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martedì 29 aprile 2025

SHOCK TROOP

1660_SHOCK TROOP (Stoßtrupp 1917). Germania, 1934. Regia di Hans Zöberlein e Ludwig Schmid-Wildy

Un film di genere bellico non dovrebbe essere una semplice sequenza di attacchi, contrattacchi, assalti, bombardamenti subiti e inflitti e via di questo passo guerreggiante. Occorre una storia, dei personaggi, qualcosa per interagire con lo spettatore, insomma. Per quasi un’ora e mezza, invece, Shock Troop, film del 1934 di Hans Zöberlein e Ludwig Schmid-Wildy sembra unicamente una sequela di azioni puramente belliche. Certo, nel film c’è una manciata di personaggi, i soldati tedeschi delle truppe d’assalto, le Stoßtruppen a cui fa sommariamente riferimento il titolo originale. D’altro canto quello di Zöberlein e Schmid-Wildy è un film che celebra la tempra tedesca, messa sotto pressione dalle forze dell’Intesa nel 1917, che non riusciranno però a piegarla, almeno quell’anno. Nel film, ci provano i francesi sul fronte occidentale, e assistiamo alle classiche scene di guerra nel desolato terreno devastato dalle artiglierie. Poi il nostro manipolo viene trasferito nelle Fiandre, per resistere all’attacco britannico, che avanzano con l’ausilio dei carri armati, una novità per l’epoca, nella celebre battaglia di Cambrai, verso la fine dell’anno. Il panorama dell’area belga sul momento riserva qualche sembianza di civiltà, raso presto al suolo dalla violenza degli scontri. Alla fine riconosciamo il classico scenario della Grande Guerra, terra brulla, buche da esplosioni, fango, pozzanghere, filo spinato, vecchie trincee e tutto il resto. Per quanto, da un punto di vista della messa in scena, la coppia di registi tedeschi fa un lavoro egregio, alcune sequenze, come quelle notturne illuminate dai fuochi d’artiglieria con le ombre dei soldati che scattano da una parte all’altra, o altre in panoramica sull’avanzata della truppa tra i riflessi delle pozze d’acqua, sono davvero di grande effetto visivo. Intanto i tedeschi non demordono e si dicono pronti ad affrontare anche gli americani che annunciano il loro arrivo tramite volantinaggio da un aereo, nel vano tentativo di scoraggiare gli irriducibili avversari. Il film arriva verso la fine come l’anno forse più duro dei combattimenti, il 1917: i tedeschi sembrano avere perso l’abbrivio dei tempi migliori ma non lo smalto. Mentre sfilano inquadrati i fanti delle Stoßtruppen intonano un canto nazionalista che proclama come la Germania sia sulla giusta strada a lasciar intendere che la questione bellica è tutt’altro che chiusa. 

Insomma, il film è arrivato agli sgoccioli e, se per un momento non si spara più, in compenso si canta facendo la voce grossa. Ma cos’è, un film di propaganda nudo e crudo questo Shock Troop?
Poi, negli ultimissimi minuti, arriva un ribaltamento della situazione davvero insospettabile. E’ Natale e, nella ridotta della trincea, i nostri tirano fuori un alberello, alquanto improvvisato, è ovvio, e intonano Notte Silente. La quiete natalizia è interrotta da un’incursione inglese coi soldati britannici mimetizzati di bianco; l’attacco è presto respinto, i tedeschi son tedeschi anche a Natale, che diamine. Calma, l’annunciato ribaltamento non è ancora arrivato. Perché, mentre si risistemano nel rifugio, gli uomini delle Stoßtruppen odono qualcuno piangere e lamentarsi là fuori, nella terra di nessuno. Partono in missione e recuperano il ferito: è un inglese. Il medico militare interviene solo per dire che non c’è più niente da fare. Il soldato britannico è poco più di un ragazzo e, vedendo l’albero di Natale, sembra avere un lieve moto di sollievo. Accanto a lui un esperto assaltatore tedesco gli solleva il capo, il ragazzo mormora una parola, madre, mentre guarda un’immagine dal sapore tanto domestico, famigliare, con le candeline che fiammeggiano sui rami dell’albero addobbato. Il soldato con la fisarmonica intona di nuovo Notte Silente, un altro si asciuga le lacrime (è possibile?) o, forse, è solo la stanchezza. L’austero pudore del rude assaltatore ci impedisce di approfondire, l’uomo infatti esce a prendere un po’ d’aria nella notte innevata della trincea invernale. L’inglese spira, il soldato lì accanto gli passa una mano sul volto per chiudergli gli occhi. E Shock Troop si ritrova ad essere un capolavoro grazie agli ultimi cinque minuti di pellicola.


domenica 27 aprile 2025

WESTFRONT

1659_WESTFRONT (Westfront 1918). Germania, 1930. Regia di Georg Wilhelm Pabst

L’avvento del sonoro nel cinema non è un dettaglio secondario, soprattutto non lo è per approcciarsi a Westfront, capolavoro di Georg Wilhelm Pabst. E’ infatti solo grazie alla traccia audio che l’autore tedesco può compiere l’impresa di portare con tanta efficacia la Grande Guerra sullo schermo, come raramente si era visto prima. E non è che sia il semplice abbinamento dei suoni alle immagini a permettere tale prodigio: Westfront si inserisce coerentemente nella corrente Neue Sachlickeit, un movimento cinematografico nato come sorta di risposta all’espressionismo. L’idea era quella di una rappresentazione il più possibile realista, oggettiva (da lì il nome nuova oggettività) e l’audio, a quel punto, rappresentava l’arma per bilanciare la maggiore carica comunicativa dei film espressionisti. I quali avevano indubbiamente un impatto superiore, in tema di immagini sullo schermo: era infatti una loro prerogativa quella di avere una capacità espressiva eccezionale. I registi espressionisti arrivavano a questo risultato stilizzando ed enfatizzando ma, se questo era perfetto per un certo tipo di storie, ad esempio quelle dell’orrore che incarnavano in modo calzante le angosce di quel periodo storico, questo approccio aveva anche dei limiti. Ad esempio se lo scopo del regista fosse presentare un monito concreto, reale, come un documento che attestasse la follia della guerra che non fosse in alcun modo fraintendibile. Intendiamoci: nel caso, lo stile espressionista avrebbe potuto incarnare alla grande gli orrori della guerra ma, allo spettatore, sarebbe potuto sorgere il dubbio che le immagini sullo schermo potessero essere volutamente esagerate, insomma credibili quanto il Nosferatu, il vampiro dell’omonimo film dell’orrore (1922, regia di Friedrich Wilhelm Murnau). La scelta di uno stile più documentaristico diminuiva di molto l’efficacia delle immagini, la loro forza: la traccia audio arrivava a supplire questo limite e, nelle mani di cineasti di classe come Pabst, diveniva addirittura devastante. Pur nella sua semplicità, l’attacco finale, con l’avanzata dei rudimentali carri armati francesi, è di grande efficacia ma è assai angosciante anche il fuoco d’artiglieria amica che devasta le linee dei nostri protagonisti nella fase iniziale. Un dettaglio verosimile, in una rappresentazione che lo sembra maledettamente, che sottolinea l’assurdità della guerra. 

