1608_L'AMANTE DEL PRETE (La faute l'abbé mouret). Francia 1970: Regia di Georges Franju
Dopo Thomas l’imposteur uscito nel 1965, George Franju lavora per
la televisione e ritorna al cinema solo nel 1970. E’ un periodo di pausa
relativamente lungo, cinque anni, ma va considerato che, in precedenza, dal
1959 al 1965 aveva diretto ben sei film, tutti di pregevole fattura. Il film
con cui inaugura gli anni Settanta è L’amante del prete, discutibile
titolo scelto dal distributore italiano quando l’originale La Faute de
l'abbé Mouret rimandava direttamente al romanzo di Emile Zola che,
peraltro, in Italia era stato da sempre presentato con un'altra interpretazione
piuttosto discutibile come Il fallo dell’abate Mouret. C’era, nel
Belpaese, la volontà di stemperare in forma ironica il violento
anticlericalismo del libro di Zola, per cui se alla fine del 1800 si giocava un
po’ col doppio senso della parola fallo in italiano – e
sorprendentemente lo stesso titolo è usato anche per un’edizione del 2019 – per
il film si scelse un anticipo sulle commedie pruriginose che di lì a poco
dilagheranno nello stivale. Alle prese con un mostro sacro come Zola,
Franju si dimostra abbastanza fedele al testo d’origine, ma non riesce del
tutto ad essere convincente. Il film si può suddividere in tre tronconi: la
prima parte presenta personaggi e situazioni. Siamo nel sud della Francia, ad Les
Artaud, uno squallido paese di campagna, dove la gente vive in miseria e sembra
aver perso la fede nella Chiesa. La messa dell’abate Serge Mouret (Francis
Huster) è praticamente deserta ma il giovane prete è ben disposto verso i suoi
parrocchiani mentre impone a sé stesso digiuni e penitenze. Di pasta totalmente
differente è il più vecchio curato Archanias (André Lacombe) che ama mangiare e
preferisce usare il bastone per il suo gregge, o la bacchetta nel caso del
catechismo ai più piccoli che si diverte a terrorizzare. Vicino al villaggio,
in una tenuta con uno splendido parco, vive isolato da tutti Jeanbernat (Fausto
Tozzi), misantropo e ruspante ateo convinto e mal disposto nei confronti di
chiunque a cominciare da chi indossi la toga. Insieme a lui vive la bellissima
nipote Albine (Gillian Hills), destinata inevitabilmente dalla trama ad avere
una love story con l’unico altro giovane della scena, l’abate Mouret.
Il
pretesto è un mancamento che i forzati digiuni causano a Serge e il conseguente
intervento di suo zio, il dottor Pascal (il bravo Tino Carrato) che porta il
nipote alla residenza di Jeanbernat per farlo riprendere visto che il poverino
ha smarrito la memoria. Per questa prima parte il racconto è stato abbastanza verosimile,
a parte qualche pennellata appena surreale tipica di Franju, come la scena
della vecchia morta e dei suoi eredi che si scannano furiosamente, paragonati
alle galline che, al contrario, sembrano assai più civili nel loro razzolare.
Nel Paradou, il parco dove Serge ozia con Albine, la deriva simbolica prende il
sopravvento, forse uscendo anche un po’ dal seminato. C’è l’albero della
conoscenza, il serpente tentatore, il peccato originale e la vergogna
successiva; forse eccessivamente didascalico, eppure la scena con Albine
sdraiata sotto l’albero mentre mangia le ciliegie direttamente da un ramo che
quasi tocca terra, ha la solita efficacia visiva tipica di Franju. Tuttavia la
fase centrale del film, quella ambientata nel Paradou, sembra eccessivamente
ingombrante rispetto all’economia che ha poi sulla storia: vero è che è qui che
si compie il punto cruciale ma vedendo la bellezza sfavillante di Gillan Hills era
legittimo anche restare nei tempi del colpo di fulmine. Anche perché la trama
non regala novità se non le scene simboliche citate che, in questo modo,
risultano però un po’ troppo prevedibili il che è il peggio che può capitare ad
un narratore d’eccezione come Franju. Infatti il film si riprende quando un
violento temporale fa crollare il muro di cinta del parco e Serge vedendo Les
Artaud sullo sfondo riacquista coscienza di sé, come un avvoltoio compare anche
Archanias che impone all’abate di tornare ai suoi doveri clericali. Il tratto
finale di film è intenso e i nodi giungono al pettine: Serge è tormentato dal
rimorso, Archanias infierisce su di lui, Albine si ripresenta sulla scena ma
l’abate la scaccia in malo modo.
La ragazza, incinta, si lascia morire in mezzo
ai fiori – altra scena bizzarra di Franju, sebbene visivamente meno efficace di
altre – per un ulteriore dramma interiore di Serge, stavolta indubbiamente
meritato. Ipocritamente, il giovane identifica nel ricordo dell’amata la statua
della vergine che può ora adorare senza incorrere nel peccato. La carne, che
l’abate rifiutava anche di mangiare, è peccato ma quello che aspetta il prete è
una vita di rimorso, rinuncia, penitenza: la religione secondo la dottrina
ufficiale della Chiesa. Il paragone con la vita immersa nella natura del Paradu
con Albine, è emblematico. Ma, nonostante la critica del film non risparmi
nemmeno l’uso che la religione ufficiale fa della figura del Cristo, un uomo
adorato ed esaltato nella sua sofferenza, il finale riserva un passaggio, reso
in modo clamoroso da Franju, che rimescola un po’ le carte. Il burbero
Jeanbernat l’aveva promesso al sadico Archanias, che gli avrebbe tagliato le
orecchie, ma sembrava una sparata goliardica. Invece, proprio in chiusura, al
funerale di Albine, Jeanberant si presenta con un coltello e mozza di netto
l’orecchio del parroco, che finisce poi nella fossa. Il vecchio prete fa quindi
la fine di Malco, un servo del sommo sacerdote della religione ebraica, a cui
Pietro, poi fondatore della chiesa cattolica, taglia l’orecchio, almeno stando
ai Vangeli, al momento dell’arresto di Gesù. In quei tempi il potere
ecclesiastico era quello ebraico, a quelli del racconto di Zola, la chiesa
cattolica: ed è a contro quel potere mutaforma che è indirizzato il racconto.
Nella versione filmica di Franju, va riconosciuto, non efficace come la spada
di San Pietro.
Al cinema di Georges Franju Quandolacittàdorme ha dedicato ENIGMA FRANJU - IL CINEMA DI GEORGES FRANJU
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