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giovedì 30 gennaio 2025

E JOHNNY PRESE IL FUCILE

1615_E JOHNNY PRESE IL FUCILE (Jonny got his Gun ). Stati Uniti 1971: Regia di Dalton Trumbo

Dalton Trumbo in ambito cinematografico è più che altro noto per il suo lavoro di scrittura, per i soggetti (due volte premio Oscar, per Vacanze Romane di William Wyler e La più grande corrida di Irving Rapper)  e per le sceneggiature (tra le altre, Spartacus di Stanley Kubrick e La sanguinaria di Joseph H. Lewis). Nella sua carriera realizzerà la regia di un unico film, E Johnny prese il fucile, tratto dal suo omonimo romanzo, curandone anche la sceneggiatura; sarà l’unico lungometraggio diretto da Trumbo, e questo può essere un indice di quanto, quello trattato dall’opera, sia stato un argomento sentito dall’autore. Alla fine, questa palpabile partecipazione emotiva, quasi viscerale, di Trumbo per la sua opera, finisce per essere un po’ anche il limite della stessa. E Johnny prese il fucile è un film sentito, passionale, nel quale l’accusa del regista alla politica militare estremamente palese sin da subito, nello scorrere della pellicola si trasforma in un’interrogazione su questioni più profonde, sull’esistenza di Dio, sulla sacralità o meno della vita, o meglio sulla preservazione a tutti i costi della vita, anche a fronte di situazioni limite come quelle presentate nel lungometraggio. Un tema ardito, come anche la scelta di narrare la storia di un reduce, ormai ridotto ad un tronco umano, immobilizzato sul letto; le divagazioni, i sogni, i ricordi, allentano un po’ la situazione angosciante, ma non distolgono mai del tutto l’attenzione dal punto focale. La scelta registica di filmare in bianco e nero la realtà dell’uomo immobilizzato al letto di ospedale, e la fase onirica o dei ricordi a colori, vuol essere significativa, ma è soprattutto questa seconda parte a patire maggiormente una certa mancanza di nerbo nella narrazione. Questi intermezzi colorati, alla fin fine, sembrano utilizzati per allungare un po’ il brodo, perché un uomo senza faccia, braccia e gambe, immobilizzato in un letto, non è un protagonista che può reggere, almeno non nelle mani di Trumbo, la durata di un lungometraggio. Insomma, se vanno riconosciuti i lodevoli intenti dell’autore, sembra assai più difficile promuovere a pieni voti quanto poi è rimasto impresso sulla pellicola.  




martedì 28 gennaio 2025

GLI INESORABILI

1614_GLI INESORABILI (The Unforgiven). Stati Uniti 1960: Regia di John Huston

John Huston è giustamente considerato uno dei grandi registi americani ma, curiosamente, non è certo un habitué del genere cinematografico americano per eccellenza, il western. Anzi, Gli inesorabili è il suo primo impegno ufficiale come regista di un lungometraggio ambientato alla frontiera: e si tratta di un esordio istrionico almeno quanto il suo autore. Perché per questo suo tardivo approccio al genere che ha sancito il mito del Sogno Americano, Huston addirittura ribalta i presupposti di quel Sentieri selvaggi di John Ford che forse si può ritenere il “western definitivo”. Tratto da un romanzo di Alan Le May, esattamente come Sentieri Selvaggi, The unforgiven ne capovolge infatti le coordinate narrative: se nel film di Ford erano i bianchi a cercare una ragazza rapita ed allevata dagli indiani, qui sono i Kiowas, una tribù delle praterie, a ricercare una giovane ragazza strappata alla propria gente per essere adottata presso una famiglia di coloni. La ragazza in questione è Rachel Zachary (una raggiante Audrey Hepburn), sorellastra di tre giovanotti di cui il maggiore è Ben (il granitico Burt Lancaster), della quale lei è invaghita, sebbene non in modo dichiarato. Questa sorta di tresca amorosa, avrà la sua importanza, sebbene in principio appaia un po’ torbida, essendo i due cresciuti come fratello e sorella. Comunque la situazione generale presentata da Huston ci appare senza particolari problemi, con gli Zachary alleati e legati ad una famiglia vicina, i Rawlins (il cui capofamiglia è Zeb, interpretato da Charles Bickford); gli affari come allevatori vanno bene e tutto fila per il meglio. Senonché si presenta sulla scena un vecchio e malandato soldato, forse pazzo o forse no, che, come avesse una sorta di funzione di memoria storica, ricorda o rivela a tutti l’origine di Rachel. La situazione precipita quando arriva il fratello di sangue della ragazza, Lost Bird, in capo ai Kiowas, determinato ad avere indietro la sorella. Sorella su cui si scaglia la comunità, incolpandola di aver causato la morte di un membro della famiglia Rawlins, e addirittura ripudiata, in primis addirittura da Cash (Audie Murphy) uno dei suoi fratellastri, solo per il suo essere di sangue indiano. 