Il regista austriaco ci porta quindi direttamente in prima linea anche durante le fasi cruciali e la sua messa in scena naturale degli eventi si manifesta in modo quanto mai funzionale. Va detto che, quando lo scontro bellico è al suo apice, il tenente (Claus Clausen) esce di senno e il suo volto sembra quello di uno dei protagonisti del cinema espressionista: questo a dimostrazione che Pabst ha la capacità, quando ne scorga lo scopo, di utilizzare anche quegli stilemi, a testimonianza della sua caratura registica. Ma nel complesso il lungometraggio si distingue per la semplice naturalezza della messa in scena anche a fronte di una situazione totalmente fuori dall’ordinario come la guerra. E se è vero che ci sono alcuni passaggi che sottolineano come il regista sia in pieno controllo sul mezzo tecnico-cinema, ad essere naturale è perciò solo il risultato finale sullo schermo. Questo è intuibile in una delle scene iniziali all’interno della casa dove alcuni soldati tedeschi stanno giocando a carte mentre uno di loro, lo studente (Hans Joachim Moebis) sta amoreggiando con Yvette (Jackie Monnier) una francesina. Arriva l’ordine di recarsi in prima linea e, se la macchina da presa indugia sulla coppia di ragazzi che flirtano, poi giungono anche le parole scocciate del soldato che aveva le carte migliori e si rammarica per l’occasione persa. La possibilità dell’uso del sonoro permette al regista di sottolineare scherzosamente la similitudine tra le due situazioni, in apparenza decisamente differenti, in pratica quasi giocando con lo spettatore mediante l’uso dei nuovi mezzi che il cinema mette a disposizione. Il passaggio in cui Karl ritorna al fronte lasciando la moglie dopo l’infelice licenza è invece più serio, già dal punto di vista del tenore dell’argomento. Il soldato lascia l’appartamento senza accennare alcuna volontà di riconciliazione verso la consorte e scende le scale col passo pesante. Si odono i colpi degli scarponi sui gradini, lenti ed inesorabili, quasi a scandire il tempo che passa senza che arrivi un gesto amichevole. La ragazza è sulla porta, mentre disperata invoca sommessamente un gesto, un cenno, un saluto. 

L’uomo, prima di uscire definitivamente dalle scale, non resiste e le lancia uno sguardo: ma non ne prova compassione, o almeno non a sufficienza. Questa straziante e al contempo assai sobria scena arriva a corredo di una fase cruciale di Westfront, ovvero la licenza di Karl. Questa pausa dalle scene di guerra funge come sorta di spartiacque nel lungometraggio, dopo la quale una situazione già non certo rosea va definitivamente a rotoli. Karl arriva a casa in licenza con la comprensibile smania di rivedere la giovane moglie ma, amara sorpresa, la trova a letto con un altro. Il terzo incomodo è un giovane in procinto di partire per il fronte che viene liquidato velocemente e, comprensibilmente, in malo modo. Con la moglie (Hanna Hoessrich) la faccenda si fa invece un po’ più complicata: Karl, dopo il primo momento di rabbia, si chiude in sé stesso e ignora la donna, sebbene neanche in modo eccessivo. Il che deprime ulteriormente la ragazza, rosa dal senso di colpa ma impossibilitata, se non a cercare una giustificazione (difficile, in ogni caso) perlomeno ad espiare la colpa. Un po’ a sorpresa scopriamo che la madre di Karl è piuttosto comprensiva nei confronti della nuora, ma nemmeno il suo intervento riesce ad ammorbidire il comportamento del figlio. Alla fine arriva il giorno in cui Karl deve far ritorno al fronte e l’uomo ostenta un falso sollievo che è evidentemente mirato a ferire la moglie; che sollievo ci può infatti essere ad andare nel mattatoio delle trincee? E nel farlo dopo aver visto crollare la propria armonia coniugale? Il lugubre incedere sulla scala mentre lascia il suo appartamento, tradisce il reale stato d’animo del militare che, in ogni caso, non concede a sua moglie un minimo spiraglio di perdono: è un soldato tedesco, dopotutto. Ma forse c’è anche un po’ di leggenda, intorno alla mitica figura del combattente teutonico indifferente a qualunque cosa che non siano gli ordini militari. E se questo può essere solo un dubbio, nello scorgere la tristezza di Karl celata dai modi bruscamente freddi verso la moglie, diviene certezza quando arriva il finale del film. Nella baracca di un’infermeria, accanto ad un soldato francese e ferito mortalmente, nel delirio l’uomo rivede la moglie e finalmente comprende che il perdono non solo era possibile, ma anche necessario. Il tradimento della donna era una colpa minima, in fondo, rispetto all’orrore della guerra, eppure non era stato capace di perdonarla. Ma allora come sarà possibile superare l’immane tragedia della guerra? Come si potrà perdonare il nemico? E inoltre, se nessuno perdona, allora le colpe e i rancori finiranno per sommarsi e la loro totalità potrebbe essere appunto la causa di una catastrofe come la guerra. Un simile orrore non può infatti derivare dalle colpe di singoli o di pochi, per una tale follia la colpa non può essere che collettiva: una colpa enorme ma fatta di tante piccole colpe, come, ad esempio, il non essere riuscito a perdonare la propria moglie, quand’anche t’abbia tradito. Un esame di coscienza, quello di Karl (e di Pabst, ovviamente), che non fa sconti e che ci costringe a guardarci dentro per comprendere quello che, pur stando davanti ai nostri occhi, può sembrarci inconcepibilmente distante e altro rispetto a noi. Una lezione di vita che ci arriva dal tempo e dal luogo di morte per eccellenza.    





venerdì 25 aprile 2025

L'UOMO LEOPARDO

1658_L'UOMO LEOPARDO (The Leopard Man). Stati Uniti, 1943. Regia di Jacques Tourneur

Grazie al successo de Il bacio della pantera [Cat People, Jacques Tourneur, 1942], il produttore Val Lewton si vide forse allentare un po’ il guinzaglio dalla RKO, ottenendo maggiore autonomia. Naturalmente le tre regole che gli aveva imposto lo Studio –budget sotto i 150.000 dollari, durata inferiore ai 75 minuti e titoli dei film decisi preventivamente dalla società– andavano comunque rispettate. Inoltre, Lewton, che fu uno dei pochi Produttori cinematografici ad avere una sorta di pretesa autoriale, non si affidava, in ottica di veder rispettato la propria idea di cinema, a malleabili registi di second’ordine. Pur riuscendo ad imprimere, grazie ad una minuziosa supervisione che lo vedeva metter mano alle sceneggiature anche quando non venne poi accreditato, la sua personale visione delle cose, si avvalse di registi che, nel tempo, dimostrarono poi il proprio valore. Se Tourneur, quando diresse Il bacio della pantera, aveva un minimo di carriera alle spalle, Mark Robson e Robert Wise, poi cineasti di valore assoluto, furono fatti esordire dietro la macchina da presa proprio da Lewton. In quel 1943 l’unità della RKO che realizzava horror a basso costo, capeggiata dal produttore di origine russa, si poteva permettere di realizzare ancora un solo film alla volta e Tourneur, dopo Il bacio della pantera e Ho camminato con uno zombie [I walked with a zombie, Jacques Tourneur, 1943] poté dedicarsi anche a L’uomo leopardo. Nonostante tutte queste premesse, anche ne L’uomo leopardo, è riconoscibile, più di ogni altra caratteristica, la cifra distintiva del cinema di Val Lewton. Come detto, i titoli erano scelti dallo studio a priori ed era compito poi di Lewton e dei suoi collaboratori imbastire qualcosa che fosse comunque plausibile. Il fascino felino che Il bacio della pantera aveva lasciato ancora aleggiante nell’aria spinse i capoccia della RKO ad inventarsi un improbabile «uomo leopardo» che Lewton e Tourneur sconfessarono poi sostanzialmente sullo schermo. Va comunque messo a referto che allo studio della torre radio, passato giusto qualche anno, riuscirono a proporre un doppio spettacolo di repliche che preannunciava due creature bestiali: King Kong [King Kong, Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, 1933] e, appunto, L’uomo leopardo

