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venerdì 22 marzo 2019

L'AMARO CASO DELLA BARONESSA DI CARINI

321_L'AMARO CASO DELLA BARONESSA DI CARINI Italia, 1975;  Regia di Daniele D'Anza.

Episodio esemplare nella grande tradizione RAI degli sceneggiati degli anni settanta, L’amaro caso della baronessa di Carini è un’opera di rara bellezza anche in un contesto, quello di suddette produzioni televisive della rete nazionale, che sfornava abitualmente prodotti di qualità. Le quattro puntate, per un totale complessivo di 259 minuti, sono avvincenti e si lasciano facilmente divorare dallo spettatore. Il racconto filmato ha in generale un ottimo ritmo, con un finale di grande emozione, ma tutti e quattro capitoli sono ben cadenzati. Il primo intriga, il secondo mette un po’ di legna in cascina, ma prima che possa appesantirsi la trama, decolla nel terzo segmento, fino al rush finale dell’ultima puntata: notevole partitura ritmica della narrazione. Da un punto di vista visivo, la fotografia non è certo paragonabile a quella di una produzione cinematografica, ma è a colori (sebbene la RAI al tempo trasmettesse ancora in bianco e nero) e nel complesso il regista muove il suo obiettivo con buona personalità, con movimenti di macchina anche di rilievo, in genere poco comuni alle opere di finzione televisiva. La trama, da un’idea di Daniele D’Anza e Lucio Mandarà, è strutturata su due livelli, quello che trae spunto dalle vicende storiche del 1500, quando la baronessa di Carini venne uccisa dal padre, e quello completamente frutto di fantasia ambientato ai primi del 1800. L’impostazione è perfettamente funzionale sotto molti aspetti: ovviamente gli sviluppi dei due intrecci procedono quasi in contemporanea, con la traccia più recente che, sempre più pericolosamente, ricalca quella tragica i cui esiti finali sono già conosciuti. 

Inoltre, se il ripescare una storia del XVI secolo può aiutare per comprendere alcune dinamiche le cui eredità sono ancora diffuse ai giorni nostri, la scelta di ambientare la vicenda più recente comunque in un’epoca come l’ottocento, piuttosto che nel presente, permette di mantenere inalterato, nel complesso del film, il fascino dell’atmosfera ‘storica’. E appunto il periodo storico in cui si muove il protagonista Luca Corbara (Ugo Pagliai, impeccabile) è poi emblematico per significare la ritrosia tipicamente siciliana (e di riflesso italiana) di vedersi privati di qualunque forma di privilegio, anche quello palesemente più iniquo. L’avvento di una Costituzione, nella storia raccontata, avrebbe tolto dalle mani dei nobili il potere di vita e di morte sul feudo: la fine del medioevo in senso pratico e concreto del termine.

Considerato che gli avvenimenti dell'investigazione sono ambientati nel 1812, ovvero in epoca non così remota, fa una certa impressione assistere al comportamento da ‘sovrano assoluto’ del barone don Mariano D’Agrò, interpretato in modo magistrale dal grande Adolfo Celi, che sembra quasi sguazzare nella parte dell’aristocratico. A suo fianco risplende ed illumina via via sempre più la scena la meravigliosa Janet Agren nei panni della baronessa donna Laura; ma tutto il cast è di grandissimo livello, da una giovanissima Enrica Bonaccorti (Cristina, personaggio subdolo ma interessantissimo), a Guido Leontini (il viscido notaio) fino all’ottimo Vittorio Mezzogiorno (in un doppio ruolo che esalta il suo aspetto ambiguo e poco rassicurante). Gli intrighi, che si snodano, come detto, su un due piani contemporaneamente, sono un po’ complicati da seguire, e in fin dei conti la scelta di inserire un personaggio/narratore (il bravo Paolo Stoppa, nel film don Ippolito) che aiuta lo spettatore a dipanare la matassa è un altro colpo messo a segno dal regista Daniele D’Anza. 
Indovinata, tra l’altro, la connotazione umoristica conferita al suddetto don Ippolito, che vive in una casa in mezzo ad animali domestici da fattoria e, ad un certo punto, porta una sorta di lutto per la dipartita di Angela, la sua gallina preferita; lutto che fa però scontare al povero Luca, che è costretto a non dormire nell’abituale letto, dove era solito appollaiarsi anche il volatile, ma deve posare il materasso per terra. Questi siparietti comici sono un altro tocco sublime degli autori, e servono in modo assolutamente necessario e perfettamente funzionale, a stemperare di tanto in tanto la pesante atmosfera, frutto delle losche trame della vicenda ma soprattutto del formidabile, anche se angosciante, commento musicale. 

Perché quello sonoro, con la lugubre ma affascinante Ballata di Carini, (testo di Otello Profazio, musiche di Romolo Grano, cantata da Luigi Proietti) è uno degli assoluti  punti di forza dell’opera. Il passaggio musicale diventa strepitoso quando supporta la scena clou, che torna ripetutamente nell’opera, una volta a puntata, con continui aggiornamenti e sovrapposizioni dei personaggi della trama più recente a quelli ispirati al poemetto che riprende l’antico fatto di sangue. E a proposito della scena dell’antico delitto, tra i colpi geniali degli autori, di un’opera che non ha praticamente punti deboli, va sicuramente ricordata l’impronta della mano insanguinata lasciata dalla povera baronessa sul muro in quella circostanza e che, si dice, negli anniversari veda rinvigorirsi il colore. Un colpo ad effetto tipico del cinema dell’orrore, che qui funziona alla grande come elemento di forte valenza evocativa.

Il finale, sconvolgente per il suo aderire alle più fosche previsioni di don Ippolito, (che si era paragonato a Cassandra), spiazza certamente oggi più di allora, perché può sembrare incredibile che una produzione televisiva anteponesse i criteri artistici a quelli più conformisti che impongono il lieto fine per questo tipo di lavori. Ma il finale così amaro, del resto anticipato sin dal titolo dell’opera, ha una potenza tale che è difficile ignorare come la sua valenza superi i confini della finzione raccontata. Gli anni settanta erano nella loro fase più acuta, più critica, e il panorama doveva sembrare davvero fosco se alla televisione di stato permettevano che un importante produzione di prima serata mettesse in scena una storia nella quale per i personaggi positivi non vi fosse alcun futuro. Non c’è speranza, infatti, per Luca Corbara, per donna Laura, per il loro amore (illegittimo, d’accordo, ma giustificato nel finale dalla storia tra don Mariano e Cristina), per l’amicizia (Luca tradito dall’amico), per la giustizia (considerato l’esproprio del feudo di Daina Sturi), per la fiducia nelle istituzioni (la forte adesione dei paesani di Carini ai Beati Paoli, una società clandestina, una sorta di stato nello stato che ricorda altre e peggiori forme di associazione segrete tipicamente italiane). Erano davvero duri gli anni settanta in cui vide la luce questo film, non a caso definiti anche anni di piombo: ma i nostri problemi di allora, l’ingiustizia sociale, il sopruso, la violenza innata e diffusa, non erano legati a quei tempi. O almeno, guardando L’amaro caso della baronessa di Carini, ci si fa l’idea che siano tradizioni ben radicate nel paese e, stando a come finisce la storia di D’Anza e Mandarà, per nulla indebolite dall’evoluzione in chiave moderna dello stato. Nessuna speranza, insomma, profetizzavano gli autori, manco fossero, anche loro, novelle Cassandre; ma è difficile, a distanza di oltre quarant’anni, dargli torto.


Enrica Bonaccorti




Janet Agren







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