Translate

domenica 27 aprile 2025

WESTFRONT

1659_WESTFRONT (Westfront 1918). Germania, 1930. Regia di Georg Wilhelm Pabst

L’avvento del sonoro nel cinema non è un dettaglio secondario, soprattutto non lo è per approcciarsi a Westfront, capolavoro di Georg Wilhelm Pabst. E’ infatti solo grazie alla traccia audio che l’autore tedesco può compiere l’impresa di portare con tanta efficacia la Grande Guerra sullo schermo, come raramente si era visto prima. E non è che sia il semplice abbinamento dei suoni alle immagini a permettere tale prodigio: Westfront si inserisce coerentemente nella corrente Neue Sachlickeit, un movimento cinematografico nato come sorta di risposta all’espressionismo. L’idea era quella di una rappresentazione il più possibile realista, oggettiva (da lì il nome nuova oggettività) e l’audio, a quel punto, rappresentava l’arma per bilanciare la maggiore carica comunicativa dei film espressionisti. I quali avevano indubbiamente un impatto superiore, in tema di immagini sullo schermo: era infatti una loro prerogativa quella di avere una capacità espressiva eccezionale. I registi espressionisti arrivavano a questo risultato stilizzando ed enfatizzando ma, se questo era perfetto per un certo tipo di storie, ad esempio quelle dell’orrore che incarnavano in modo calzante le angosce di quel periodo storico, questo approccio aveva anche dei limiti. Ad esempio se lo scopo del regista fosse presentare un monito concreto, reale, come un documento che attestasse la follia della guerra che non fosse in alcun modo fraintendibile. Intendiamoci: nel caso, lo stile espressionista avrebbe potuto incarnare alla grande gli orrori della guerra ma, allo spettatore, sarebbe potuto sorgere il dubbio che le immagini sullo schermo potessero essere volutamente esagerate, insomma credibili quanto il Nosferatu, il vampiro dell’omonimo film dell’orrore (1922, regia di Friedrich Wilhelm Murnau). La scelta di uno stile più documentaristico diminuiva di molto l’efficacia delle immagini, la loro forza: la traccia audio arrivava a supplire questo limite e, nelle mani di cineasti di classe come Pabst, diveniva addirittura devastante. Pur nella sua semplicità, l’attacco finale, con l’avanzata dei rudimentali carri armati francesi, è di grande efficacia ma è assai angosciante anche il fuoco d’artiglieria amica che devasta le linee dei nostri protagonisti nella fase iniziale. Un dettaglio verosimile, in una rappresentazione che lo sembra maledettamente, che sottolinea l’assurdità della guerra. 

Il regista austriaco ci porta quindi direttamente in prima linea anche durante le fasi cruciali e la sua messa in scena naturale degli eventi si manifesta in modo quanto mai funzionale. Va detto che, quando lo scontro bellico è al suo apice, il tenente (Claus Clausen) esce di senno e il suo volto sembra quello di uno dei protagonisti del cinema espressionista: questo a dimostrazione che Pabst ha la capacità, quando ne scorga lo scopo, di utilizzare anche quegli stilemi, a testimonianza della sua caratura registica. Ma nel complesso il lungometraggio si distingue per la semplice naturalezza della messa in scena anche a fronte di una situazione totalmente fuori dall’ordinario come la guerra. E se è vero che ci sono alcuni passaggi che sottolineano come il regista sia in pieno controllo sul mezzo tecnico-cinema, ad essere naturale è perciò solo il risultato finale sullo schermo. Questo è intuibile in una delle scene iniziali all’interno della casa dove alcuni soldati tedeschi stanno giocando a carte mentre uno di loro, lo studente (Hans Joachim Moebis) sta amoreggiando con Yvette (Jackie Monnier) una francesina. Arriva l’ordine di recarsi in prima linea e, se la macchina da presa indugia sulla coppia di ragazzi che flirtano, poi giungono anche le parole scocciate del soldato che aveva le carte migliori e si rammarica per l’occasione persa. La possibilità dell’uso del sonoro permette al regista di sottolineare scherzosamente la similitudine tra le due situazioni, in apparenza decisamente differenti, in pratica quasi giocando con lo spettatore mediante l’uso dei nuovi mezzi che il cinema mette a disposizione. Il passaggio in cui Karl ritorna al fronte lasciando la moglie dopo l’infelice licenza è invece più serio, già dal punto di vista del tenore dell’argomento. Il soldato lascia l’appartamento senza accennare alcuna volontà di riconciliazione verso la consorte e scende le scale col passo pesante. Si odono i colpi degli scarponi sui gradini, lenti ed inesorabili, quasi a scandire il tempo che passa senza che arrivi un gesto amichevole. La ragazza è sulla porta, mentre disperata invoca sommessamente un gesto, un cenno, un saluto. 