I toni dello spettacolo si alzano e, nello stile eccentrico del regista americano, passa sullo schermo perfino l’impiccagione del vecchio soldato per mano di una donna, ma’ Rawlins furibonda per la perdita del figlio. E’ quindi un film con momenti di grande enfasi dove Huston si diverte a rovesciare i soliti cliché narrativi del west: dei presupposti abbiamo detto, ma va ricordato almeno la scena “simbolica” della vacca sul tetto della fattoria, che in parte è documento storico e in parte è ribaltamento di un’immagine consueta (l’animale sta’ sopra anziché a terra), e nella fase dell’attacco degli indiani fa specie che l’incendio della casa sia, contrariamente al solito, appiccato dagli assediati come sistema difensivo. Attacco indiano che, tra l’altro, è un fiasco colossale per i nativi, con un’intera schiera di guerrieri fatti fuori da un uomo, un ragazzo e due donne. A Huston, evidentemente, gli indiani non interessano e li tratta come mere comparse; a Lost Bird viene concesso qualcosa in più, ossia l’onore di essere sacrificato da Rachel che di fronte alla scelta tra la sua natura e la sua cultura, sceglie quest’ultima. Un confronto tra questi due grandi ascendenti, natura e cultura, è evidenziato anche dalla scena del piano: agli indiani che suonano i loro primitivi strumenti prima della battaglia, gli Zachary rispondono con la madre Matilda (Lilian Gish) che suona Mozart al pianoforte, piazzato per l’occasione nel cortile di casa. Gli indiani sono zittiti a fronte della superiore evoluzione musicale degli assediati; una scena piuttosto surreale, affascinante e certamente anche simbolica. Huston non pare quindi tanto interessato alla questione razziale; il razzismo diffuso tra la comunità dei coloni è vissuto con qualcosa di più che rassegnazione (leggi comprensione) perfino da parte di Rachel. La ragazza sembra quasi d’accordo con il fatto di essere discriminata, e solo l’amore che alla fine sboccerà liberamente con Ben aggirerà il problema. Ecco, su questo il regista sembra non avere dubbi: l’amore è più forte del pregiudizio; il resto, le questioni razziali dal punto di vista sociale e morale come pure le vicende storiche, possono anche venire ribaltate tanto poco rilevante è l’importanza che hanno.

 



Audrey Hepburn 




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domenica 26 gennaio 2025

AMERICA DI NOTTE

1613_AMERICA DI NOTTE . Italia, Francia, Brasile, Argentina 1961: Regia di Giuseppe Maria Scotese e C.A. Souza Barros

Seppure non paragonabile minimamente a quella di Alessandro Blasetti, la carriera cinematografica di Giuseppe Maria Scotese, agli inizi degli anni Sessanta, era già più che rispettabile. Il successo di Europa di notte ispirò Scotese e il suo socio Angelo Faccenna della Ital Caribe per una produzione che si inserisse nella scia del documentario sexy di Blasetti: America di notte. Nella preziosa intervista rilasciata a Daniele Aramu e pubblicata su Nocturno Book – Mondorama [Daniele Aramu, Apocalisse domani, Nocturno Book n.9 – Mondorama, Nocturno Edizioni, Milano pagina 27], Scotese racconta delle particolari condizioni che accompagnarono l’esperienza nelle sale di America di notte, a partire dalla spiacevole concomitanza di uscita con il successivo film di Blasetti, Io amo, tu ami. Il patriarca del cinema italiano, nonostante il successo di Europa di notte, non volle insistere sulla stessa formula, e cercò un approccio diverso, focalizzandosi più che sull’aspetto erotico o sessuale, sul sentimento dell’amore. Il film non ebbe un grande riscontro di pubblico e Scotese, nella citata intervista pubblicata su Mondorama, sembra quasi dispiaciuto che, al contrario, America di notte andò benissimo al botteghino. Quasi che, essere un prodotto simile e nelle sale nello stesso momento, rendesse America di notte in qualche modo responsabile del fallimento di Io amo, tu ami. All’apice del successo, sempre stando alle parole dello stesso regista, America di notte venne tuttavia sequestrato perché, all’interno di uno spettacolo di danza folcloristica ambientato a Rio de Janeiro, si intravvedeva un capezzolo di una delle ballerine, per non più di qualche fotogramma. Curiosamente, lo stesso destino capitò anche a Io amo, tu ami, il film di Blasetti, che fu forzatamente ritirato il 18 aprile a Milano, nonostante il documentario non fosse particolarmente piccante: tuttavia alcune immagini girate in un locale notturno di Londra furono ritenute oscene dalla Procura della Repubblica di Foggia. Questo per dire il clima che si respirava, in quei primissimi anni Sessanta, nello Stivale. 

