879_UNA PISTOLA PER CENTO BARE . Italia, Spagna 1968; Regia di Umberto Lenzi.
Il western non è stato certo un genere prediletto da Umberto Lenzi e questo Una pistola per cento bare mostra, in effetti, qualche debolezza di troppo. Niente di drammatico, sia chiaro, come spaghetti western del periodo si colloca dignitosamente nella media di un filone che ha avuto punte eccelse ma anche scadimenti clamorosi. Con Lenzi questo non può accadere perché è un regista di valore e, soprattutto, ha un forte senso della narrazione. Il piacevole e coinvolgente ritmo di questa storia, incentrata sulla vendetta da parte di Jim (Peter Lee Lawrence, poco incisivo) contro gli assassini della sua famiglia, permette di sorvolare sulle tante (troppe) ingenuità narrative che, al tempo, i western all’italiana si concedevano. Per fare un esempio: davvero improbabile la naturalezza con cui il protagonista passa dal non aver mai visto una pistola, in quanto testimone di Geova, a diventare il più veloce tiratore di una storia affollata di pistoleri. Ma ce ne sono anche altre, di queste superficialità, e di altro tipo, come la facilità con cui i banditi di Corbett (Piero Lulli), in mezzo al nulla del deserto del Texas, riescono a trovare carri conestoga e abbigliamenti per inscenare una carovana di mormoni la sera per la mattina. Questi passaggi grossolani della trama non inficiano il godimento della vicenda che, però, in questo modo, non acquista mai spessore, finendo per essere un mero svolgimento dei fatti salienti. Che è vero, è la caratteristica propria degli spaghetti western fin dai capostipiti di Sergio Leone ma il patriarca del genere trattava questo aspetto, questa essenzialità, con una consapevolezza che troppo spesso gli epigoni non hanno.
La nota più caratteristica del film, oltre alla citata buona scorrevolezza, è la figura di Jim, il protagonista, che gli eventi trasformano in modo radicale, con un’evoluzione certamente discutibile. Ad inizio della storia lo troviamo ribelle due volte: è un confederato, e quindi si è ribellato all’Unione, ma rifiuta di combattere per via del suo credo religioso, finendo così ai lavori forzati. Quando torna a casa, a guerra civile finita, trova la famiglia sterminata: decide così di comprarsi una pistola e vendicarsi. Pare sia l’unica eccezione che voglia fare, tanto che, per tutta la storia, non berrà whiskey ma acqua, sempre per i succitati motivi religiosi. Nel finale si convincerà a cedere anche su questo punto e si farà il bicchierino della staffa, prima di lasciare a Marjorie (Gloria Osuna) un due di picche, sentimentalmente parlando, andandosene per un finale comunque abbastanza d’effetto. Essendo un western all’italiana può anche essere normale vedere il protagonista ammazzare senza batter ciglio a sangue freddo ma, su questi passaggi, Lenzi scade, purtroppo, nel banale; come troppi suoi colleghi, del resto. L’idea di aumentare il tasso di violenza per stilizzare la narrazione è valida, ma si deve stare attenti a non banalizzarla, la violenza; diversamente si ottiene l’effetto opposto: ovvero diventa noiosa, stucchevole. Per nostra fortuna c’è anche una trama gialla, questa sì nelle corde del regista, con la figura di Douglas (John Ireland, ahilui) che salta la barricata più volte, peraltro in linea con la coerenza narrativa generale dell’opera. Interessante, e gestito con buona sapienza narrativa, l’intermezzo dei pazzi rinchiusi nella prigione del paese, visto che il manicomio era andato bruciato da uno degli stessi ospiti, afflitto da piromania.
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