Translate

domenica 18 dicembre 2022

HO INCONTRATO UN'OMBRA

1183_HO INCONTRATO UN'OMBRA Italia 1974; Regia di Daniele D'Anza.

Capolavoro assoluto in tema di sceneggiati Rai, Ho incontrato un’ombra è un’opera che ancora oggi si distingue per i tanti suoi meriti. Per la verità in rete si può leggere qualche recensione che sottolinea la presunta lentezza del racconto televisivo di Daniele D’Anza: è la solita storia, si accusa un testo di avere un ritmo inadeguato quando le carenze sono semmai di chi guarda, evidentemente assuefatto alla frenesia moderna. Ho incontrato un’ombra non è un film lento più di quanto non lo debba essere. E non è affatto vero, altra osservazione che si imputa allo sceneggiato, che le prime due puntate siano interlocutorie se non addirittura noiose: è proprio nella prima parte del film che si può invece gustare appieno il senso di mistero che l’eccellente soggetto (di Enzo Ungari, Mimmo Rafele e Gianni Amico) ci appioppa senza darci alcuna idea di quale spiegazione ci possa essere. Del resto anche Biagio Proietti in sede di sceneggiatura fa un lavoro perfetto e naturalmente D’Anza in regia completa l’opera, per un film tecnicamente sopraffino. Prova ne è che, ad esempio, il motivo per cui venga scelta la casa di Philippe Dussart (Giancarlo Zanetti, molto convincente) per inscenare il ricatto è lasciato senza spiegazione esplicita: se ci fosse una qualche debolezza nello scritto, considerato che si tratta di un giallo, qui la storia potrebbe scivolare. Invece regge alla grande anche senza che questo dettaglio venga chiarito; che poi, a rigor di logica gialla, la spiegazione c’è anche se viene lasciata alla capacità deduttiva dello spettatore. Infatti a proposito di Dussart viene ripetuto fino alla noia che è un tipo abitudinario, metodico, puntualissimo: certo, apparentemente questo serve per avere un personaggio ordinario che venga sconvolto dall’incontro con l’ombra citata nel titolo. 

Ma è chiaro anche che l’abitazione di un tipo del genere, di cui si può essere certi dei suoi spostamenti – soprattutto dei momenti in cui lascia libera la sua casa – è l’ideale per chi ha bisogno di un luogo per organizzare appuntamenti loschi senza avere poi risvolti compromettenti. In ogni caso, lo spaesamento di Dussart è simile al nostro: le misteriose tracce di incontri avvenuti in casa sua durante la sua assenza lo inquietano più per l’incomprensibilità della cosa che per un effettivo pericolo; e lo spettatore si trova nel medesimo stato d’animo. E questa sensazione di curiosità mista a disagio è la cosa migliore del film o almeno la seconda, se consideriamo il fascino della protagonista femminile, la citata ombra: Beba Loncar è Silvia, una presenza dapprima fugace, poi sempre più centrale e in definitiva davvero indimenticabile. 

