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sabato 2 marzo 2019

LA RAGAZZA DEL SECOLO

311_LA RAGAZZA DEL SECOLO (It should happen to You). Stati Uniti 1954;  Regia di George Cukor.

Chissà se George Cukor avesse messo in conto che il suo La ragazza del secolo potesse divenire una sorta di trattato sociopolitico perfettamente calzante anche per l’Italia, oltre sessant’anni dopo. Per la verità, per quanto mascherato da innocente commedia con venature sentimentali, il film di Cukor lasciava già al tempo intendere graffianti osservazioni alla società americana dell’epoca. Ma, forse, sarebbe sorpreso lui stesso di vedere come il suo film descrive in modo lampante il punto focale dell’attuale situazione politico sociale del belpaese: l’impressione, per essere onesti, è che la condizione dell’Italia sia talmente grottesca da ricalcare perfettamente quella descritta da Cukor in chiave ironico/sarcastica. Nel film una ragazza comune, Gladys Glover (Judy Holliday), decide di farsi pubblicità su di un enorme cartellone pubblicitario. Solo nome e cognome, null’altro; del resto la ragazza non sa fare niente, non ha alcuna particolare attitudine o qualità. Tralasciando le peripezie narrative per cui la nostra giovane imprenditrice di se stessa riesce a tappezzare la città con altri cartelloni simili, a fare da volano alla notorietà della nostra eroina concorrono semplicemente due fattori. Il primo è la visibilità del nome; il secondo il mistero sul fatto che non si sa cosa significhi questa campagna pubblicitaria. Il risultato? Gladys Glover diviene famosissima ed è chiamata a fare da testimonial pubblicitaria nelle più disparate sedi, da quelle per aziende private ad enti pubblici. Come si vede, la critica di Cukor è assai pesante, e se graffia, lo fa molto in profondità colpendo a sangue le nostre più profonde convinzioni sociali. 
In sostanza, se si vuole andare al vero nocciolo della questione del film (e, ahinoi, della nostra struttura sociale), dobbiamo ammettere che quella che viene messa alla berlina di un sistema che funziona assai poco e male, è la sua natura democratica. In democrazia quello che conta è avere consenso; e il film mostra (e la nostra realtà quotidiana dimostra e conferma) come per avere popolarità non serva essere capaci di fare alcunché e neppure essere al centro di una particolare strategia comunicativa. Se il meccanismo che permette di accettare che una persona senza qualità specifiche possa assurgere alla notorietà non è certo di difficile comprensione (in definitiva è un cortocircuito, è famosa perché è famosa) il secondo aspetto sembra cogliere una delle più tipiche inclinazioni del modo di pensare italiano: se non si comprende la strategia alla base di una campagna pubblicitaria (ad esempio, come nel film, perché di fatto non c’è), si ha il campo libero di fare qualsiasi ipotesi. L’assenza di elementi non sconfessa o nemmeno mette in dubbio una tesi, ma permette di formulare le più disparate teorie: per la verità, nel film, la gente si chiede cosa ci sia dietro alla campagna pubblicitaria di Gladys Glover, ma non indugia più di tanto in tal senso.


Fosse una vicenda ambientata in Italia, ci sarebbero state ipotesi e teorie, più o meno complottiste, da farne almeno una trilogia. Cukor, da buon americano, sembra più interessato all’aspetto commerciale dello spunto, rispetto a quello sociale o politico, per quanto lo conoscesse perfettamente. “L’idea di poter diventare una celebrità senza essere capace di fare niente, è una nozione molto importante. La pubblicità può realmente fare questo. Oggi così si fanno i Presidenti degli Stati Uniti”, queste le sue parole sull’argomento [Gavin Lambert On Cukor; Rizzoli New York, 2000]. Il film è divertente, anche se la Holliday è un po’ un mattone da sopportare (anche per via del doppiaggio terribile di Rina Morelli) e davvero non si capisce come Jack Lemmon, nei panni del suo vicino di casa (e qui alla sua prima prova sul grande schermo) si possa innamorare di una simile ragazza.
Forse perché l’amore è più irrazionale della democrazia. 




Judy Holliday






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