Per quel che concerne America di notte, alla cui regia collaborò Carlos Alberto de Souza Barros, si può lasciare idealmente parola a Scotese: “Ho girato questo film ben sapendo che il titolo e il genere non sono di mia invenzione, ma negli ultimi anni, visitando le due Americhe, ho visto tanti spettacoli e cose interessanti ed ho pensato che valesse la pena di raccontarle. Mi sono soffermato non soltanto sui balli, le musiche e le attrazioni dei locali notturni da New York a Buenos Aires, ma anche su una certa America che si è spesso trascurato di conoscere. E quest'ultima è un’America incredibile, in cui la tradizione sbuca fuori ad ogni angolo di strada. Cosi se ho visitato Reno e i suoi nights con molte coppie in attesa di divorzio, mi sono anche fermato a lungo a New Orleans, nel vecchio e pittoresco quartiere francese. Sono stato a Virginia City, una città abbandonata che sembra la ricostruzione per un film western, fatta per 50.000 abitanti e ora ridottasi a non più di mille. E mi sono spinto, tra l'altro, fino alla «Boca», il piccolo e vecchio quartiere di Buenos Aires dalle casette dipinte”. [
Gino Barni, Ha narrato in un film le meraviglie dell’America notturna, Stampa sera, anno 93, n. 67, lunedì 20-martedì 21 marzo 1961, pagina 9]. Contrattempi giudiziari a parte, il film convincerà un po’ tutti, dal pubblico alla critica: “Alla miglior tradizione della documentaristica italiana (…) si salda America di notte del regista Giuseppe Maria Scotese, il quale ha felicemente adattato alle due Americhe la stessa formula che è servita a Blasetti per le sue meritamente fortunate «antologie» europee. (…) New York, Chicago, Las Vegas, San Francisco, Nuova Orleans, Trinidad, Cuba, Caracas, Rio de Janeiro, Buenos Aires, sono le tappe di questo viaggio attraverso le frenesie notturne di un intero continente; frenesie che hanno per termini fissi il ballo e lo spogliarello (qui davvero tutto il mondo è paese), ma che, improntandosi di razze, costumi e ambienti diversissimi, e passando dai locali più scalcinati ai più lussuosi, dalle più sofisticate élites alle più chiassose promiscuità, dal jazz al tango, alla samba e alla carioca, danno per forza al film la dilettosa, volubilità del caleidoscopio”. [l. p., America di notte: danze e spogliarelli, La Stampa, anno 95, n. 94, giovedì 20 aprile 1961, pagina 4]. Ci furono anche commenti meno lusinghieri, e tra le cose a lasciare qualche perplessità fu probabilmente il commento, letto dal popolare conduttore televisivo Corrado (al secolo Corrado Mantoni). Indubbiamente fare dell’ironia per un’ora e mezza di filmati grosso modo monotematici non è impresa semplice, in ogni c’è almeno un passaggio che, nel suo essere piuttosto schietto, con passaggi assai poco ‘politicamente corretti’, rende però bene lo spirito dell’intera operazione. Siamo sull’isola di Trinidad, nei Caraibi: “Miramar Night Club, poco lontano dal porto; un locale frequentato dal pubblico di ogni ceto. Trinidad, colonizzata dagli inglesi, è un felice crogiolo delle razze più diverse, favorito dalla politica di immigrazione britannica, e portato facilmente al ‘punto di fusione’, sia dal clima che dall’incalzare di ritmi (musicali, NdA) come questo. Che avranno da dirsi la florida negrotta e il segaligno inglese byroniano? Moltissimo, a quanto pare”. E il segmento filmico prosegue descrivendo pittorescamente altri avventori del locale, prima che Corrado chiuda così il passaggio: “Di che colore verranno fuori i figli? Nessuno se ne preoccupa, in questo paese che è il meno razzista del mondo”.
In definitiva non si tratta certo di un film imprescindibile, tuttavia, soprattutto da un punto di vista musicale, America di notte è sicuramente un’opera godibile e nettamente superiore alla media dei prodotti simili del tempo. 


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venerdì 24 gennaio 2025

UOMINI CONTRO

1612_UOMINI CONTRO . Italia, Jugoslavia 1970: Regia di Francesco Rosi

L’operazione intrapresa da Francesco Rosi con Uomini contro è quantomeno pericolosa se non proprio scorretta. Un film di guerra, in senso classico è, di fatto, un film storico: gli eventi bellici sono infatti quei frangenti della Storia in cui avvengono i cambiamenti epocali. La storia dell’umanità passa per questi snodi e gli storici se ne appassionano non per sadismo o per amore per le battaglie ma perché da quei passaggi si determinano in genere gli sviluppi futuri. Questo per dire che quando ci si approccia ad uno di quei frangenti, ad un momento storico, va fatta una particolare attenzione, siamo di fronte a situazioni, pagate a carissimo prezzo, cruciali anche per un prosieguo che spesso arriva fino ai giorni nostri. E questo è certo il caso di eventi legati alla Prima Guerra Mondiale. Per carità, ciò non significa che non si possa scherzare su questi argomenti, al cinema lo si può fare addirittura in toto con la satira o anche con i film comici. Ma occorre una particolare coerenza: quando si stravolgono i fatti, si deve lasciar chiaramente intendere l’uso di metafore o altri cambiamenti narrativi, perché anche solo il rischiare di essere fraintesi, cioè far passare per verità storica qualcosa che non lo è, significa tradire lo spirito del cinema, oltre che offrire un pessimo servizio culturale in senso civico. Il cinema è finzione, quasi per definizione; esistono i documentari, certo, ma passano comunque per l’obiettivo di una macchina da presa governata da un regista e quindi, quello a cui si assiste, è comunque soggettivo. Certo, usare lo strumento di finzione per eccellenza, il cinema, per raccontare una finzione, può (non necessariamente) produrre arte e quindi verità; l’arte infatti non è mai falsa. Ma se lo si usa per raccontare direttamente una presunta verità, i rischi aumentano esponenzialmente, proprio per la soggettività intrinseca allo strumento cinema. Sofismi? Può essere, ma ci sono esempi, come quello rappresentato da Uomini contro, in cui bisogna preparare bene il terreno prima dell’analisi, perché questi casi si procurano già, sin dalla loro genesi (“il film fu girato in Jugoslavia per l’ostilità riscontrata in Italia”) una sorta di vaccino alle eventuali critiche. 