Tornando alla realizzazione di quest’ultimo, per assecondare inizialmente l’idea dello studio, e per giustificare almeno in parte un simile titolo, si pensò di coinvolgere ancora Dynamite, il leopardo nero che già era stato portato sullo schermo ne Il bacio della pantera. Il pretesto, per la verità, è un po’ debole: Jerry Manning (Dennis O’Keefe), l’agente di Kiki Walker (Jean Brooks), una ballerina da night club, affitta un leopardo per enfatizzare l’entrata in scena della sua stellina. Uno stratagemma sensazionalistico, è evidente, ma c’è da contrastare il successo di Clo-Clo (Margo): siamo in un’imprecisata cittadina del New Mexico, e la ballerina di flamenco sta rubando la scena a KiKi, grazie al suo charme latinoamericano più in sintonia con l’ambiente. Non è un paese per bionde, il New Mexico, costata amaramente Eloise (Ariel Heath) la platinata ragazza delle sigarette; e allora tanto vale provarci con un bel gattone per sparigliare le carte. Nonostante L’uomo leopardo sia passato alla storia del cinema come uno degli archetipi dello slasher –genere horror basato sulle gesta di un maniaco omicida che furoreggerà una trentina d’anni dopo– non tutte le donne del film, seppur siano le vittime preferite di questi criminali, sono creature docili e indifese. In effetti, quando si ha a che fare con autori del calibro di Tourneur o Lewton, si scoprono significati sorprendenti in contesti impensabili. 

Come, nel caso specifico, con l’uomo più colto e istruito che si rivela ben più pericoloso di una belva feroce. Perché il buon Dynamite, il leopardo che è apparentemente al centro dell’attenzione del film, se la squaglia quasi subito, ovvero non appena Clo-Clo lo affronta sfoderando i suoi, di artigli, metaforicamente parlando. Come previsto da Jerry, Kiki aveva fatto il suo ingresso in scena, gattone al guinzaglio, con il preciso scopo di rompere le uova nel paniere a Clo-Clo, che stava ammaliando il pubblico al ritmo di nacchere e movimenti sinuosi. All’arrivo del leopardo la ballerina di flamenco non si scompone: non sarebbe stato certo quel micione troppo cresciuto a mettere in discussione il suo successo e lo mette subito in chiaro con un duro faccia a faccia col l’animale. Detto, fatto: il leopardo, al cospetto di una simile tigre, taglia la corda e si dilegua prima che qualcuno possa bloccarlo. L’idea di Lewton e Tourneur, almeno per imbastire il proprio racconto, è quindi avere un leopardo libero di scorrazzare per il piccolo villaggio, mettendo a rischio l’incolumità degli abitanti. Certo, l’animale è addestrato ma, una volta solo e affamato, potrebbe diventare davvero pericoloso. Una situazione simile è l’ideale per questi horror targati RKO degli anni 40 che aggiornarono il genere dopo il decennio di marca Universal: atmosfere cupe, ombre che nascondono insidie, una paura strisciante che pervade tutta quanta la storia. Da un punto di vista narrativo, anche il soggetto, ispirato al romanzo Black Alibi di Cornell Woorlich, non offre una sponda sicura, ma continua a cambiare punto focale. L’obiettivo della macchina da presa di Tourneur è sempre una ragazza, ora Kiki, ora Clo-Clo, ora Terésa (Margaret Landy), ora Consuelo (Tuulikki Paananen) e, di volta in volta, il racconto indugia su di loro, al punto che ognuna sembra poter divenire la protagonista della nostra storia. Ma si tratta di false piste. Come è, del resto, una falsa pista anche il titolo: non c’è, infatti, nessun «uomo leopardo» del tipo che sarebbe facile immaginare –seppure ci sia un cameriere che rimane graffiato dal felino, quasi a lasciar intendere una possibile «infezione» di stampo fantastico– e perfino il leopardo stesso è un indizio fuorviante. Ma il tema della falsa pista è davvero costruito a più livelli: perché, in realtà, sebbene non venga mai citato espressamente, un uomo leopardo c’è: è Charlie (Abner Biberman), il proprietario del felino, che reca questo altisonante nome d’arte –The Leopard Man– sul carrozzone da artista ambulante. 

È quindi lui il killer seriale, l’«uomo leopardo» a cui si riferisce il film? Sembra impossibile, vedendo il tipo; eppure… Ma, come detto, siamo in mezzo ad un dedalo di false piste: il vero colpevole, quello davvero colpevole perché si macchierà di delitti «bestiali», talmente brutali da essere attribuiti ad una belva, sarà l’uomo più acculturato del lotto. E qui torniamo alla riflessione sui risvolti imprevedibili del cinema di Lewton di cui si accennava poco sopra: una giovane ragazza può tener testa a un leopardo, ma nulla può contro l’animale più feroce della terra, l’uomo civilizzato. La trama prevede che, con il felino in libertà, una serie di efferati omicidi mietano vittime tra la popolazione femminile del pueblo. Subito si pensa alla belva: Terésa, Consuelo, Clo-Clo sarebbero quindi state uccise dal leopardo. Oppure no? Se Terésa, protagonista suo malgrado di una delle più terrificanti sequenze della storia del cinema dell’orrore, sembra davvero finita sotto gli artigli dell’animale, a Jerry, che si sente giustamente responsabile di questa situazione, qualche dubbio sorge nel merito dei successivi omicidi: perché la belva non si è cibata delle carni delle sue vittime? Neppure il professor Galbrath (James Bell), esperto di zoologia, ha una spiegazione plausibile e si dice comunque scettico sull’ipotesi di Jerry, che pensa possa esserci un uomo dietro gli omicidi. Galbrath non prende troppo sul serio questa teoria e, provocatoriamente, cerca di incolpare il mite Charlie, il proprietario del leopardo. Il domatore, la sera, è solito recarsi alla cantina a farsi un goccio, e Galbrath, che ne conosce la propensione ad alzare il gomito, ipotizza che potrebbe aver agito sotto l’influsso dell’alcool, dimenticandosi di quanto fatto una volta passata la sbronza. Il professore è talmente persuasivo, seppur con un fare tra il sornione e il divertito, che Charlie si autoconvince di essere il colpevole e si costituisce alla polizia. Quello della colpa è il tema de L’uomo leopardo, un argomento talmente strisciante che finisce per coinvolgere anche chi non dovrebbe, come appunto Charlie; ma, forse, il tema è proprio quello della colpa indiretta, di una colpa non specifica. Perché, a ben vedere, Charlie, seppure sia ovviamente innocente dei delitti in modo diretto, è comunque in qualche modo corresponsabile del fatto che una belva feroce sia stata portata fin lì dall’Africa e abbia poi ucciso la povera Terésa; e volendo, degli sviluppi successivi della storia che ne sono in qualche modo la conseguenza. Il leopardo, per quanto sia quindi il «colpevole» del primo omicidio, è ampiamente giustificato dalla propria natura e dalle circostanze; ma è l’unico ad avere serie e credibili attenuanti, oltre a pagare con la vita, saldando con ampio margine ben più dei suoi debiti, qualora ci fosse chi volesse chiedergliene conto. Il killer seriale, in ogni caso, non è Charlie ma è, come mezzo anticipato, Galbrath, l’uomo di cultura della vicenda; certamente una soluzione a sorpresa, soprattutto se si pensa che il film è del 1943. Ma i motivi che portano lo studioso a compiere i delitti sono solo abbozzati; L’uomo leopardo è comunque un film antesignano di questi temi, tuttavia più di dieci anni prima nel capolavoro di Fritz Lang M – Il mostro di Düsseldorf [M – Il mostro di Düsseldorf (M), Fritz Lang, 1931] il personaggio di Peter Lorre aveva dato ben altro spessore ai turbamenti interiori del maniaco. Forse il punto nevralgico è che a Lewton e Tourneur non interessa la figura deviata, malata, ma il contesto che facilita poi la fuoriuscita del Male dall’individuo. 

