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martedì 26 marzo 2019

SEI SOLO, AGENTE VINCENT

323_SEI SOLO, AGENTE VINCENT (L.A. Takedown)Stati Uniti, 1989;  Regia di Michael Mann.

Il talento è una cosa difficile da tenere nascosta; specialmente al cinema, visto che il lavoro dell’autore viene spiattellato sullo schermo. In questo caso, in Sei solo, agente Vincent (titolo italiano, tanto per cambiare, piuttosto arduo da connettere col testo filmico), lo schermo previsto era quello televisivo, perché il lavoro di Michael Mann doveva essere una sorta di episodio pilota di un progetto seriale poi non andato in porto. Di questo aspetto rimangono alcune tracce: l’importanza data a Los Angeles dal punto di vista visivo, con le ripetute panoramiche aeree sulla città, o la colonna sonora rockeggiante sulle note di L.A. woman dei Doors nell’interpretazione di Billy Idol. Si tratta di classici elementi delle fiction televisive dell’epoca (e non solo), che per altro non disturbano la fruizione dell’opera in se stessa. Perché in fin della fiera Sei solo, agente Vincent funziona molto bene come poliziesco, nel quale, tra l’altro, a detta dello stesso regista, Mann prese le misure per girare, sei anni dopo, il remake The heat-La sfida, capolavoro con Rober De Niro e Al Pacino. Però è pericoloso scomodare quel formidabile esempio di cinema degli anni novanta, in quanto è chiaro che Sei solo, agente Vincent ne uscirebbe con le ossa rotte sotto tutti gli aspetti, primo fra tutti il confronto d’attori. Per quanto Scott Plank (Vincent Hanna, il poliziotto) e Alex McArthur  (Patrick McLaren, il rapinatore), facciano la loro parte, è evidente che si tratta di due attori di medio cabotaggio, buoni per una fiction o poco più. E tipici di un prodotto televisivo (e nemmeno dei migliori, ad onor del vero) sono anche i dialoghi, in particolar modo quelli sul versante sentimentale, davvero troppo didascalici per essere credibili. 

E non si pensi che, in un film d’azione, questo sia un limite relativo: i rapporti con le rispettive compagne, Lilyan (Ely Pouget), fidanzata di Vincent, e Eady (Laura Harrington) la ragazza che incontra Patrick, fanno parte di un gioco di specchi narrativo da non sottovalutare. Perché Mann, anche in un prodotto come questo, in genere non così raffinato da questo punto di vista, utilizza un linguaggio narrativo strutturato, con una serie di rimandi e contro-rimandi che rendono perfettamente comprensibile il rapporto speculare tra i due uomini al centro della storia. Innanzitutto i due personaggi sembrano entrambi uscire direttamente dalla serie TV Miami Vice (di cui Mann era il produttore esecutivo) e, curiosamente, sembra proprio il cattivo, Patrick, ad assomigliare maggiormente a Don Johnson, che nel telefilm era uno dei detective protagonisti. 

Nella loro vita professionale, tutte e due sono i leader del proprio gruppo di lavoro: determinati, efficienti, carismatici, a volte anche sbrigativi. Inoltre, entrambi hanno alle spalle un’organizzazione che lavora per loro, e qui va detto che è sorprendente la struttura di quella malavitosa. La simmetria diventa speculare quando i due personaggi si scambiano ripetutamente i ruoli tra spia e spiato, e quest’idea si rafforza negli sviluppi sentimentali. All’inizio della storia Vincent è felicemente accasato (il film comincia con lui e Lilyan che fanno l’amore), mentre Patrick non ha la compagna; poi le situazioni si rovesciano. Infine, poco prima del finale, quasi in un montaggio alternato, osserviamo la ricomposizione della coppia dei buoni, mentre il cattivo rimane di nuovo da solo. 

C’è anche un punto di incrocio, tra queste due storie intrecciate: quando Patrick e Vincent si incontrano casualmente al parcheggio, si riconoscono e si bevono un  caffè insieme, parlando tranquillamente della loro situazione di avversari. Si, avversari e non nemici, perché c’è una sorta di rispetto reciproco per le capacità altrui; ma avversari mortali, sia chiaro. Al di là delle lodevoli e intuibili intenzioni, Mann non riesce comunque, bisogna ammetterlo, a dare spessore a questi suoi personaggi. Scott Plank non è troppo credibile quando recita al poliziotto coscienzioso; meglio sembra andare a Alex McArthur, che deve rendere l’idea di un uomo reso duro e spietato dalle circostanze, ma il risultato è comunque troppo semplicistico. Pur con questi presupposti, si intuisce che il poliziotto è un tipo tosto ma onesto e il bandito è un criminale che però ha un suo codice d’onore: in fondo non c’è tutta questa differenza, come appunto esplicitato visivamente dalla specularità della struttura del film. O forse c’è ma, sembra dirci il regista, a difesa del fuorilegge va riconosciuto che se si incappa nel bivio sbagliato, poi la vita di porta su una cattiva strada dalla quale è impossibile (o quasi) fare marcia indietro. E in ogni caso c’è differenza tra l’essere un criminale come Patrick o come Waingro (Xander Berkeley): Mann dimostra non solo di apprezzare la coerenza (pur nell’essere un bandito) del primo nei confronti del secondo, ma anche la superiore efficienza e professionalità (anche se riferite ad attività illecite) . Il regista sembra infatti mettere in dubbio l’importanza di un quadro morale per valutare la situazione generale, come se questo fosse unicamente una convenzione. 

Ci sono i buoni e ci sono i cattivi, d’accordo, ma in fondo possono essere interpretati in modo molto simile, e quindi potrebbe essere facile cadere in errore. In questo senso si può cogliere la presenza, all’interno degli agenti della squadra di Vincent, di Bosko, interpretato da quel Michael Rooker che è stato battezzato cinematograficamente dal lapidario e folgorante Henry pioggia di sangue (1986, regia di John McNaughton) che dell’assenza di una struttura morale al suo interno faceva il suo sconvolgente punto di forza. E’ un peccato, perciò, che un film tanto ricco di spunti si perda poi nella banalità dei dialoghi sentimentali o in abbozzi poco approfonditi della trama (come la pista delle prostitute ammazzate).  
Però, che passaggio, quello nel finale: dopo una violentissima sparatoria, ferito in modo letale, Patrick confida al rivale che Eady l’ha lasciato, e sta quindi morendo solo come un cane. Ma Vincent non può permetterlo, e allora si ferma con lui, in un momento di grande solidarietà umana; il quadro morale c’è eccome, nel cinema di Michael Mann, soltanto non è quello conformista a cui siamo abituati. L’unica morale che merita rispetto la fa il valore degli uomini e, in qualche caso, c’è qualcosa di morale in loro anche se stanno dalla parte sbagliata. 



Ely Pouget







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