Che invece, nel caso del film di Rosi, vanno purtroppo fatte. A cominciare dal rapporto con il libro che ha ispirato il soggetto, ovvero Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu. Mario Rigoni Stern, nome che qualcosa significa nell’argomento in questione (basta ricordare il suo romanzo del 1953 Un sergente nella neve?), nella prefazione all’edizione Einaudi ricorda le parole di Lussu ”Uomini contro non è Un anno sull’Altipiano. Un giorno a Roma, dopo aver visto il film con lui e Rosi, mentre lo accompagnavo verso piazza Adriana, mi disse come seguendo un suo pensiero: tu lo sai, in guerra qualche volta abbiamo anche cantato…”. Ma la distanza tra una forma di espressione artistica (il libro) e l’altra (il film) è pienamente legittima e quindi le parole di Lussu servono solo per comprendere come quello di Rosi sia un film sulla Grande Guerra che non parla della Grande Guerra. Che è già una prima contraddizione pericolosa: seppure sia legittimo, in campo artistico, perché prendere un testo preciso che tratta un evento storico se poi non si intende rispettarne lo spirito né dell’uno né, inevitabilmente, dell’altro? Mah. In ogni caso Rosi sa come si fa un film. L’inizio in media res di Uomini contro ne è la dimostrazione. E poi la ricostruzione storica affascinante, l’ambientazione, i dettagli attendibili come l’utilizzo delle corazze Farina, sorta di protezioni in metallo che lasciavano però scoperte gambe e braccia. Perfino l’ottusità del generale Leone (Alain Cuny), forse un po’ enfatizzata sin da subito, rientra comunque nella logica dei film bellici e probabilmente, cosa assai più grave, in quella degli eserciti della realtà storica. Ma, via via che la pellicola scorre, Rosi in quest’ottica carica sempre più, e carica a testa bassa, un po’ i nostri poveri soldati del fronte, mandati spesso al macello, come si vede effettivamente nel film. 

Alla fin fin Leone potrebbe finire per diventare una macchietta degna di una satira o di una striscia a fumetti umoristica (tipo le Sturmtruppen di Bonvi). La caduta dal mulo, il brindisi alla sua morte e, soprattutto, la scena dello spioncino della trincea, che è addirittura degna di un cartone animato della Warner Bros (quelli del coyote, per intenderci). Ma se questa fosse l’interpretazione del film, (smentita, per altro, dal clima del racconto), allora ne verrebbe travolto anche il messaggio politico che, in modo rozzo e schematico (tipico del tempo, per altro), Rosi proclama per mezzo principalmente del tenente Ottolenghi (un Gian Maria Volonté fuori giri, come qualche volta gli è occorso). Qui casca l’asino, anzi il mulo, visto il contesto: o è una farsa, ma diventano farsesche anche le tesi socialiste di Ottolenghi e Santini (Pier Polo Capponi), o è un tentativo più serio, ma la cui già scarsissima credibilità mostrata è ulteriormente smentita dal testimone più importante, Lussu. Purtroppo, la stessa insistenza di Rosi, già nello sviluppo del suo film e senza coinvolgere nell’analisi sue successive dichiarazioni, ci conferma che la figura del regista, la sua enfasi nel promuovere una causa innestata con assenza di inerenza e coerenza ai fatti storici, lo colloca nella stessa situazione del generale Leone del suo film. Tanto l’ufficiale cerca di convincere i suoi sottoposti agli ideali patriottici senza alcuna connessione alla realtà, quanto Rosi fa con le sue estemporanee idee rivoluzionarie nei confronti degli spettatori. Per carità, quelle idee sono in senso generale condivisibili o meno, a seconda del credo politico, ma il punto è che sono del tutto avulse dal contesto dell’opera. A conti fatti gli conveniva la farsa.       


mercoledì 22 gennaio 2025

IL CONFINE

1611_IL CONFINE . Italia 2018: Regia di Carlo Carlei

Sulla base di un soggetto assai ambizioso e ben articolato, Il Confine, produzione televisiva Rai diretta da Carlo Carlei, naviga a lungo sul filo del naufragio ma, con un po’ di sorpresa perlomeno per lo spettatore non assuefatto alla moderna fiction, alla fine riesce ad arrivare in porto. In effetti le caratteristiche tipiche delle produzioni televisive odierne sono lo scoglio più difficile da digerire per chi è abituato ai raffinati stilemi del cinema: ad esempio, il costante utilizzo dell’obiettivo aperto, quasi grandangolare, con la scena sempre completamente messa a fuoco, è assai poco stimolante per l’esercizio del guardare. Viene voglia di distrarsi, guardando una di queste produzioni, magari di focalizzare la propria attenzione su un dettaglio secondario della scena, tanto è sicuramente ben visibile e nitido; non c’è un vero dialogo, in questo senso, tra regia e spettatore. Il regista televisivo si limita a riprendere la scena e se deve seguire un’infermiera che cammina in un corridoio, la sua camera mette a fuoco tutto, compreso i fiori che si vedono fuori dalle finestre. Spesso, si avverte una certa vacuità nella regia, forse anche da parte dell’autore; a lenire questa sensazione probabilmente è dovuta quell’abitudine a muovere in continuazione lo strumento di ripresa, con lenti carrelli laterali che non hanno ragion d’essere se non evitare che l’immagine fissa su una scena possa, per assurdo, turbare lo spettatore. Sono limiti castranti dell’odierna produzione televisiva che difficilmente permettono ad una fiction di essere appetibile per chi, come detto, si è abituato al linguaggio del cinema; semmai adeguati, probabilmente, a chi si è nutrito di reality e telequiz. E, ahimè, Il Confine rientra appieno in questa categoria. Tuttavia, alla lunga, il tema forte della Grande Guerra viene fuori e, sebbene in modo faticoso, dà il suo contributo per salvare la produzione. Certo, per molto tempo la storia sembra fare acqua: si ha infatti l’impressione di guardare una moderna versione, scialba e senza nerbo, dei melodrammi strappalacrime degli anni cinquanta. Ma, eventualmente, questo si rivela essere un pregiudizio del suddetto spettatore: proprio come nei melò di Raffaello Matarazzo, tanto più assurdamente enfatica è la vicenda, quanto poi risulta efficace la risposta emotiva finale. In questo campo gli autori del soggetto sanno il fatto loro ed è soprattutto a queste caratteristiche del racconto che va riconosciuta la funzionalità del film. Intanto è positiva l’idea di ambientare a Trieste la vicenda: una città italiana ma sotto il dominio austriaco all’epoca dei fatti raccontati. Questo permette una prospettiva centrata sull’oggetto del discorso, i territori di lingua italiana da liberare, ovvero il nostro pretesto bellico, ma lo affronta, almeno inizialmente, da una prospettiva diversa, altra rispetta al nostro punto di vista e appunto interna all’Impero Austroungarico. 

