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martedì 20 dicembre 2022

9 SETTIMANE E 1/2

1184_9 SETTIMANE E 1/2 (9 1/2 weeks)Stati Uniti 1986; Regia di Adrian Lyne.

A suo tempo, e per molti anni, 9 settimane e ½ è stato considerato uno dei più emblematici esempi del cinema patinato anni Ottanta, dove il sesso e l’erotismo erano il principale soggetto – i corpi scolpiti dalla palestra e il denaro ostentato nel lusso ne erano semplici metafore – perlopiù fine a sé stesso. Il che rimane pur vero, in quanto quello di Adrian Lyne è un signor film che funziona a più livelli e quindi per impostare una feroce disamina sul decennio pneumatico – nel senso di vuoto – il regista orchestra magistralmente una perfetta storia che ne rispetti e rispecchi gli stilemi. Ma se le esplicite allusioni edonistiche di Mickey Rourke (è John Gray, il protagonista maschile) e di Kim Basinger (è Elizabeth McGraw, la controparte femminile) sono giustamente arcinote a tutti, e in ogni caso facili da cogliere, il film possiede una struttura rigorosa che a quel tempo, a saperla leggere, sarebbe stata illuminante. Dal momento che il film è impostato nello stile delle pubblicità e dei videoclip degli anni Ottanta – di cui riprende alcune hit come colonna sonora, Slave to love di Brian Ferry o This city never sleeps degli Eurythmics giusto per fare due titoli – una certa superficialità contraddistingue lo schematismo dell’architettura della storia. Questo fatto, lungi dall’essere un limite di per sé, lascia che il romanticismo istigato da John e desiderato da Elizabeth colmi lo scarno tessuto narrativo del film senza appesantirlo. E’ vero, a guardare oggi 9 settimane e ½ lo schema che inchioda gli eighties nel racconto appare anche troppo esplicito ma all’epoca nessuno se ne accorse, basta leggersi le recensioni o le valutazione attribuite all’opera. 

In ogni caso anche questa presumibile semplicità nella struttura del film è congeniale al film stesso: 9 settimane e ½ è un’opera godibile e i tanti passaggi ironici, se non proprio umoristici, mantengono il racconto sempre agile e scorrevole. E veniamo quindi a questa architettura nella quale, impietosamente, Adrian Lyne ci metteva in guardia dall’andazzo che la situazione generale stava prendendo. Siamo a metà del decennio, giova ricordalo, in pieno boom economico degli 80. Elizabeth, una mercante d’arte, conosce John, agente di borsa. Ma questo non è il punto più critico; il peccato originale, come da nome, sta infatti già all’origine. Elizabeth gestisce una galleria d’arte ma, lo vediamo bene ad inizio film, sostanzialmente vende quadri. L’arte, che dovrebbe essere qualcosa di puro e disinteressato, è divenuta una merce: e questo è il primo segnale sinistro che ci fornisce Lyne. Come si diceva, a questo punto la dolce Elizabeth incontra John, uno speculatore di borsa, forse la figura simbolo del decennio: chi ha trasformato l’arte in denaro non può che finire tra le braccia di chi quel denaro è abituato a gestirlo. Naturalmente, essendo una love story, che dura appunto nove settimane e mezza, il corpo del racconto si basa sulle implicazioni sessuali, sul sadomasochismo di coppia, nello specifico il maschilismo di John che prevarica la remissività di Elizabeth ma, in questo caso, Lyne sembra meno interessato all’aspetto erotico e più al significato sociale che nella storia assume. Certo, ci sono molte scene hot prima fra tutte il celeberrimo spogliarello della Basinger sulle note di You can leave hat on di Joe Cocker. 