L’uomo, prima di uscire definitivamente dalle scale, non resiste e le lancia uno sguardo: ma non ne prova compassione, o almeno non a sufficienza. Questa straziante e al contempo assai sobria scena arriva a corredo di una fase cruciale di Westfront, ovvero la licenza di Karl. Questa pausa dalle scene di guerra funge come sorta di spartiacque nel lungometraggio, dopo la quale una situazione già non certo rosea va definitivamente a rotoli. Karl arriva a casa in licenza con la comprensibile smania di rivedere la giovane moglie ma, amara sorpresa, la trova a letto con un altro. Il terzo incomodo è un giovane in procinto di partire per il fronte che viene liquidato velocemente e, comprensibilmente, in malo modo. Con la moglie (Hanna Hoessrich) la faccenda si fa invece un po’ più complicata: Karl, dopo il primo momento di rabbia, si chiude in sé stesso e ignora la donna, sebbene neanche in modo eccessivo. Il che deprime ulteriormente la ragazza, rosa dal senso di colpa ma impossibilitata, se non a cercare una giustificazione (difficile, in ogni caso) perlomeno ad espiare la colpa. Un po’ a sorpresa scopriamo che la madre di Karl è piuttosto comprensiva nei confronti della nuora, ma nemmeno il suo intervento riesce ad ammorbidire il comportamento del figlio. Alla fine arriva il giorno in cui Karl deve far ritorno al fronte e l’uomo ostenta un falso sollievo che è evidentemente mirato a ferire la moglie; che sollievo ci può infatti essere ad andare nel mattatoio delle trincee? E nel farlo dopo aver visto crollare la propria armonia coniugale? Il lugubre incedere sulla scala mentre lascia il suo appartamento, tradisce il reale stato d’animo del militare che, in ogni caso, non concede a sua moglie un minimo spiraglio di perdono: è un soldato tedesco, dopotutto. Ma forse c’è anche un po’ di leggenda, intorno alla mitica figura del combattente teutonico indifferente a qualunque cosa che non siano gli ordini militari. E se questo può essere solo un dubbio, nello scorgere la tristezza di Karl celata dai modi bruscamente freddi verso la moglie, diviene certezza quando arriva il finale del film. Nella baracca di un’infermeria, accanto ad un soldato francese e ferito mortalmente, nel delirio l’uomo rivede la moglie e finalmente comprende che il perdono non solo era possibile, ma anche necessario. Il tradimento della donna era una colpa minima, in fondo, rispetto all’orrore della guerra, eppure non era stato capace di perdonarla. Ma allora come sarà possibile superare l’immane tragedia della guerra? Come si potrà perdonare il nemico? E inoltre, se nessuno perdona, allora le colpe e i rancori finiranno per sommarsi e la loro totalità potrebbe essere appunto la causa di una catastrofe come la guerra. Un simile orrore non può infatti derivare dalle colpe di singoli o di pochi, per una tale follia la colpa non può essere che collettiva: una colpa enorme ma fatta di tante piccole colpe, come, ad esempio, il non essere riuscito a perdonare la propria moglie, quand’anche t’abbia tradito. Un esame di coscienza, quello di Karl (e di Pabst, ovviamente), che non fa sconti e che ci costringe a guardarci dentro per comprendere quello che, pur stando davanti ai nostri occhi, può sembrarci inconcepibilmente distante e altro rispetto a noi. Una lezione di vita che ci arriva dal tempo e dal luogo di morte per eccellenza.    





Nessun commento:

Posta un commento