La descrizione del cattivo della storia, il barone Von Helfert (Johnannes Brandrup) è un po’ stereotipata sebbene non è necessariamente detto che per questo sia poi così distante da quella di certi ufficiali asburgici del tempo. A livello narrativo questa figura, se rafforza la storia da un punto di vista infantile, con la presenza di un cattivo davvero cattivo, rischia un po’ di banalizzarla ad un piano più smaliziato. Intrigante la composizione del triangolo melodrammatico: c’è un italiano, Bruno Furian (Filippo Scicchitano), un austriaco, Franz Von Helfert (Alan Cappelli Goetz), figlio del barone, e un’ebrea, Emma (Caterina Shulha). Emma e Franz si amano, Bruno ama Emma ma sostanzialmente regge il moccolo. Sul momento la situazione del trio non convince: troppo insulso il ruolo di Bruno che è un bonaccione amico sincero di Franz e, come si usa dire, relegato nell’atroce friend zone da Emma. Intanto i fermenti irredentisti a Trieste sono pronti ad esplodere: Ruggero (Alessandro Sperduti), fratello di Bruno, è uno dei sobillatori della folla e finisce sotto l’attenzione del barone Von Helfert. Allo scoppio della guerra la situazione muta: Ruggero varca il confine per aggiungersi all’esercito italiano mentre Bruno viene arruolato in quello Imperiale e finisce in Galizia a combattere i Russi. Il barone impedisce a Franz di aderire alla causa bellica e questi si consola con Emma, che rimane incinta. Furibondo, il padre del ragazzo lo spedisce a Vienna alla scuola ufficiali bloccandone ogni contatto con la giovane, anche epistolare. Emma sola e senza più notizie dall’amato Franz, si ritrova abbandonata e, col tipico cinismo femminile, si rivolge a Bruno che, in una licenza, la sposa per salvarne l’onore. Ruggero, durante un’incursione è catturato: riconosciuto dal barone in persona come cittadino di Trieste e quindi austroungarico, viene fatto impiccare per tradimento. A questo punto Bruno supera quel confine che dà il titolo al film e si aggiunge all’esercito italiano; Emma e il bambino appena nato lo seguiranno a breve, con la ragazza che si unirà alle crocerossine. 

Come si vede i colpi di scena si susseguono a buon ritmo e, per quanto possano sembrare un tantino azzardati, rientrano nel tenore dell’opera. Le scene di battaglia o della vita in trincea, nonostante lascino a desiderare sotto alcuni aspetti, contribuiscono ad alimentare la verve narrativa: la Prima Guerra Mondiale sui monti italiani ha sempre quel triste eppur magnetico fascino che riesce ad emergere anche nelle rappresentazioni meno efficaci. Tra le note dolenti va segnalata la figura del sottotenente Parenzo (Massimo De Lorenzo) che sembra messo lì in modo posticcio allo scopo infarcire il racconto con qualche citazione colta, e il capitano Ornaghi (Emiliano Coltorti), stereotipo eccessivo dell’ufficiale ottuso. Curiosa la ricostruzione delle vicende in seno al comando militare italiano su cui spicca, in negativo, l’illustre figura del generale Cadorna (Massimo Popolizio) a cui fa da contraltare quella del più saggio generale Capello (Luigi Petrucci). Ma presto la vicenda privata in primo piano si riprende il centro della scena ed è qui che gli autori riescono a vincere una partita fin lì eccessivamente zoppicante. L’incontro tra Bruno e Franz al fronte, prevedibile nel senso positivo e funzionale del termine, la scelta di Emma, il finale tragico, tutto funziona a dovere. I fili della trama sono infatti riannodati tutti, perfino l’essere ebrea di Emma assume un intelligente significato, andando a trovare un collegamento col secondo conflitto mondiale. Non solo la Seconda Guerra Mondiale era figlia delle Prima, come in genere ritenuto, ma avrebbe una deriva tragicamente beffarda. Anche a chi, come Emma, aveva già dato il suo pesante contributo alla causa italiana (l’opera come infermiera di guerra oltre alla vita del marito, Bruno, e del padre di suo figlio, Franz), sarebbe stato chiesto di pagare ancora, stavolta in modo assai più salato. Semplicemente in quanto ebrea.


lunedì 20 gennaio 2025

HOMBRE!

