1611_IL CONFINE . Italia 2018: Regia di Carlo Carlei

Sulla base di un soggetto assai ambizioso e ben
articolato, Il Confine, produzione televisiva Rai diretta da Carlo
Carlei, naviga a lungo sul filo del naufragio ma, con un po’ di sorpresa
perlomeno per lo spettatore non assuefatto alla moderna fiction, alla fine
riesce ad arrivare in porto. In effetti le caratteristiche tipiche delle
produzioni televisive odierne sono lo scoglio più difficile da digerire per chi
è abituato ai raffinati stilemi del cinema: ad esempio, il costante utilizzo
dell’obiettivo aperto, quasi grandangolare, con la scena sempre
completamente messa a fuoco, è assai poco stimolante per l’esercizio del
guardare. Viene voglia di distrarsi, guardando una di queste produzioni, magari
di focalizzare la propria attenzione su un dettaglio secondario della scena,
tanto è sicuramente ben visibile e nitido; non c’è un vero dialogo, in
questo senso, tra regia e spettatore. Il regista televisivo si limita a
riprendere la scena e se deve seguire un’infermiera che cammina in un
corridoio, la sua camera mette a fuoco tutto, compreso i fiori che si
vedono fuori dalle finestre. Spesso, si avverte una certa vacuità nella regia,
forse anche da parte dell’autore; a lenire questa sensazione probabilmente è
dovuta quell’abitudine a muovere in continuazione lo strumento di ripresa, con
lenti carrelli laterali che non hanno ragion d’essere se non evitare che
l’immagine fissa su una scena possa, per assurdo, turbare lo spettatore.
Sono limiti castranti dell’odierna produzione televisiva che difficilmente
permettono ad una fiction di essere appetibile per chi, come detto, si è
abituato al linguaggio del cinema; semmai adeguati, probabilmente, a chi si è
nutrito di reality e telequiz. E, ahimè, Il Confine rientra appieno in
questa categoria. Tuttavia, alla lunga, il tema forte della Grande Guerra
viene fuori e, sebbene in modo faticoso, dà il suo contributo per salvare la
produzione. Certo, per molto tempo la storia sembra fare acqua: si ha infatti l’impressione
di guardare una moderna versione, scialba e senza nerbo, dei melodrammi
strappalacrime degli anni cinquanta. Ma, eventualmente, questo si rivela essere
un pregiudizio del suddetto spettatore: proprio come nei melò di Raffaello
Matarazzo, tanto più assurdamente enfatica è la vicenda, quanto poi risulta
efficace la risposta emotiva finale. In questo campo gli autori del soggetto
sanno il fatto loro ed è soprattutto a queste caratteristiche del racconto che va
riconosciuta la funzionalità del film. Intanto è positiva l’idea di ambientare
a Trieste la vicenda: una città italiana ma sotto il dominio austriaco
all’epoca dei fatti raccontati. Questo permette una prospettiva centrata
sull’oggetto del discorso, i territori di lingua italiana da liberare,
ovvero il nostro pretesto bellico, ma lo affronta, almeno inizialmente, da una
prospettiva diversa, altra rispetta al nostro punto di vista e
appunto interna all’Impero Austroungarico.

La descrizione del cattivo
della storia, il barone Von Helfert (Johnannes Brandrup) è un po’ stereotipata
sebbene non è necessariamente detto che per questo sia poi così distante da
quella di certi ufficiali asburgici del tempo. A livello narrativo questa
figura, se rafforza la storia da un punto di vista infantile, con la presenza
di un cattivo davvero cattivo, rischia un po’ di banalizzarla ad un piano
più smaliziato. Intrigante la composizione del triangolo melodrammatico: c’è un
italiano, Bruno Furian (Filippo Scicchitano), un austriaco, Franz Von Helfert
(Alan Cappelli Goetz), figlio del barone, e un’ebrea, Emma (Caterina Shulha).
Emma e Franz si amano, Bruno ama Emma ma sostanzialmente regge il moccolo. Sul
momento la situazione del trio non convince: troppo insulso il ruolo di Bruno
che è un bonaccione amico sincero di Franz e, come si usa dire, relegato
nell’atroce friend zone da Emma. Intanto i fermenti irredentisti a
Trieste sono pronti ad esplodere: Ruggero (Alessandro Sperduti), fratello di
Bruno, è uno dei sobillatori della folla e finisce sotto l’attenzione del
barone Von Helfert. Allo scoppio della guerra la situazione muta: Ruggero varca
il confine per aggiungersi all’esercito italiano mentre Bruno viene arruolato in
quello Imperiale e finisce in Galizia a combattere i Russi. Il barone impedisce
a Franz di aderire alla causa bellica e questi si consola con Emma, che rimane
incinta. Furibondo, il padre del ragazzo lo spedisce a Vienna alla scuola
ufficiali bloccandone ogni contatto con la giovane, anche epistolare. Emma sola
e senza più notizie dall’amato Franz, si ritrova abbandonata e, col tipico
cinismo femminile, si rivolge a Bruno che, in una licenza, la sposa per
salvarne l’onore. Ruggero, durante un’incursione è catturato: riconosciuto dal
barone in persona come cittadino di Trieste e quindi austroungarico, viene
fatto impiccare per tradimento. A questo punto Bruno supera quel confine
che dà il titolo al film e si aggiunge all’esercito italiano; Emma e il bambino
appena nato lo seguiranno a breve, con la ragazza che si unirà alle
crocerossine.

Come si vede i colpi di scena si susseguono a buon ritmo e, per
quanto possano sembrare un tantino azzardati, rientrano nel tenore dell’opera.
Le scene di battaglia o della vita in trincea, nonostante lascino a desiderare sotto
alcuni aspetti, contribuiscono ad alimentare la verve narrativa: la Prima
Guerra Mondiale sui monti italiani ha sempre quel triste eppur magnetico
fascino che riesce ad emergere anche nelle rappresentazioni meno efficaci. Tra
le note dolenti va segnalata la figura del sottotenente Parenzo (Massimo De
Lorenzo) che sembra messo lì in modo posticcio allo scopo infarcire il racconto
con qualche citazione colta, e il capitano Ornaghi (Emiliano Coltorti), stereotipo
eccessivo dell’ufficiale ottuso. Curiosa la ricostruzione delle vicende in seno
al comando militare italiano su cui spicca, in negativo, l’illustre figura del
generale Cadorna (Massimo Popolizio) a cui fa da contraltare quella del più
saggio generale Capello (Luigi Petrucci). Ma presto la vicenda privata in primo
piano si riprende il centro della scena ed è qui che gli autori riescono a
vincere una partita fin lì eccessivamente zoppicante. L’incontro tra Bruno e
Franz al fronte, prevedibile nel senso positivo e funzionale del termine, la
scelta di Emma, il finale tragico, tutto funziona a dovere. I fili della trama
sono infatti riannodati tutti, perfino l’essere ebrea di Emma assume un
intelligente significato, andando a trovare un collegamento col secondo
conflitto mondiale. Non solo la Seconda Guerra Mondiale era figlia delle
Prima, come in genere ritenuto, ma avrebbe una deriva tragicamente beffarda.
Anche a chi, come Emma, aveva già dato il suo pesante contributo alla causa
italiana (l’opera come infermiera di guerra oltre alla vita del marito, Bruno,
e del padre di suo figlio, Franz), sarebbe stato chiesto di pagare ancora,
stavolta in modo assai più salato. Semplicemente in quanto ebrea.

