1653_LE CITTA' PROIBITE . Italia, 1963. Regia di Giuseppe Scotese

Prima che regista, Scotese era viaggiatore incallito: se per America
di notte aveva peregrinato per il Nuovo Continente per un anno intero, per Le
città proibite raddoppiò il tempo speso a spostarsi da un capo all’altro
del mondo. E riguardo al suo essere cineasta, i suoi ideali erano elevati e
certo non propriamente in linea con le caratteristiche intrinseche dei Mondo
movie. “Oggi per il cinema è tempo di verità” confidò, infatti, ad un
giornalista di Stampa sera in quell’autunno del 1963. Nell’articolo in
questione, è poi illustrata un’interessante fase di realizzazione del
documentario, il passaggio che colpì maggiormente la critica, ambientato nel
quartiere delle prostitute di Bombay, in India. “Per questo egli, circa due
anni fa, è partito con una troupe ridottissima alla ricerca dell’inconsueto, di
ciò che la civiltà ha spesso vergogna di mostrare e tiene gelosamente e
colpevolmente nascosto. Come il quartiere indiano in cui vivono migliaia di
prostitute con i loro figli concepiti senza amore negli squallidi buchi che le
autorità civili han voluto munire di inferriate. Sono quasi delle sepolte vive.
Scotese fu allontanato più volte dal luogo, dalla locale polizia, con la sua
cinepresa, il parco lampade e tutto il necessario per girare. Dovette riprendere
qualche scorcio impressionante della vita orrenda di quelle povere disgraziate,
con una 16 mm professionale, tenuta seminascosta dall’operatore Gianpaolo
Santini”. [p. z., Due anni in giro per il mondo
alla ricerca delle «Città Proibite», Stampa sera, anno 95, n.220, giovedì
19 – venerdì 20 settembre 1963, pagina 11]. La capacità di
Scotese si manifestò anche nella scelta di utilizzare una pellicola
ultrasensibile, in modo che, nella livida luce dell’alba, potessero rimane
meglio impressi i volti smunti, rassegnati, sofferenti, della dolente umanità
che giaceva inerte sui marciapiedi delle strade di Bombay. Il regista
marchigiano, sempre disponibile al confronto, presentava così il suo film: “Che
senso ha questo nostro mondo moderno? Lo abbiamo chiesto alla dolcezza dei
popoli semplici, all’esperienza di quelli civili, ai popoli padroni, ai popoli
servi, alle donne dei miliardari, a quelle di strada. Abbiamo percorso
centomila chilometri alla ricerca dell’autentico, del reale volto delle città e
degli uomini, quello di cui meno si parla” [p. z., Due anni in giro per il mondo
alla ricerca delle «Città Proibite», Stampa sera, anno 95, n.220, giovedì
19 – venerdì 20 settembre 1963, pagina 11]. La critica, quando
se ne occupò, riconobbe i nobili intenti di Scotese oltre all’indubbia capacità
artistica: “Nel gran numero di prodotti analoghi, Le città proibite si
distingue per una evidente volontà demistificatrice: se i luoghi presi di mira
non sono nuovi –non sempre, almeno– allo schermo, piuttosto nuovo è lo spirito
che informa la scelta delle immagini, il loro accostamento per affinità o per
contrasto. Questo viaggio cinematografico ci conduce dai tradizionali quartieri
del vizio di Londra, Parigi, Istanbul, Tokio, Las Vegas, alle cittadelle del
denaro, alle capitali della finanza che si annidano nel cuore delle maggiori
metropoli di occidente: mostra la favolosa ricchezza e la miseria estrema. II
regista Giuseppe Scotese, i suoi collaboratori, gli autori del commento
parlato, fanno un serio sforzo per esprimere, su quanto l'obiettivo capta, non
giudizi moralistici, ma considerazioni umanamente aperte ed illuminate.
Naturalmente vi sono diverse concessioni allo spettacolo, nel senso stretto
della parola: ripetute volte, il gusto dell'inchiesta dal vivo è sopraffatto da
un sapore meno genuino, intriso di artificioso e di preordinato.

