è il centro finanziario del mondo, il luogo dove si crea o si disperde la ricchezza del capitalismo.
A far da contrasto, il racconto mostra Aberdeen, una zona nell’area del porto di Hong Kong: l’acqua, al tempo, era stata prosciugata dai rifiuti e dagli escrementi dei poverissimi abitanti, che vivevano miseramente su barche ormai stabilmente all’asciutto, o immerse solo parzialmente nelle scarse acque putride. Un effetto certamente della colonizzazione britannica e, quindi, un prodotto di quello stesso capitalismo di cui si erano viste poco prime le cattedrali in vetro e cemento di Lower Manhattan. Dove il documentario ritorna, per portarci ancora in un posto isolato ed esclusivo, perfino più di Wall Street: un rifugio antiatomico dove alcuni giovani stanno ballando un twist. Qui Giombini si scatena con il brano Atomic Twist, uno dei vertici musicali del documentario, e suggella un passaggio lapidario: tutta la ricchezza del mondo, per rinchiudersi in una scatola di cemento armato sottoterra. Siamo gli sgoccioli, ormai, ma c’è tempo per tre minuti di idillio, uno dei momenti più evocativi dell’intero genere: Atomic Twist sfuma, lo scenario cambia, ora c’è il sole tra le nuvole in cielo, il mare coi delfini, e la voce di Eddie Lund and his Tahitians che attacca Anaa E, meraviglioso pezzo di musica polinesiana che, clamorosamente, non verrà incluso nella Colonna Sonora ufficiale. Come da titolo, il film è stato un viaggio tra Le città proibite: qui, sull’isola in mezzo all’Oceano Pacifico, di divieti non ce n’è, e, forse, suggerisce la voce di Alberto Lupo, questa è la soluzione per i problemi e le angosce del mondo. Un ritorno alla sintonia con la Natura, senza sensi di colpa posticci da scontare, ma vivendo in armonia con il creato. Presto la dolce melodia di Eddie Lund e dei suoi Tahitians finisce, quasi fosse stato solo un sogno, e una musica grave ci ripiomba nella grigia e polemica Londra, storico ombelico del mondo civilizzato secondo il credo vigente. Siamo quasi ai titoli di coda, e, se in qualche passaggio, il commento può essere scivolato nella retorica o nel moralismo, qui Scotese riesce ad essere più calibrato, lasciando la conclusione in sospeso: “E, come sempre, quando un viaggio è finito, abbiamo cominciato a ricordare. Questa è l’immagine che per prima ci è tornata alla mente”. E Atomic Twist riparte a cannone, mentre i ragazzi che ballano nel rifugio antiatomico, sono stavolta visti in un angosciante rallenty, quasi fossero fantasmi di un futuro post disastro nucleare. Un’immagine che stride, con le pretese di un documentario, visto che non può trattarsi di qualcosa di vero, se non è ancora accaduto. Un’illuminante profezia può, però, essere più autentica di uno spento sguardo a ritroso. 
  





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