1610_HOMBRE . Stati Uniti 1967: Regia di Martin Ritt

Martin Ritt si cimenta di nuovo con il genere western e per farlo ricorre ancora a Paul Newman, attore con il quale il regista americano aveva già lavorato in cinque precedenti occasioni. Rispetto a Hud il selvaggio e L’oltraggio, le precedenti incursioni nel genere che vedevano impegnato lo stesso duo (regista e attore) questo Hombre! si prende meno rischi, e pur presentando alcune atipicità, rimane, almeno in un certo senso, in un solco più canonico. Uno degli aspetti più stranianti della pellicola è comunque Paul Newman: il bravissimo attore è, per stile e recitazione, abbastanza estraneo al genere Western, nonostante abbia nel curriculum nientemeno che il ruolo di una leggenda del west del calibro di Billy the Kid in Furia selvaggia di Arthur Penn. Ma Newman rimane un attore troppo moderno, troppo attuale per il genere più classico del Cinema: egli è uno dei migliori interpreti della disillusione dal Sogno Americano, ed ha un approccio troppo intriso da quel clima legato al tramonto di quegli ideali che, al contrario, almeno tradizionalmente il Western classico celebra. Ritt prova a girare a suo vantaggio questa marginalità espressa da Newman, ritagliandogli un, in verità ben poco credibile, ruolo da indiano; per la precisione da bianco allevato dagli Apache e poi tornato tra i bianchi. Quindi ben più che un emarginato: un individuo sballottato da una parte e dall’altra, e alla fin fine, relegato sempre ai margini. Newman ne approfitta per sciorinare un’interpretazione tutta battute secche e taglienti, e, nel complesso, i dialoghi sono uno degli assi portanti dell’intera storia. Comunque la vocazione eroica che permea il profondo della figura di Paul Newman attore, e che è alla base della sua tipica scanzonata disillusione, nel finale viene fuori, e, in questo, il film manifesta una sua deriva classica che per tutta la pellicola anche il regista aveva probabilmente cercato di negare. Il tema sociale è infatti più esplicito che in altri film del genere, e la critica alla politica americana nei confronti degli indiani è marcata in modo netto, come fosse un problema contemporaneo e non un elemento storico della vicenda narrata. Ma il sacrificio finale, fatto quasi controvoglia, è comunque un atto di eroismo quasi doppio, viste le premesse, e in questo modo il film concede, se non proprio il lieto fine, almeno un finale epico. Forse non tutte queste buone intenzioni cinematografiche si realizzano pienamente, ma, in definitiva, il film è più che piacevole.   



sabato 18 gennaio 2025

VOLCANO

1609_VOLCANO (Vulcan). Ucraina, Germania 2018: Regia di Roman Bondarchuk

L’inquadratura dall’alto di una pozzanghera, scarsamente illuminata mentre cade una lieve pioggia. No: non stiamo affatto guardando una pozzanghera, perché quell’acqua dev’essere assai profonda, visto che quella che vediamo passare sotto il nostro punto di vista, scorrendo verso l’alto, è una barca. Beh, più che una barca una nave; si muove lentamente verso la parte superiore dello schermo e se ne distinguono perfettamente tutti i minimi particolari al punto che, quasi, non si notano i membri dell’equipaggio indaffarati nelle loro manovre. Solo allora ci si rende conto di quanto è grande questo cargo: è l’ennesima piccola sorpresa con cui Roman Bondarchuk, giovane regista ucraino, si diverte a infarcire i primi quattro minuti scarsi di Volcano, dove, in buona sostanza, non succede niente. Non che nel resto del lungometraggio accadano cose così imprescindibili da conoscere, per la verità, ma il film di Bondarchuk è decisamente interessante, divertente e graffiante, oltre ad essere, a suo modo, rivelatorio. Del resto il regista nato a Kherson ha già mostrato il proprio valore con Euromaidan – Rough cut [Euromaidan – Rough cut, autori vari, 2014] dove ha diretto e coordinato un lavoro collettivo, e, soprattutto con Ukainian Sheriffs [Ukainian Sheriffs, Roman Bondarchuk, 2015]. Volcano segna un significativo cambiamento, nel cinema di Bondarchuk, perché è un film di finzione, nel quale l’autore può dar quindi sfogo alla sottile vena surreale già intravvista nel film degli sceriffi ucraini. Interessante la definizione del recensore di The Guardian: “Questo cumulo di eccentricità rende Volcano il cugino obliquo di Donbass di Sergei Loznitsa”. [Phil Hoad, Recensione di Volcano: l’avventura ucraina prende una piega surreale, The Guardian, pagina web https://www.theguardian.com/film/2021/nov/09/volcano-review-ukrainian-adventure-takes-a-surreal-turn, visitata l’ultima volta il 13 gennaio 2025]. 