Il Male primordiale e belluino è sì già dentro l’uomo, perfino dentro all’uomo più emancipato ed istruito; ma sono le condizioni a portarlo alla luce. Condizioni che, negli Stati Uniti, e nel mondo occidentale in generale, si stavano evidentemente creando o quantomeno incrementando. Dal terrore evidente e diffuso, con il mondo sull’orlo di una guerra mondiale quando ancora non si era spento il ricordo della precedente –che il cinema aveva manifestato con l’espressionismo tedesco e i film horror Universal– si passava ad una situazione diversa. La Seconda Guerra Mondiale era alfine scoppiata e, dopo l’ormai proverbiale reticenza, anche gli Stati Uniti ne erano rimasti coinvolti. D’acchito, trovare i colpevoli di averla scatenata era oltremodo semplice: Adolf Hitler, i nazisti e i loro alleati italiani e giapponesi. Ma, ad uno sguardo un po’ più approfondito, qualcosa non tornava. E la domanda delle domande finiva per essere sempre sostanzialmente una: era stato fatto davvero tutto per evitare il ripetersi di una simile catastrofe? La colpa diretta era una questione semplice da archiviare; più difficile trovare qualcuno che si azzardasse a fornire una risposta al secondo quesito, vuoi per la generale diffusione delle responsabilità, vuoi per la scomodità di doverle ammettere. Era un tasto scomodo, e questo tipo di responsabilità rimase aleggiante, senza che nessuno se ne facesse carico. Forse è anche per questo ne L’uomo leopardo e, nel complesso, nei film prodotti da Lewton per la RKO, la sensazione di colpevolezza indiretta è così diffusa. Nel film di Tourneur, il tema della colpa del serial killer non è molto approfondito; quasi per contraltare, ci sono accenni, per quanto lievi ma sono comunque numerosi, alle colpevolezze minori degli altri personaggi. Ad esempio il tormento di Jerry e Kiki che, pur di conquistare la ribalta dello spettacolo, si erano presi un rischio enorme senza calcolarne adeguatamente le conseguenze. Fanno gara a chi è più cinico, in prima istanza, ma in realtà il rimorso li rode eccome. E che dire ancora di Charlie, che affida la sua belva ad un bellimbusto per niente pratico di animali, soltanto per il compenso? E poi c’è la madre di Terèsa, che la lascia fuori dalla porta, mentre sua figlia, terrorizzata, sta per essere aggredita dal felino, nella tremenda scena citata. E ancora il fidanzato di Consuelo, che se ne va, probabilmente in anticipo, incurante di quello che potrebbe accadere alla ragazza. Ma può forse passarla totalmente liscia, almeno da un punto di vista morale, il custode del cimitero?  D’accordo, l’uomo avverte la giovane dell’orario da rispettare ma, detto questo, fa ben poco per evitarle eventuali seccature. In questo caso, le seccature sono ben più gravi di quanto prevedibile, e questo non è certo colpa del custode, ma anche rimanere chiusi in un campo santo la notte non è un’esperienza esattamente simpatica eppure l’uomo bada unicamente ai fatti suoi. Insomma, tutto quanto il film è permeato di questo senso di colpa indiretta, sul quale il capo della polizia (Ben Bard) si esprime direttamente, prima minimizzandolo ma poi sottolineandolo in modo sibillino. E perfino nel battibecco iniziale tra Kiki e Eloise, il problema tra le due ragazze sembra essere il successo della prima, quasi fosse una colpa, a dispetto delle ambizioni frustrate della seconda. Se presi in chiave sociale o addirittura geopolitica, gli horror Universal mettevano in guardia dal grande pericolo che incombeva sul mondo. Il cinema di Val Lewton è, in un certo senso, più costruttivo e ci pone un’angosciosa domanda. Si era certi di aver fatto –chiunque, in prima persona– tutto il possibile per scongiurare questo pericolo?








mercoledì 23 aprile 2025

L'AGGUATO DEI SOTTOMARINI

1657_L'AGGUATO DEI SOTTOMARINI (Suicide Fleet). Stati Uniti, 1931. Regia di Albert S. Rogell

Negli anni ’30 del secolo scorso c’erano negli Stati Uniti una serie di forze che animavano contemporaneamente l’umore sociale: il paese era uscito vincitore dalla Grande Guerra, sia dal punto di vista bellico che sotto l’aspetto morale, avendo deciso le sorti del conflitto con il proprio provvidenziale intervento. Per tutto il decennio successivo alla guerra, i ruggenti anni Venti, gli americani se l’erano sostanzialmente spassata; ma nel 1931, anno di uscita de L’agguato dei sottomarini, ci si trovava ancora sbalzati nel pieno della Grande Depressione. Da una parte c’era quindi la voglia di affermare la propria leadership mondiale, e di continuare ad assaporare il benessere raggiunto e goduto a lungo, d’altra bisognava fare i conti con una situazione non certo rosea. Tutto questo si può tirare in ballo per provare a comprendere com’è che possa venire in mente, ad Hollywood, di organizzare un film come il citato L’agguato dei sottomarini. Il lungometraggio di Albert S. Rogell prevede infatti l’impiego di sommergibili, navi da guerra e velieri in gran quantità per quella che è, in fin dei conti, una commedia, seppur con una serie di differenti venature che la percorrono. Quasi che, in una tale situazione di emergenza sociale, si ricorra perfino alle forze militari e quindi istituzionali della nazione, per finanziare o comunque avere il pieno appoggio e dare man forte e fiducia anche al cinema nel tentativo di far ripartire moralmente il paese. Si diceva della struttura curiosa del film, che è una commedia ma con un corredo di scene di azioni belliche sul mare di prim’ordine. Innanzitutto, anche perché è la traccia con cui attacca la pellicola, c’è un’importante trama sentimentale con una giovanissima ma già superlativa Ginger Rogers, nei panni di Sally, che tiene il centro di una contesa romantica in quel di Coney Island. I tre pretendenti sono l’aitante Baltimore (Billy Boyd), e la coppia di spalle Dutch (Robert Armstrong) e Skeets (James Gleason) che servono, in questo ambito, ad ostacolare il primo nel suo tentativo di conquistare Sally. Presto i componenti del nostro terzetto, proprio per guadagnare prestigio agli occhi della ragazza, si arruolano in marina, visto che gli Stati Uniti si sono uniti alla bagarre nella Prima Guerra Mondiale. In modo un po’ brusco, a questo punto, la traccia sentimentale è lasciata da parte mentre vi è uno sfoggio quasi documentaristico dell’attività di una nave da guerra di inizio secolo. 