Ma non mancano
le sequenze di qualità: prime fra tutte, quelle che aprono il sipario
sull'infernale strada delle prostitute di Bombay: un aspetto tremendo,
sconvolgente, del nostro mondo diviso. Notevoli, per l’identica ragione, le
scene di Hong Kong: esistenze degradate, ai limiti dell’animalità, così lontane
dalle colorate figurazioni delle agenzie turistiche. Ed ecco, anche, il
rovescio del quadro: la faccia sorridente di Cuba liberata, vigile nella difesa
della sua rivoluzione, ma pronta sempre a manifestare un gioioso, straripante,
sentimento della vita. Tra i momenti di carattere folcloristico, fanno spicco
poi le danze cerimoniali degli Aztechi, così come i cupi riti dei negri di
Haiti. Il film è a colori: maggiormente incisivo, si direbbe, proprio là dove
l’operatore ha lavorato quasi di frodo, carpendo autentici segreti”. [ag. Sa., Le
prime: Le città proibite, L’Unità, venerdì 13 settembre 1963, pagina 7]. In quest’altro esempio, la scelta differente
d’approccio di Scotese, rispetto a Jacopetti, è citata apertamente: “Le
città proibite, ovvero quelle dove ci sia del marcio, variamente
dissimulato. I molti realizzatori del film, che reca la firma di Giuseppe
Scotese, non hanno proseguito l’assunto con l’accanimento che ci avrebbe messo
Jacopetti; ma d’altra parte non sono rimasti alla superficie. Le città
proibite mette fuori a tratti (basterebbero le sequenze sulle prostitute di
Bombay e in generale sulla miseria dell'India) un autentico pungiglione di
cinema etnologico; e soltanto per amore di cassetta ha purtroppo inserito, in
un severo contesto che illumina la dolorosa ineguaglianza delle sorti umane e
sconcertanti aspetti della nostra, diciamo così, civiltà, riempitivi di maniera
e consueti spogliarelli, ai quali la lustra allegorica (come in quello
dell’uomo «nella gabbia del desiderio») complica, ma non allevia la sconcezza.
Lo spettatore tolga da questo pittoresco vagabondaggio per il mondo –Londra,
Parigi, Istanbul, Greenwich Village, Virginia City, Las Vegas, Bombay, Haiti,
Giamaica, Cuba, New York, Tokio eccetera– le cose veramente valide (per
esempio, il «turismo organizzato» di Giamaica, persin capace di abbattere la
barriera razziale), gusti il commento quando non è retorico, la bellezza delle
immagini a colori; e il resto condoni ai fati commerciali di un «genere» anche
troppo fortunato” [Sullo schermo, un documentario italiano, La Stampa, anno
97, n.237, domenica 6 ottobre 1963, pagina 6]. Nonostante il film
sconti i soliti problemi con la veridicità di quanto mostrato, del resto comuni
anche ai normali documentari, riesce alla lunga ad essere davvero convincente.
Per la verità, il commento –opera dello stesso Scotese e letto da Alberto Lupo–
ogni tanto scivola nel moralismo; ma, del resto, qual è il confine tra morale e
moralismo? Non è semplice, affrontare i temi che angosciano la società senza
rischiare, in qualche caso, di andare anche solo leggermente «oltre». E anche
riguardo all’approfondimento degli argomenti trattati, che non è certo
esaustivo, va tenuto a mente che si tratta di un film, un’opera destinata alla
divulgazione di massa. Un lungometraggio destinato alle sale, non è, e non può
essere, lo spazio per una seria e dettagliata analisi di dinamiche
sociologiche: può semmai stimolare, e Le città proibite lo fa,
l’interesse ad approfondire. Dopo qualche passaggio non memorabile tra Londra e
Parigi, il film si fa, infatti, via via più interessante. Certo, il segmento
narrativo dedicato a Bombay è davvero sconvolgente, come raccontano i recensori
dell’epoca, ma anche la descrizione di come la Rivoluzione Cubana reinterpreti
a suo modo gli spettacoli nel mitico Tropicana, a L’Avana, vale assolutamente
la pena di essere vista. Così come al Giappone è dedicato un momento non
banale. In prima istanza, con i lottatori di Sumo, la cosa sembra unicamente un
dettaglio folcloristico ma poi la voce di Alberto Lupo ci fornisce alcune
considerazioni che fanno riflettere. L’occupazione americana, in seguito alla