Per poterne meglio coglierne la portata, prima di approfondire questa spiazzante deriva del film, è utile prendere giusto qualche coordinata narrativa: Lukas (Serihy Stepansky), funzionario OCSE [Organizzazione per Cooperazione e Sviluppo Economico] nato a Kyiv, rimane sperduto nella steppa della remota periferia di Kherson, nel sud dell’Ucraina. Se già non si trattava di aree particolarmente emancipate, la guerra con la Russia, forse anche la separazione della vicina Crimea, hanno ulteriormente finito per isolare queste desolate lande. Lukas vorrebbe rientrare immediatamente a Kyiv ma una serie di grotteschi contrattempi lo costringono a rimanere nella fatiscente abitazione di Vova (Viktor Zhdanov). L’uomo vive con la giovane e graziosa figlia Marushka (Khrystyna Deylyk) e l’opprimente madre (Tamara Sotsenko) e si mantiene raccogliendo rottami e con una piccola bancarella al mercatino locale. A questo proposito, gustoso l’aneddoto della «colla molecolare» raccontato da Bondarchuk, che evidenzia come il surrealismo non sia tanto una cifra del racconto di finzione ma, piuttosto, dell’ambientazione reale del film. “Due dei nostri attori principali hanno provato la vendita della colla nel bel mezzo del mercato. E i clienti reali hanno iniziato ad avvicinarsi a loro e a chiedere il prezzo. Abbiamo realizzato una scena in cui i passanti casuali hanno comprato quasi tutti gli oggetti di scena. Quando volevamo fare un’altra ripresa e abbiamo chiesto ai clienti di restituire la «colla», la gente è scappata, perché non credeva che si trattasse di un film. Un uomo ha gridato: «Cerco questa colla dal 1995 e non do niente a nessuno!» Dopodiché, l’intera città puzzava di plastica che veniva fusa sui fornelli a gas, secondo le istruzioni sulla confezione, perché si è scoperto che i nostri produttori di oggetti di scena, non trovando la colla vera e propria, avevano usato una plastica come finta colla”. [Intervista VIFF 2018: Roman Bondarchuk, regista di Volcano, dal sito Getreel Movies, pagina web https://getreelmovies.com/viff-2018-interview-volcano-director-roman-bondarchuk/, visitata l’ultima volta il 13 gennaio 2025]. In Volcano c’è la giusta alchimia tra la vena surrealista delle situazioni e il background fortemente realistico, un connubio che funziona alla perfezione sia per la capacità documentaristica di Bondarchuk, sia per il particolare contesto. Dice, a questo proposito ancora il regista: “Un’altra sfida era che volevo che la gente del posto interpretasse personaggi locali. Parlano in modo diverso, si muovono in modo diverso”. [Ibidem]. Come già anticipato nella breve scena iniziale descritta in apertura di questa recensione, non è però così semplice e banale intuire il senso del cinema di Bondarchuk: Volcano non è, insomma, una commedia demenziale che ridicolizza gli abitanti della steppa dell’Ucraina del sud, tutt’altro. Intanto perché il giovane regista è un assoluto maestro nella composizione delle inquadrature, che raccontano la storia parallelamente al classico canovaccio, amplificandone le possibilità. 

Tra le tante belle e intriganti immagini, si può scegliere quella in cui Lukas seduto è ripreso riflesso nello specchio su una mensola o un ripiano, in modo che l’uomo sembri un soprammobile o un’immaginetta. Se ad un primo livello questo indica il suo essere imprigionato in quello sperduto angolo di mondo, in modo più sottile sottolinea l’inutilità che ha un importante funzionario dell’OCSE una volta che venga tolto dalla sua zona di confort. La storia sentimentale tra Lukas e Marushka, che procede in verità in modo assai stentoreo, può sembrare un diversivo per portare aventi la storia nella seconda parte, quando ormai gli ingredienti più sostanziosi sembrano già essere stati profusi nel racconto. In realtà c’è almeno un elemento che non è trascurabile, ovvero quando la ragazza rinfaccia all’uomo di aver incominciato lui il gioco di seduzione. Alle successive avances di Marushka, Lukas, infatti, resistite, adducendo il fatto di essere sposato. La ragazza incassa il momentaneo «due di picche» ma sottolinea come non sia stata lei ad innescare il flirt; il tipico gioco maschile di «tirare il sasso e nascondere la mano» somiglia guarda caso alla strategia di quelle organizzazioni e associazioni –forse come la stessa OCSE?– del mondo occidentale progredito a cui piace studiare, curiosare e indagare come si vive nelle aree meno emancipate ma senza mai effettivamente sporcarsi le mani. Un po’ come si guarda un acquario e, in effetti, Lukas per compiere il suo passo decisivo, posto che l’abbia poi compiuto, finirà in acqua. E Volcano? Siamo sicuri che il film di Bondarchuk non sia altro che uno sguardo divertito alle spalle dei personaggi del racconto? Beh, tanto per cominciare, che il regista sia nativo di Kherson, ovvero di quella stessa regione, è un indizio da non sottovalutare. E poi, com’è che ha definito il film il recensore di The Guardian? «Il cugino obliquo di Donbass». E com’è che questo sguardo sbilenco ci sembra, a suo modo, tanto famigliare? Forse perché, in fondo, sotto i nostri aspetti conformisti, siamo tutti «cugini obliqui». 



Khrystyna Deylyk

giovedì 16 gennaio 2025

L'AMANTE DEL PRETE

 1608_L'AMANTE DEL PRETE (La faute l'abbé mouret). Francia 1970: Regia di Georges Franju