La Loncar all’epoca era abbastanza nota alla televisione italiana ma tutto sommato aveva ancora qualcosa di inusuale che le conferiva un fascino che nelle sue prime apparizioni nel film la rende irresistibile e che anche quando prende possesso definitivamente della ribalta non viene certo meno. A contendergli la scena, in ambito femminile, è Laura Belli nel ruolo di Catherine, la fidanzata di Dussard che si vede soppiantata dall’apparizione della bionda rivale. La Belli in avvio è davvero sensuale, snella e naturalmente elegante ma, nel corso del racconto, comprensibilmente, perde un po’ si smalto: a ben vedere è forse anche questa una qualità che l’attrice dimostra di avere, smorzando in modo adeguato la propria carica attrattiva. Per chiudere con il cast, tra gli interpreti vanno citati almeno Renato De Carmine nel ruolo del commissario Vian, sornione, e Corrado Gaipa nei sudaticci panni di Buache, viscido ricettatore che mette disagio solo a vederlo nella sua stanza riscaldata oltre ogni limite. In uno sceneggiato che non ha punti deboli un posto di rilievo è occupato dalla musica, di cui A blue shadow (di Romolo Grano e Berto Pisano) è il pezzo trainante e memorabile. 
Tornando alla storia, dal terzo episodio si comincia a comprendere almeno la natura del mistero che affligge Dussard: non è che si capisca ovviamente subito tutto, ma perlomeno si può inquadrare meglio la questione. Infatti, come il protagonista, attratto dalla figura di Silvia, anche lo spettatore si era probabilmente concentrato sul ruolo della donna all’interno della casa di Dussard; in realtà la ragazza non ne aveva sostanzialmente alcuno di così inerente, se non essere ospitata dall’uomo che la stava ricattando. La pista nazista – Silvia è figlia di un gerarca tedesco sopravvissuto che vive in Svizzera in incognito – si fa poi via via più prevedibile fino al finale che peraltro alza i toni drammatici mantenendo grazie a questo vivo l’interesse. Detto di questi aspetti, che sono certamente quelli più succulenti da un punto di vista emotivo, ci sono altri elementi di natura più riflessiva, nell’opera, che stupiscono per profondità in quello che, a prima vista, sembra un semplice prodotto d’evasione televisivo. Il racconto è ambientato a Ginevra, in Svizzera; e già questo non è un dettaglio casuale. Nel 1974 la Confederazione Elvetica era una sorta di paradiso fiscale, assai più di quanto non lo sia ancora oggi, e il mondo in cui si muovono i nostri personaggi è esattamente quello. Dussard e Christine lavorano infatti in un’agenzia che si occupa di vendere ville di lusso. Il tema della casa, come abbiamo visto, è quindi centrale alla storia: l’abitazione di proprietà, negli anni Settanta, era divenuto il principale status symbol italiano, e dava sicurezza e prestigio. La Svizzera rappresentava per gli industriali del nord Italia, l’élite della nostra società, una sorta di casa rafforzata, una casa nella casa, un rifugio inviolabile e inattaccabile. 

Il personaggio Dussard è appunto svizzero, d’accordo, ma interpreta il tipico borghese di successo modello di riferimento anche nel nostro paese; la giovane con cui flirta in principio, la Christine a cui presta le sembianze Laura Belli, pur essendo svizzera pure lei, si presenta come la classica bella ragazza italiana. I riferimenti fatti subito in avvio, alle forze eversive, alle organizzazioni di estrema destra che operano nella colpevole indifferenza generale, sembrano centrare poco invece sarà proprio Duclos (Bruno Cattaneo), che le aveva introdotte nel racconto, a mettere sulla pista giusta Christine e quindi il commissario Vian. Ho incontrato un’ombra è insolitamente cupo e angosciante, anche per essere uno sceneggiato Rai dell’epoca, soprattutto per il desolante finale. Certo, il paese era in un periodo non certo facile, tra la contestazione sessantottina e gli anni di piombo, ma accanto a questi fenomeni la borghesia riusciva comunque a celebrare i propri riti – la casa di lusso, le auto costose, le feste – provando a convincere tutta quanta la società che le cose stavano andando per il meglio. Se nel decennio successivo ci sarebbe riuscita, in quegli anni Settanta, anche per via di opere come Ho incontrato un’ombra, trovò certamente qualche difficoltà in più. Persino la casa, il bene rifugio per eccellenza, il luogo dell’intimità, la personale roccaforte di ognuno, diveniva un posto ostile – quasi ironico lo slogan creato da Dussard nel film “non siate estranei in casa vostra”. Che, nell’economia complessiva del film, significa di non estraniarsi del tutto da ciò che ci accade proprio in casa nostra, fossero anche realtà scomode come le citate forze eversive. E considerato anche che molte scene della Ginevra di Ho incontrato un’ombra, sono girate sul Lago Maggiore, a Lesa e Stresa, è chiaro che si sta parlando proprio dell’Italia. Come Storia confermerà.  



Beba Loncar 








Laura Belli 



Galleria di copertine 


Nessun commento:

Posta un commento