sconfitta del paese nella Seconda Guerra mondiale, non ha solo sradicato la
religione più diffusa, lo shintoismo, ma ha minato l’identità nazionale, tanto
che, al tempo, il Giappone viveva ancora una profonda crisi interiore. Restando
in linea con i cliché dei Mondo movie, Le città proibite esemplifica
tale situazione mostrando come, già ai tempi, nel paese del Sol Levante si
fosse persa l’usanza di avere bagni in comune per uomini e donne. Ad introdurre
la malizia e il pudore, secondo Scotese, sarebbero stato il puritanesimo
occidentale; è andata smarrita, così, l’innocenza in sintonia con la natura che
caratterizzava la cultura sessuale nipponica. La colonna sonora, affidata a
Marcello Giombini è fondamentale, nel trainare il documentario in questa fase,
con il tempo che passa e il rischio di appesantire la visione, in questo genere
di operazioni, è dietro l’angolo. Al contrario, Le città proibite entra
proprio adesso nel vivo e si rivela, a sorpresa, uno dei migliori Mondo movie
in assoluto. Scotese ci porta a Wall Street, sorta di isola nell’isola, se
consideriamo il nucleo finanziario di New York all’interno di Manhattan, il
cuore della Grande Mela. Di più: la sede della borsa americana è il centro
finanziario del mondo, il luogo dove si crea o si disperde la ricchezza del
capitalismo.
A far da contrasto, il racconto mostra Aberdeen, una zona nell’area del porto
di Hong Kong: l’acqua, al tempo, era stata prosciugata dai rifiuti e dagli
escrementi dei poverissimi abitanti, che vivevano miseramente su barche ormai
stabilmente all’asciutto, o immerse solo parzialmente nelle scarse acque
putride. Un effetto certamente della colonizzazione britannica e, quindi, un
prodotto di quello stesso capitalismo di cui si erano viste poco prime le
cattedrali in vetro e cemento di Lower Manhattan. Dove il documentario ritorna,
per portarci ancora in un posto isolato ed esclusivo, perfino più di Wall
Street: un rifugio antiatomico dove alcuni giovani stanno ballando un twist.
Qui Giombini si scatena con il brano Atomic Twist, uno dei vertici
musicali del documentario, e suggella un passaggio lapidario: tutta la
ricchezza del mondo, per rinchiudersi in una scatola di cemento armato
sottoterra. Siamo gli sgoccioli, ormai, ma c’è tempo per tre minuti di idillio,
uno dei momenti più evocativi dell’intero genere: Atomic Twist sfuma, lo
scenario cambia, ora c’è il sole tra le nuvole in cielo, il mare coi delfini, e
la voce di Eddie Lund and his Tahitians che attacca Anaa E, meraviglioso
pezzo di musica polinesiana che, clamorosamente, non verrà incluso nella
Colonna Sonora ufficiale. Come da titolo, il film è stato un viaggio tra Le
città proibite: qui, sull’isola in mezzo all’Oceano Pacifico, di divieti
non ce n’è, e, forse, suggerisce la voce di Alberto Lupo, questa è la soluzione
per i problemi e le angosce del mondo. Un ritorno alla sintonia con la Natura,
senza sensi di colpa posticci da scontare, ma vivendo in armonia con il creato.
Presto la dolce melodia di Eddie Lund e dei suoi Tahitians finisce, quasi fosse
stato solo un sogno, e una musica grave ci ripiomba nella grigia e polemica
Londra, storico ombelico del mondo civilizzato secondo il credo vigente. Siamo
quasi ai titoli di coda, e, se in qualche passaggio, il commento può essere
scivolato nella retorica o nel moralismo, qui Scotese riesce ad essere più
calibrato, lasciando la conclusione in sospeso: “E, come sempre, quando un
viaggio è finito, abbiamo cominciato a ricordare. Questa è l’immagine che per
prima ci è tornata alla mente”. E Atomic Twist riparte a cannone, mentre
i ragazzi che ballano nel rifugio antiatomico, sono stavolta visti in un
angosciante rallenty, quasi fossero fantasmi di un futuro post disastro
nucleare. Un’immagine che stride, con le pretese di un documentario, visto che
non può trattarsi di qualcosa di vero, se non è ancora accaduto. Un’illuminante
profezia può, però, essere più autentica di uno spento sguardo a ritroso. 

Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE
IN VENDITA QUI