Dopo Thomas l’imposteur uscito nel 1965, George Franju lavora per la televisione e ritorna al cinema solo nel 1970. E’ un periodo di pausa relativamente lungo, cinque anni, ma va considerato che, in precedenza, dal 1959 al 1965 aveva diretto ben sei film, tutti di pregevole fattura. Il film con cui inaugura gli anni Settanta è L’amante del prete, discutibile titolo scelto dal distributore italiano quando l’originale La Faute de l'abbé Mouret rimandava direttamente al romanzo di Emile Zola che, peraltro, in Italia era stato da sempre presentato con un'altra interpretazione piuttosto discutibile come Il fallo dell’abate Mouret. C’era, nel Belpaese, la volontà di stemperare in forma ironica il violento anticlericalismo del libro di Zola, per cui se alla fine del 1800 si giocava un po’ col doppio senso della parola fallo in italiano – e sorprendentemente lo stesso titolo è usato anche per un’edizione del 2019 – per il film si scelse un anticipo sulle commedie pruriginose che di lì a poco dilagheranno nello stivale. Alle prese con un mostro sacro come Zola, Franju si dimostra abbastanza fedele al testo d’origine, ma non riesce del tutto ad essere convincente. Il film si può suddividere in tre tronconi: la prima parte presenta personaggi e situazioni. Siamo nel sud della Francia, ad Les Artaud, uno squallido paese di campagna, dove la gente vive in miseria e sembra aver perso la fede nella Chiesa. La messa dell’abate Serge Mouret (Francis Huster) è praticamente deserta ma il giovane prete è ben disposto verso i suoi parrocchiani mentre impone a sé stesso digiuni e penitenze. Di pasta totalmente differente è il più vecchio curato Archanias (André Lacombe) che ama mangiare e preferisce usare il bastone per il suo gregge, o la bacchetta nel caso del catechismo ai più piccoli che si diverte a terrorizzare. Vicino al villaggio, in una tenuta con uno splendido parco, vive isolato da tutti Jeanbernat (Fausto Tozzi), misantropo e ruspante ateo convinto e mal disposto nei confronti di chiunque a cominciare da chi indossi la toga. Insieme a lui vive la bellissima nipote Albine (Gillian Hills), destinata inevitabilmente dalla trama ad avere una love story con l’unico altro giovane della scena, l’abate Mouret. 

Il pretesto è un mancamento che i forzati digiuni causano a Serge e il conseguente intervento di suo zio, il dottor Pascal (il bravo Tino Carrato) che porta il nipote alla residenza di Jeanbernat per farlo riprendere visto che il poverino ha smarrito la memoria. Per questa prima parte il racconto è stato abbastanza verosimile, a parte qualche pennellata appena surreale tipica di Franju, come la scena della vecchia morta e dei suoi eredi che si scannano furiosamente, paragonati alle galline che, al contrario, sembrano assai più civili nel loro razzolare. Nel Paradou, il parco dove Serge ozia con Albine, la deriva simbolica prende il sopravvento, forse uscendo anche un po’ dal seminato. C’è l’albero della conoscenza, il serpente tentatore, il peccato originale e la vergogna successiva; forse eccessivamente didascalico, eppure la scena con Albine sdraiata sotto l’albero mentre mangia le ciliegie direttamente da un ramo che quasi tocca terra, ha la solita efficacia visiva tipica di Franju. Tuttavia la fase centrale del film, quella ambientata nel Paradou, sembra eccessivamente ingombrante rispetto all’economia che ha poi sulla storia: vero è che è qui che si compie il punto cruciale ma vedendo la bellezza sfavillante di Gillan Hills era legittimo anche restare nei tempi del colpo di fulmine. Anche perché la trama non regala novità se non le scene simboliche citate che, in questo modo, risultano però un po’ troppo prevedibili il che è il peggio che può capitare ad un narratore d’eccezione come Franju. Infatti il film si riprende quando un violento temporale fa crollare il muro di cinta del parco e Serge vedendo Les Artaud sullo sfondo riacquista coscienza di sé, come un avvoltoio compare anche Archanias che impone all’abate di tornare ai suoi doveri clericali. Il tratto finale di film è intenso e i nodi giungono al pettine: Serge è tormentato dal rimorso, Archanias infierisce su di lui, Albine si ripresenta sulla scena ma l’abate la scaccia in malo modo. 

La ragazza, incinta, si lascia morire in mezzo ai fiori – altra scena bizzarra di Franju, sebbene visivamente meno efficace di altre – per un ulteriore dramma interiore di Serge, stavolta indubbiamente meritato. Ipocritamente, il giovane identifica nel ricordo dell’amata la statua della vergine che può ora adorare senza incorrere nel peccato. La carne, che l’abate rifiutava anche di mangiare, è peccato ma quello che aspetta il prete è una vita di rimorso, rinuncia, penitenza: la religione secondo la dottrina ufficiale della Chiesa. Il paragone con la vita immersa nella natura del Paradu con Albine, è emblematico. Ma, nonostante la critica del film non risparmi nemmeno l’uso che la religione ufficiale fa della figura del Cristo, un uomo adorato ed esaltato nella sua sofferenza, il finale riserva un passaggio, reso in modo clamoroso da Franju, che rimescola un po’ le carte. Il burbero Jeanbernat l’aveva promesso al sadico Archanias, che gli avrebbe tagliato le orecchie, ma sembrava una sparata goliardica. Invece, proprio in chiusura, al funerale di Albine, Jeanberant si presenta con un coltello e mozza di netto l’orecchio del parroco, che finisce poi nella fossa. Il vecchio prete fa quindi la fine di Malco, un servo del sommo sacerdote della religione ebraica, a cui Pietro, poi fondatore della chiesa cattolica, taglia l’orecchio, almeno stando ai Vangeli, al momento dell’arresto di Gesù. In quei tempi il potere ecclesiastico era quello ebraico, a quelli del racconto di Zola, la chiesa cattolica: ed è a contro quel potere mutaforma che è indirizzato il racconto. Nella versione filmica di Franju, va riconosciuto, non efficace come la spada di San Pietro. 





Al cinema di Georges Franju Quandolacittàdorme ha dedicato ENIGMA FRANJU - IL CINEMA DI GEORGES FRANJU