La trama bellica vede gli americani scoprire che un veliero battente bandiera norvegese è in realtà una nave tedesca che funge da supporto ai sommergibili: scoperto l’inganno gli alleati tenderanno una trappola ai nemici a cui si ispira appunto il titolo italiano. Notevole, come detto, il dispiego di imbarcazioni per la realizzazione del film: in totale la marina americana mise a disposizione una decina di navi da guerra, mentre dei due velieri, USS Indiana e l’USS Bohemia, quest’ultima venne addirittura affondata nella battaglia finale dai tre sottomarini americani che interpretavano gli U-Boot tedeschi. Le scene delle battaglie navali sono di notevole efficacia, infatti, perché furono realizzate in modo fin troppo realistico: per cominciare, l’incendio che l’equipaggio tedesco, camuffato da norvegese, appicca sul veliero per distruggere le prove e i codici segreti di criptografia, sul set sfuggì al controllo e dovette intervenire la USS Noa, un cacciatorpediniere della Marina, per spegnere le fiamme. Nel racconto filmico gli americani, una volta che il veliero norvegese si era autoaffondato, camuffano a loro volta una loro vecchia imbarcazione per trarre in inganno i sommergibili nemici. Naturalmente a bordo della nave finiscono i nostri tre personaggi, con Baltimore, sottoufficiale di bordo sulla USS Destroyer, a cui viene affidato il comando della spedizione. Il roboante finale arriva dopo una buona sequenza pregna di suspense, con un primo incontro tra il veliero ora condotto dagli americani su cui salgono i capitani di ben due sommergibili tedeschi, l’U-170 e l’U-165. Ad interpretare il ruolo del capitano del veliero, non è Baltimora ma Dutch, che se la cava col tedesco: sebbene non abbia idea su cosa vertessero i dialoghi e i piani dei suoi interlocutori, deve cercare di prendere tempo per dar modo alla flotta americana di intervenire. Una missione pericolosa, certo, non a caso il titolo originale del film è Suicide Fleet; tuttavia Dutch sembra riuscire a cavarsela, se non che si presenta sulla scena un terzo sommergibile, l’U-200. L’attenzione alla denominazione dei sottomarini non è un vezzo perché proprio dalla sigla si può capire come l’ultimo arrivato sia lo stesso sommergibile che si era visto nelle fasi iniziali del film, quando il veliero in azione era ancora l’originale tedesco camuffato da norvegese. Ma questo significa che il comandante dell’U-200 conosce il vero capitano del finto mercantile norvegese e non sarà possibile ingannarlo spacciando Dutch in queste vesti. La situazione, infatti, precipita e il veliero si trova di conseguenza in acque non cattive, cattivissime! In qualche modo, alla fin fine, i nostri tre protagonisti se la cavano anche perché c’è nientemeno che Ginger Rogers che aspetta a Coney Island per il lieto fine romantico con Baltimora. Ma, la divina Ginger ci perdonerà se stavolta la chiusura la dedichiamo alla USS Bohemia: pare che l’addetto agli effetti speciali, Harry Redmond, preparò con cura le cariche a bordo del veliero per uno spettacolare affondamento, innescato da comandi elettrici a distanza. Naturalmente il veliero era deserto, quando uno dei primissimi colpi dell’U-170 colpì erroneamente gli esplosivi preparati per la grande esplosione che venne così anticipata, seppur non privata minimamente della sua efficacia. Purtroppo la scena fu fatale alla gloriosa USS Bohemia, del resto era la sua fine prevista ma, per una star del suo calibro, era un magnifico tre alberi, si può ben dire che perlomeno fu un’uscita di scena col botto.


Ginger Rogers 






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lunedì 21 aprile 2025

UKRAINIAN SHERIFFS

1656_UKRAINIAN SHERIFFS . Ucraina, Lettonia, Germania 2015. Regia di Roman Bondarchuk

Non è un film semplice, Ukrainian Sheriffs di Roman Bondarchuk, ma non perché ci sia qualcosa di complicato da capire; quello che sfugge, allo spettatore estraneo al microcosmo ripreso dal regista ucraino, è se ci sia, effettivamente, qualcosa da capire. Che si sia di fronte ad uno spaccato della realtà rurale dell’Ucraina sudorientale, d’accordo, è evidente, ma ci sono alcuni dettagli che, forse, andrebbero conosciuti, per assaporare meglio la situazione mostrata. Prima di riportare commenti che corroborano quest’impressione, che suona effettivamente critica, è però giusto tributare i meriti all’opera di Roman Bondarchuk, dal momento che Ukrainian Sheriffs è senza alcun dubbio un film interessante. Il documentario ha vinto ben due premi, il Premio Speciale della Giuria all’International Documentary Film Festival di Amsterdam e il Mayor of Gdynia al Millenium Docs Against Gravity, in Polonia, a testimonianza della qualità tecnico artistica del lavoro di Bondarchuk. Tuttavia, come scrisse Anna Yakutenko sul Kyiv Post, troppe cose vengono date per scontate e risultano quindi difficili da decifrare alcuni passaggi: “Il film mostra gli sceriffi che consegnano i documenti di chiamata (alle armi, NdA), raccolgono aiuti umanitari per i soldati ucraini e tengono un discorso ispiratore dedicato al Giorno della Vittoria il 9 maggio. Ma lo spettatore non ha mai un’idea di quale sia l’atteggiamento dei normali abitanti del villaggio nei confronti della guerra, o se cambi o si evolva durante il conflitto. Un altro forte svantaggio del film è che alcune scene potrebbero creare confusione per un pubblico straniero che non ha familiarità con le tradizioni della vita dei villaggi ucraini. Inoltre, il brusco finale del film ha lasciato alcune persone presenti alla proiezione a grattarsi la testa e a chiedersi se fosse il momento di applaudire”. Ma non solo. Il film di Bondarchuk è ambientato a Stara Zburjivka, un minuscolo villaggio a nord della Crimea, dove l’unica carica che sembra avere una qualche forma di ufficialità è il sindaco, Viktor Marunyak; questo rischia, per la verità, di essere un commento un po’ ingrato nei confronti dell’uomo che, in più di un’occasione, mostra di avere un rispetto formale, oltre che concreto, per il suo ruolo. Tuttavia è innegabile che Stara Zburjivka sia quanto di più lontano ci possa essere, o almeno quasi, dalla burocrazia della nostra realtà. E qui cominciano gli equivoci: perché Ukranian Sheriffs, come ben evidenziato dal titolo, è incentrato sugli sceriffi del paesino. Eppure, il loro ruolo non è poi così chiaro, di sicuro non è argomentato a dovere da Bondarchuk nel suo film. Fino al 2015, in Ucraina, l’unica forza di polizia era la Militsiya, un’istituzione che risaliva all’epoca sovietica e che, storicamente, era stata una forza di repressione più che d’ordine. 

Con l’indipendenza le cose erano cambiate poco, e la Militsiya continuava ad essere percepita dalla popolazione come qualcosa da temere mentre, nel resto d’Europa, la sua fama di forza di polizia più corrotta del continente, non accennava a diminuire. A Stara Zburjivka, considerato l’isolamento del villaggio e gli scarsi affari che si potevano imbastire, i poliziotti si vedevano ben raramente; in ogni caso, grosso modo mentre Bondarchuk girava il suo documentario per le sterrate stradine del paese, la Militsiya veniva sciolta. Dopo i fatti di Euromaidan, nel luglio del 2015, con il giuramento di 2000 agenti, venne istituita una nuova forza di polizia, denominata Politsiya, sebbene è evidente che prima che questi poliziotti si siano fatti vedere dalle parti di Stara Zburrjika, sia occorso del tempo. Questo è quindi lo scenario in cui si trova ad operare il sindaco Marunyak e, per cercare di tenere un minimo di ordine, ricorre alla nomina di due sceriffi, l’anziano Viktor Kryvoborodko e il massiccio Volodymyr Rudkovsky. Viktor e Volodymyr, che girano su una scassata Lada Classica gialla, sono quindi formalmente i protagonisti del documentario e, perlomeno in alcuni atteggiamenti, ricordano i personaggi di certi film americani, ma è davvero giusto un’impressione. I problemi che devono affrontare sono di natura del tutto peculiare: ad esempio, c’è un anziano signore che in inverno ha ospitato un senzatetto e questi, dopo alcune divergenze, ha danneggiato il portone dell’appartamento. Il padrone di casa si è quindi trattenuto il passaporto del vagabondo e i due sceriffi riescono ad accomodare la situazione trovando un artigiano per riparare il danno in modo che i documenti vengano restituiti al legittimo proprietario. Nella loro attività quotidiana, gli sceriffi tengono particolarmente sott’occhio Kolya, un mezzo criminale sempre ubriaco che picchia la moglie e mangia i cani dei vicini, convinto che quest’ultima attività lo preservi dalla tubercolosi. Ma, forse, la situazione più assurda capita al sindaco Marunyak che deve ascoltare per l’ennesima volta la denuncia di una donna convinta che il vicino abbia liberato un anaconda nel suo capanno per la legna. Spesso, Ukrainian Sheriffs è indicato come un ibrido tra il documentario e la commedia nera, ma va detto che l’umorismo non è particolarmente evidenziato dalla regia, per cui si ritorna ai limiti dell’opera denunciati all’inizio, ovvero un film che non sfrutta tutte le sue potenzialità. L’uomo di guardia all’inquietante torre d’avvistamento, è forse l’elemento che rappresenta meglio il documentario di Bondarchuk: ha l’aspetto di un personaggio di un film di Quentin Tarantino, e si trova in una situazione perfetta perché succeda qualcosa di interessante. È in un luogo pericoloso di suo, data l’altezza e la precaria struttura; inoltre, da quella visuale, può scorgere qualsiasi cosa succeda nei dintorni con anticipo e, come detto, la Crimea non è distante e, di conseguenza, i venti di guerra spirano già forti su Stara Zburrjika. Eppure, quando è di scena il guardiano, non succede sostanzialmente niente. Quello che ci lascia tanto il guardiano nella torre che tutto quanto Ukrainian Sheriffs è una sensazione di attesa, di pericolo imminente, di un qualcosa che possa accadere da un momento all’altro. Ma anche il dubbio che non accada mai. 