Della quale va detto che è una sequenza eccezionale, ben fotografata da Peter Biziou, e che consente ad una stratosferica Kim Basinger un posto nella galleria delle attrici più iconiche della Storia del Cinema, insieme a Marlene Dietrich de L’angelo azzurro, Marilyn Monroe de Gli uomini preferiscono le bionde o Audrey Hepburn di Colazione da Tiffany, tanto per fare tre esempi. La scena, tra l’altro, con le tende veneziane in controluce, richiama l’onnipresenza degli schermi televisivi nel film. La teledipendenza, termine oggi desueto, è mostrata in tutte le sue forme e tirata in ballo esplicitamente; così come profeticamente viene portato un simbolico esempio, lo zio di Elizabeth che muore per la troppa televisione, degli effetti che il fenomeno avrà sulla società. La televisione è però lo strumento e non la vera causa del malessere sociale, che rimane l’astratto potere economico, un’entità priva di umanità; proprio come John. La mancanza di umanità del protagonista è indicata per prima cosa dal suo generico e asettico lavoro: vende e compra denaro, il che è una sorta di cortocircuito autocompiaciuto, esattamente come il personaggio di Rourke che sorride beffardo e sornione per tutto il film. I suoi vestiti tutti uguali, piegati e ordinati, sono un altro indizio della sua inesorabile prevedibilità. Il giovane conosce molto bene le leggi che governano le cose, dall’alta finanza alle regole dell’attrazione sessuale, ed è molto bravo a gestire questi meccanismi tanto da esserne lui stesso parte. Il tema della meccanica è solo accennato per quel che riguarda l’aspetto finanziario che, peraltro, è metaforicamente ben sviluppato dal tema erotico del racconto. 

Il desiderio segue dinamiche meccaniche al pari di come gli orologi presenti nel film sono governati dai meccanismi, tra i quali avviene anche una delle tante scene piccanti. Il paragone col cibo, presente in un altro momento bollente, ci ricorda invece come il desiderio sia qualcosa di fisiologico e non demandabile e su questa debolezza umana il sistema nei confronti dell’individuo, o John in quelli di Elizabeth, stabilisce un rapporto di prevaricazione. Lo scopo è creare dipendenza e in questo senso c’è il regresso imposto al soggetto, che è fatto ritornare prima allo stadio infantile – “hai fatto la brava bambina?” – poi addirittura animale – quando Elizabeth si mette a quattro zampe. Ma a questo punto la ragazza si accorge che il gioco non è più tale e qualcosa ha fatto cortocircuito. Ma cosa? Forse la chiave è nascosta in uno dei momenti caldi, quello alimentare, andato in scena davanti al frigorifero aperto, con il freddo prodotto dall’elettrodomestico a significarne il contrasto logico. Ma non è certo l’utilizzo del ghiaccio per momenti hot, a far saltare il banco, così come non lo sono le pratiche sadomaso, solo ad una superficiale prima vista fuori posto in un momento di reciproca ricerca di piacere. 

Il punto cruciale è piuttosto la mancanza di rispetto per l’altro, l’incapacità di comprenderne i reali bisogni ma, al contrario, il costante e persistente lavoro per indurne di nuovi che creino dipendenza, non generino mai appagamento e, di conseguenza, mai soddisfazione e tantomeno felicità. Elizabeth, una giovane che, ad inizio film, con una storia sentimentale in frantumi alle spalle è perlomeno in grado di sentirsi viva e appassionata sul proprio lavoro, diventa triste e dolente proprio all’apice della storia d’amore con l’uomo dei sogni. Simbolicamente, mancava poco a fare dieci ma a quel dieci Elizabeth e John non ci arriveranno mai, fermandosi, appunto a 9 e ½. Non c’è però nessun lieto fine alternativo a salvare la ragazza e tantomeno il baldo giovanotto. Del resto l’ambiente in cui si muovono i personaggi è piuttosto desolante. In realtà Lyne ci inganna per bene, in avvio, mostrandoci una New York piena di vita e di scene di quotidianità che ci illude sulla natura socievole del periodo. Ma basta una cena con Elizabeth e i suoi colleghi della galleria per capirne il grado di sofisticazione artefatta – i riferimenti alla nouvelle cuisine francese – e quando John conquista la ragazza, portandola in un più genuino locale italiano, questo si rivela implicato con la mafia. Nel finale, poi, il critico – si badi, il critico, colui che dovrebbe meglio di altri comprendere ciò che gli sta intorno – chiede ad una distrutta Elizabeth di soccorrere Farnsworth (Dwight Weist) il vecchio artista che gli sembra a disagio in mezzo alla calca della mostra a lui dedicata. In realtà il pittore è in condizioni assai migliori della giovane, moralmente devastata dagli sviluppi nefasti della sua love story e soltanto uno stolto non se ne sarebbe accorto. 