sabato 19 aprile 2025

EUROMAIDAN: ROUGH CUT

1655_EUROMAIDAN: ROUGH CUT . Ucraina, 2014. Regia di autori vari

Proiettato al Festival Internazionale del Film Documentario dei Diritti umani di Kyiv quasi immediatamente dopo la chiusura delle proteste di Piazza Indipendenza, Euromaidan – Rough Cut è il frutto di un lavoro collettivo direttamente dal campo di battaglia –è proprio il caso di dirlo– da parte di dieci giovani registi ucraini. Il titolo dell’opera, oltre a far riferimento al nome con cui è altrimenti nota la Rivoluzione della Dignità Ucraina, lascia intendere che il film sia un prodotto grezzo, privo di un vero e proprio montaggio definitivo. In effetti l’impressione che lascia Euromaidan – Rough Cut è un po’ quella ma, sembra evidente anche dalle tempistiche ravvicinate tra eventi e presentazione dell’opera al citato Festival, è probabilmente una sorta di effetto collaterale quasi ricercato dagli autori. Ai quali non interessa presentare un prodotto raffinato quanto piuttosto un resoconto brutale dei fatti tanto quanto furono brutali gli scontri di piazza.

Le scene –realizzate, tra gli altri, da Roman Bondarchuk, Roman Liubyl e Volodymyr Tykhyy– sono prese direttamente dal cuore degli scontri, filmando la terribile escalation della violenza. Come detto, il montaggio di Bondarchuk assembla sommariamente i vari filmati e l’impatto violento delle immagini finisce per travolgere anche lo spettatore che può sperare di raccapezzarsi solamente grazie all’ausilio delle didascalie.

Naturalmente il coraggio e la volontà del collettivo di registi è da plaudire, senza se e senza ma, tuttavia va tenuto conto che si tratta di una tipica produzione militante. Del resto, il timore era che le autorità potessero insabbiare i fatti o comunque darne una lettura distorta a piacimento. Poi, visto come sono andate le cose, con la fuga del presidente Janukovyč e il cambio al potere a Kyiv, e il pericolo è stato scongiurato.

Tuttavia rimangono i punti di vista contrapposti: secondo i nazionalisti Euromaidan è stata una rivoluzione, secondo i filorussi un colpo di stato. Se dare velocemente notizia di quanto accaduto, sostituendo o affiancando i media delegati abitualmente all’informazione d’attualità, era lo scopo di Euromaidan – Rough Cut, la missione è compiuta. Per lo spettatore il film è altresì utile come strumento per farsi un’opinione sebbene vada tenuto bene a mente che, proprio per il suo essere palesemente schierato, per quanto sia un’opera che arrivi dal cuore vivo dei fatti, da solo non è sufficiente. Tuttavia questo non è affatto un limite perché, per comprendere bene qualcosa, occorrono più punti di osservazione diversi tra loro. Per i fatti di Piazza Indipendenza Euromaidan – Rough Cut è certamente uno di questi. 





giovedì 17 aprile 2025

ACID - DELIRIO DEI SENSI

1654_ACID - DELIRIO DEI SENSI . Italia, 1968. Regia di Giuseppe Scotese 

Secondo lo stesso Scotese, Acid – Delirio dei sensi fu il primo lungometraggio europeo ad occuparsi di questo potente stupefacente, e il film ebbe anche delle noie con un’interpellanza parlamentare. A detta del regista, secondo questi esponenti politici italiani, il film rischiava unicamente di fare una inutile e dannosa pubblicità ad un fenomeno che, al momento, non era presente nel nostro paese e nemmeno sarebbe mai sorto. Il film venne bocciato anche dalla censura, almeno in prima istanza. Scotese, rilasciò un’ampia dichiarazione per giustificare il proprio operato, svolto “con la collaborazione di scienziati di notorietà mondiale” [La censura boccia (in prima istanza) «Acid – Delirio dei sensi», L’Unità, domenica 17 dicembre 1967, pagina 6]. Tra questi studiosi, spicca il nome di Albert Hofmann, il chimico che per primo sintetizzò e sperimentò –su sé stesso– l’LSD [dall’intervista pubblicata su: Daniele Aramu, Apocalisse domani, Nocturno Book nr.9 – Mondorama, Nocturno Edizioni, Milano, pagina 30]. Tuttavia il risultato finale, almeno artisticamente, non fu all’altezza delle aspettative, con un montaggio che lascia più di qualche perplessità e con Scotese stesso che definì il film, in seguito, lapidariamente, “un aborto!” [Ibidem].
Scotese, tuttavia, godeva di una stampa non particolarmente ostile, almeno se paragonata ad altri autori di Mondo movie. Movimento «hippy», marijuana, LSD, diventano materia di film anche per noi. Dopo Il sesso degli angeli ed Escalation, ecco Acid – delirio dei sensi del regista Giuseppe Scotese (di cui è annunciato un documentario-inchiesta sulla fame del mondo, Il pane amaro), che tratta del problema degli allucinogeni in America con tono obiettivo, ispirandosi ai risultati d’un reportage condotto dalla televisione di New York negli ambienti dei trafficanti e dei consumatori. La ricostruzione, autentica per quanto riguarda gli «esterni», è viceversa più o meno inventata nei suoi episodi esemplificativi, dalla somma dei quali dovrebbe uscire (ma è difficile giungere a tanto sullo schermo) una spiegazione insieme fisiologica e sociologica dell’inquietante fenomeno. In effetti i «casi» raccontati dal film sfumano nel generico di un’«inquietudine» e di una correlativa «evasione» quali ci son state sempre: l’esempio della scrittrice che per dimenticare il suo infelice amore per un negro (infelice non per motivi razzistici) prende la droga, sa troppo di romanzo perché possa inquadrarsi nell’attualità del problema. Anche negli altri esempi, come quello dell’idillio della giovane giornalista col gangster, la buona intenzione di spiegare l’uso della droga come una rivolta contro la civiltà del benessere materiale, si perde nel frastaglio psicologico di un fatto privato. Meglio è riuscito il film nel tentativo di rivelarci il segreto della droga in sé, ossia di rappresentare attraverso le immagini quello che prova un consumatore di allucinogeni. Anche qui restiamo nell’approssimazione (e non così avanzata e geniale quale si ebbe in Chappaqua del giovane Conrad Rooks); ma il ricorso a filtri colorati e alla sdoppiatura e frantumazione delle immagini, non si risolve sempre in mero tecnicismo, apre qualche spiraglio attraverso il promesso «delirio dei sensi». Come non si potrebbe dubitare dell'impegno «civile» con cui il regista ha trattato il tema, serietà che spicca soprattutto nell'incorniciatura documentaria delle sequenze girate dal vero e delle interviste con medici e psichiatri. Janet Tillet, Annabella Andreoli, Stephen Forsyth, gli interpreti” [l.p., Gli allucinogeni in America, La Stampa, anno 102, nr.90, domenica 14 aprile 1968, pagina 9]. 

La recensione risulta, ad essere onesti, persino troppo lusinghiera, per il volonteroso ma irrisolto film di Scotese. Così come anche questa: Incerto nel tono, tra documentaristico e romanzesco, Acid – Delirio dei sensi annoda diverse storie di giovani americani dediti all'uso dello LSD: tutte, bisogna dirlo, a fine non lieto, benché i medici intervistati all’inizio del film si dimostrino piuttosto cauti nel valutare eli effetti del fenomeno, largamente diffuso oltre Oceano (si calcolano a due milioni i nuovi tossicomani). Giuseppe Scotese, il regista, ci aveva dato anni or sono una pregevole inchiesta cinematografica, Le città proibite, e ne ha pronta un’altra eccellente, Il pane amaro, sul problema della fame nel mondo. Con Acid – Delirio dei sensi egli ha fatto un passo falso, e ce ne dispiace, perché il punto di partenza non mancava d'interesse. Ma la ricostruzione «in studio» di vicende pur forse desunte dalla realtà, e un atteggiamento genericamente moralistico, infirmano in grave misura la qualità del risultato. Tra gli attori professionisti, si salva forse la nostra Annabella Andreoli. che ha un viso sensibile ed espressivo” [Acid – Delirio dei sensi, L’Unità, domenica 28 aprile 1968, pagina 16]. In effetti, se l’idea alla base poteva anche essere valida, la scelta della massiccia ricostruzione delle storie private dei protagonisti, non è poi supportata da un’adeguata messa in scena. Se la ricostruzione artefatta, in un documentario, è accettabile –da un punto di vista della credibilità scenica, lasciando stare ogni altra contestazione concettuale di questa pratica– se limitata a poche sequenze estemporanee, che rievocano appunto una ripresa dal vero e non pianificata, nel momento in cui ci si spinge oltre, occorre attrezzarsi a dovere. Oggi questo tipo di produzioni sono definite docufiction, e, sebbene neppure queste, in genere, brillino per le interpretazioni degli attori o la complessiva confezione formale, proprio una messa in scena adeguatamente credibile –quella tipica dei film di finzione, insomma– dovrebbe essere il requisito indispensabile. Tra gli interpreti di Acid – Delirio dei sensi si può citare la stuzzicante e sconosciuta Federica Sachs, che, nel film, interpreta Ursula, un personaggio spregevole seppur seducente. Forse proprio la connotazione negativa agevola l’improvvisata attrice che, in ogni caso, se la cava egregiamente aiutata anche dal physique du rôle. Scotese e Gianpaolo Santini, direttore della fotografia, in materia di riprese sapevano indubbiamente il fatto loro, tuttavia la scelta di visualizzare attraverso stratagemmi tecnici gli effetti psichedelici dell’LSD era un’impresa ardua e non si può dire che sia stata felicemente superata.   


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martedì 15 aprile 2025

LE CITTA' PROIBITE

1653_LE CITTA' PROIBITE . Italia, 1963. Regia di Giuseppe Scotese 

Prima che regista, Scotese era viaggiatore incallito: se per America di notte aveva peregrinato per il Nuovo Continente per un anno intero, per Le città proibite raddoppiò il tempo speso a spostarsi da un capo all’altro del mondo. E riguardo al suo essere cineasta, i suoi ideali erano elevati e certo non propriamente in linea con le caratteristiche intrinseche dei Mondo movie. “Oggi per il cinema è tempo di verità” confidò, infatti, ad un giornalista di Stampa sera in quell’autunno del 1963. Nell’articolo in questione, è poi illustrata un’interessante fase di realizzazione del documentario, il passaggio che colpì maggiormente la critica, ambientato nel quartiere delle prostitute di Bombay, in India. “Per questo egli, circa due anni fa, è partito con una troupe ridottissima alla ricerca dell’inconsueto, di ciò che la civiltà ha spesso vergogna di mostrare e tiene gelosamente e colpevolmente nascosto. Come il quartiere indiano in cui vivono migliaia di prostitute con i loro figli concepiti senza amore negli squallidi buchi che le autorità civili han voluto munire di inferriate. Sono quasi delle sepolte vive. Scotese fu allontanato più volte dal luogo, dalla locale polizia, con la sua cinepresa, il parco lampade e tutto il necessario per girare. Dovette riprendere qualche scorcio impressionante della vita orrenda di quelle povere disgraziate, con una 16 mm professionale, tenuta seminascosta dall’operatore Gianpaolo Santini”. [p. z., Due anni in giro per il mondo alla ricerca delle «Città Proibite», Stampa sera, anno 95, n.220, giovedì 19 – venerdì 20 settembre 1963, pagina 11]. La capacità di Scotese si manifestò anche nella scelta di utilizzare una pellicola ultrasensibile, in modo che, nella livida luce dell’alba, potessero rimane meglio impressi i volti smunti, rassegnati, sofferenti, della dolente umanità che giaceva inerte sui marciapiedi delle strade di Bombay. Il regista marchigiano, sempre disponibile al confronto, presentava così il suo film: “Che senso ha questo nostro mondo moderno? Lo abbiamo chiesto alla dolcezza dei popoli semplici, all’esperienza di quelli civili, ai popoli padroni, ai popoli servi, alle donne dei miliardari, a quelle di strada. Abbiamo percorso centomila chilometri alla ricerca dell’autentico, del reale volto delle città e degli uomini, quello di cui meno si parla” [p. z., Due anni in giro per il mondo alla ricerca delle «Città Proibite», Stampa sera, anno 95, n.220, giovedì 19 – venerdì 20 settembre 1963, pagina 11]. La critica, quando se ne occupò, riconobbe i nobili intenti di Scotese oltre all’indubbia capacità artistica: “Nel gran numero di prodotti analoghi, Le città proibite si distingue per una evidente volontà demistificatrice: se i luoghi presi di mira non sono nuovi –non sempre, almeno– allo schermo, piuttosto nuovo è lo spirito che informa la scelta delle immagini, il loro accostamento per affinità o per contrasto. Questo viaggio cinematografico ci conduce dai tradizionali quartieri del vizio di Londra, Parigi, Istanbul, Tokio, Las Vegas, alle cittadelle del denaro, alle capitali della finanza che si annidano nel cuore delle maggiori metropoli di occidente: mostra la favolosa ricchezza e la miseria estrema. II regista Giuseppe Scotese, i suoi collaboratori, gli autori del commento parlato, fanno un serio sforzo per esprimere, su quanto l'obiettivo capta, non giudizi moralistici, ma considerazioni umanamente aperte ed illuminate. Naturalmente vi sono diverse concessioni allo spettacolo, nel senso stretto della parola: ripetute volte, il gusto dell'inchiesta dal vivo è sopraffatto da un sapore meno genuino, intriso di artificioso e di preordinato. 