E tra i tanti invitati alla mostra d’arte, quindi gente che dovrebbe avere una spiccata sensibilità, nessuno si accorge invece di niente, se non forse il vecchio pittore che nota qualcosa che non va alla povera Elizabeth. Il personaggio del pittore Farnsworth è significativamente interpretato da Dwight Weist che era stato un noto annunciatore alla Radio prima dell’avvento della televisione e il cui programma più famoso fu The March of the time (La marcia del tempo). Sono le sue parole a sancire la fine della storia, quando dice a Elizabeth quale dovrebbe essere il reale senso della vita. “Io mi ricordo di mangiare quando ho fame e di dormire quando ho sonno”, esordisce laconico il vecchio. In pratica, rispondere ai reali bisogni e non ai desideri indotti dalla società, nel capitalismo, o da John, nel film in questione. Lei ne esalta la capacità di cogliere l’attimo nei suoi quadri, di cui sta allestendo la citata mostra. Lapidario il commento del pittore: “è il momento quando una cosa ti appartiene. Ed è già passato.” Seppellendo sotto una semplice frase tutta la retorica arrivista e accumulatrice, di denaro, cose, persone, degli eighties. Ecco spiegata la presenza dei tanti orologi della pellicola – dopo che il titolo già ci aveva istradato in quel senso, dando già una scadenza alla storia d’amore – nell’esigenza di controllare il tempo, il suo trascorrere e, con esso, il suo rendere vani gli sforzi di arricchirsi, di essere sempre più potenti. Quando Elizabeth lascia John, questi non si dà per vinto, non sia mai, e minaccia di contare: prima che abbia finito è certo che la donna tornerà sui suoi passi. Ma c’è una variabile di cui non ha tenuto conto: perché l’uomo è costretto ad ammette di amare Elizabeth. 

Questo per lui è un bel problema, perché a fronte di una sua trovata umanità, non saprà facilmente – meglio, meccanicamente, ripetitivamente, ad esempio con l’aiuto del solito commesso di fiori – rimettere le cose a posto. Ora diventa tutto più difficile, perché l’amore non segue nessuna regola e non può essere imbrigliato né tantomeno imbrigliare qualcuno. Elizabeth, mentre se ne va, dopo essere stata tante volte ingabbiata visibilmente da ringhiere, testiere del letto, inferriate, meccanismi dell’orologio di una torre, trova davanti a sé la cancellata del palazzo che sembra quella di un carcere che si apre. La ragazza esce come una detenuta quando ha scontato la sua pena; a completare il quadretto c’è anche una sorta di secondino, in realtà il portinaio in livrea, che l’osserva. Nel vialetto, per la strada, le cancellate e le inferriate rimangono ai suoi lati, a sinistra sugli edifici e a destra a sostenere e proteggere gli alberi, e non si frappongono al suo cammino. John, intanto, ha cominciato a contare. Non fino al tre, o al dieci, come gli sarebbe stato facile pensare fino a qualche giorno prima. Tanto Elizabeth sarebbe tornate in fretta. No, ora si prende tempo, che per chi considera il tempo uguale al denaro non è un investimento da poco, e minaccia di contare fino a 50. Ma, adesso che è umano, sente la paura. Il film finisce che non si è ancora deciso a dire due perché dentro di lui sa che non è previsto nessun lieto fine per la nostra love story.
Poco male, al sistema andrà anche peggio. Ma non temete: saprà come al solito riciclarsi.   

Kim Basinger














 Galleria di manifesti 




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