Ma non mancano le sequenze di qualità: prime fra tutte, quelle che aprono il sipario sull'infernale strada delle prostitute di Bombay: un aspetto tremendo, sconvolgente, del nostro mondo diviso. Notevoli, per l’identica ragione, le scene di Hong Kong: esistenze degradate, ai limiti dell’animalità, così lontane dalle colorate figurazioni delle agenzie turistiche. Ed ecco, anche, il rovescio del quadro: la faccia sorridente di Cuba liberata, vigile nella difesa della sua rivoluzione, ma pronta sempre a manifestare un gioioso, straripante, sentimento della vita. Tra i momenti di carattere folcloristico, fanno spicco poi le danze cerimoniali degli Aztechi, così come i cupi riti dei negri di Haiti. Il film è a colori: maggiormente incisivo, si direbbe, proprio là dove l’operatore ha lavorato quasi di frodo, carpendo autentici segreti”. [ag. Sa., Le prime: Le città proibite, L’Unità, venerdì 13 settembre 1963, pagina 7]. In quest’altro esempio, la scelta differente d’approccio di Scotese, rispetto a Jacopetti, è citata apertamente: “Le città proibite, ovvero quelle dove ci sia del marcio, variamente dissimulato. I molti realizzatori del film, che reca la firma di Giuseppe Scotese, non hanno proseguito l’assunto con l’accanimento che ci avrebbe messo Jacopetti; ma d’altra parte non sono rimasti alla superficie. Le città proibite mette fuori a tratti (basterebbero le sequenze sulle prostitute di Bombay e in generale sulla miseria dell'India) un autentico pungiglione di cinema etnologico; e soltanto per amore di cassetta ha purtroppo inserito, in un severo contesto che illumina la dolorosa ineguaglianza delle sorti umane e sconcertanti aspetti della nostra, diciamo così, civiltà, riempitivi di maniera e consueti spogliarelli, ai quali la lustra allegorica (come in quello dell’uomo «nella gabbia del desiderio») complica, ma non allevia la sconcezza. Lo spettatore tolga da questo pittoresco vagabondaggio per il mondo –Londra, Parigi, Istanbul, Greenwich Village, Virginia City, Las Vegas, Bombay, Haiti, Giamaica, Cuba, New York, Tokio eccetera– le cose veramente valide (per esempio, il «turismo organizzato» di Giamaica, persin capace di abbattere la barriera razziale), gusti il commento quando non è retorico, la bellezza delle immagini a colori; e il resto condoni ai fati commerciali di un «genere» anche troppo fortunato” [Sullo schermo, un documentario italiano, La Stampa, anno 97, n.237, domenica 6 ottobre 1963, pagina 6]. Nonostante il film sconti i soliti problemi con la veridicità di quanto mostrato, del resto comuni anche ai normali documentari, riesce alla lunga ad essere davvero convincente. Per la verità, il commento –opera dello stesso Scotese e letto da Alberto Lupo– ogni tanto scivola nel moralismo; ma, del resto, qual è il confine tra morale e moralismo? Non è semplice, affrontare i temi che angosciano la società senza rischiare, in qualche caso, di andare anche solo leggermente «oltre». E anche riguardo all’approfondimento degli argomenti trattati, che non è certo esaustivo, va tenuto a mente che si tratta di un film, un’opera destinata alla divulgazione di massa. Un lungometraggio destinato alle sale, non è, e non può essere, lo spazio per una seria e dettagliata analisi di dinamiche sociologiche: può semmai stimolare, e Le città proibite lo fa, l’interesse ad approfondire. Dopo qualche passaggio non memorabile tra Londra e Parigi, il film si fa, infatti, via via più interessante. Certo, il segmento narrativo dedicato a Bombay è davvero sconvolgente, come raccontano i recensori dell’epoca, ma anche la descrizione di come la Rivoluzione Cubana reinterpreti a suo modo gli spettacoli nel mitico Tropicana, a L’Avana, vale assolutamente la pena di essere vista. Così come al Giappone è dedicato un momento non banale. In prima istanza, con i lottatori di Sumo, la cosa sembra unicamente un dettaglio folcloristico ma poi la voce di Alberto Lupo ci fornisce alcune considerazioni che fanno riflettere. L’occupazione americana, in seguito alla sconfitta del paese nella Seconda Guerra mondiale, non ha solo sradicato la religione più diffusa, lo shintoismo, ma ha minato l’identità nazionale, tanto che, al tempo, il Giappone viveva ancora una profonda crisi interiore. Restando in linea con i cliché dei Mondo movie, Le città proibite esemplifica tale situazione mostrando come, già ai tempi, nel paese del Sol Levante si fosse persa l’usanza di avere bagni in comune per uomini e donne. Ad introdurre la malizia e il pudore, secondo Scotese, sarebbero stato il puritanesimo occidentale; è andata smarrita, così, l’innocenza in sintonia con la natura che caratterizzava la cultura sessuale nipponica. La colonna sonora, affidata a Marcello Giombini è fondamentale, nel trainare il documentario in questa fase, con il tempo che passa e il rischio di appesantire la visione, in questo genere di operazioni, è dietro l’angolo. Al contrario, Le città proibite entra proprio adesso nel vivo e si rivela, a sorpresa, uno dei migliori Mondo movie in assoluto. Scotese ci porta a Wall Street, sorta di isola nell’isola, se consideriamo il nucleo finanziario di New York all’interno di Manhattan, il cuore della Grande Mela. Di più: la sede della borsa americana è il centro finanziario del mondo, il luogo dove si crea o si disperde la ricchezza del capitalismo.
A far da contrasto, il racconto mostra Aberdeen, una zona nell’area del porto di Hong Kong: l’acqua, al tempo, era stata prosciugata dai rifiuti e dagli escrementi dei poverissimi abitanti, che vivevano miseramente su barche ormai stabilmente all’asciutto, o immerse solo parzialmente nelle scarse acque putride. Un effetto certamente della colonizzazione britannica e, quindi, un prodotto di quello stesso capitalismo di cui si erano viste poco prime le cattedrali in vetro e cemento di Lower Manhattan. Dove il documentario ritorna, per portarci ancora in un posto isolato ed esclusivo, perfino più di Wall Street: un rifugio antiatomico dove alcuni giovani stanno ballando un twist. Qui Giombini si scatena con il brano Atomic Twist, uno dei vertici musicali del documentario, e suggella un passaggio lapidario: tutta la ricchezza del mondo, per rinchiudersi in una scatola di cemento armato sottoterra. Siamo gli sgoccioli, ormai, ma c’è tempo per tre minuti di idillio, uno dei momenti più evocativi dell’intero genere: Atomic Twist sfuma, lo scenario cambia, ora c’è il sole tra le nuvole in cielo, il mare coi delfini, e la voce di Eddie Lund and his Tahitians che attacca Anaa E, meraviglioso pezzo di musica polinesiana che, clamorosamente, non verrà incluso nella Colonna Sonora ufficiale. Come da titolo, il film è stato un viaggio tra Le città proibite: qui, sull’isola in mezzo all’Oceano Pacifico, di divieti non ce n’è, e, forse, suggerisce la voce di Alberto Lupo, questa è la soluzione per i problemi e le angosce del mondo. Un ritorno alla sintonia con la Natura, senza sensi di colpa posticci da scontare, ma vivendo in armonia con il creato. Presto la dolce melodia di Eddie Lund e dei suoi Tahitians finisce, quasi fosse stato solo un sogno, e una musica grave ci ripiomba nella grigia e polemica Londra, storico ombelico del mondo civilizzato secondo il credo vigente. Siamo quasi ai titoli di coda, e, se in qualche passaggio, il commento può essere scivolato nella retorica o nel moralismo, qui Scotese riesce ad essere più calibrato, lasciando la conclusione in sospeso: “E, come sempre, quando un viaggio è finito, abbiamo cominciato a ricordare. Questa è l’immagine che per prima ci è tornata alla mente”. E Atomic Twist riparte a cannone, mentre i ragazzi che ballano nel rifugio antiatomico, sono stavolta visti in un angosciante rallenty, quasi fossero fantasmi di un futuro post disastro nucleare. Un’immagine che stride, con le pretese di un documentario, visto che non può trattarsi di qualcosa di vero, se non è ancora accaduto. Un’illuminante profezia può, però, essere più autentica di uno spento sguardo a ritroso. 
  





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