674_ODIO IMPLACABILE (Crossfire). Stati Uniti; 1947. Regia di Edward Dmytryk.
I Quaranta nel cinema, si sa, sono gli anni del genere noir: la capacità di queste pellicole di interpretare al meglio quel determinato periodo fu tale da eleggere a modello di riferimento quelli che in fondo erano film che potevano essere già catalogati come drammatici o polizieschi. Invece i noir, pur avendo sostanzialmente quegli elementi che li potevano far accostare a questi generi, sono indiscutibilmente qualcosa di diverso, di peculiare. A contribuire a rendere così unica questa corrente della settima arte furono certo i contenuti e i presupposti (il periodo tra le due guerre mondiali del XX secolo fu un apice tragico nella Storia dell’Umanità), ma fu la resa scenica, l’iconografia, a renderla cinematograficamente immortale. I cliché narrativi e ancor più figurativi sono talmente potenti da avere una forza comunicativa che finisce per far appartenere al genere anche film che se ne dovrebbero discostare, come forse è il caso di Odio Implacabile. Crossfire, questo il titolo originale, è un lungometraggio del 1947 del valido Edward Dmytryk; si tratta di un dramma, tratto dal romanzo The Brick Foxhole di Robert Brooks, nel quale l’intolleranza estrema nei confronti di un omossessuale è stata modificata nella trasposizione sullo schermo, in ossequio al Codice Hayes, in antisemitismo. La chiarezza del quadro morale, o meglio il suo essere totalmente esplicito (e non potrebbe essere diversamente), disinnesca gli aspetti torbidi che la vicenda potrebbe offrire.
La storia è perciò un poliziesco (o volendo un crime movie, per dirla all’americana) ma è presto evidente che il cattivo è Montgomery, al quale Robert Ryan cerca di dare un certo spessore in modo un po’ diverso dal suo solito. Ryan è un assoluto maestro nel tratteggiare villain dalla forza feroce, a cui riesce a dare particolare credibilità; qui deve lavorare in un registro minore, perché il suo odio (quello implacabile del titolo italiano) non può essere portato sempre allo scoperto, essendo troppo scontatamente negativo. Certo, ci sono anche i momenti in cui il suo personaggio si sfoga, ma sono circoscritti, mentre nel resto del racconto l’attore mostra il suo lato apparentemente accomodante, quasi amichevole; comunque inquietante. Quindi, se dovessimo valutare questi primi indizi, potrebbe anche sembrare difficile ipotizzare poi che il film funzioni questo granché: l’argomento di fondo, l’inaccettabile odio verso gli ebrei (o comunque i diversi), è certamente condivisibile ma messo in questi termini non offre molti spunti di riflessione; si tratta di un elemento inconfutabile e questo chiude brevemente il discorso. D’altro canto anche il tema poliziesco non offre grandi enigmi investigativi da risolvere: il personaggio di Ryan è il cattivo e la trama gialla si sviluppa unicamente nello scoprire meglio i dettagli degli avvenimenti.
E dire che c’è un buon lavoro in flashback sui particolari della serata cruciale, quella in cui viene ucciso Samuel (Sam Levene), con Mitchell (George Cooper), militare in stato confusionale, che fatica a rimettere i ricordi al loro posto. Il testo cala, in questo frangente, un altro carico pesante dal punto di vista etico: Mitchell non ricorda gli avvenimenti della sera forse perché aveva bevuto coi commilitoni un bicchiere di troppo ma soprattutto per il suo generale stato psicologico, gravato da seri problemi di reinserimento nella vita civile dopo la guerra. Questo aspetto non è però sviluppato in modo così accurato, in fondo si tratta di un film poliziesco, e il suo semplice accennarne rischia di avere effetti controproducenti, appesantendo inutilmente la storia. Oltretutto la bonarietà del capitano Finlay (Robert Young), poliziotto incaricato delle indagini, non aiuta a rendere la questione più intrigante. Insomma, cos’è che salva Odio Implacabile, oltre alla regia solida di Dmytryk e alla fotografia (forse perfino troppo smaccatamente espressionista) di J. Roy Hunt?
Intanto se c’è Robert Mitchum (è il sergente Keeley) il film vale comunque la pena, soprattutto se si tratta di un poliziesco a tinte noir. Mitch non è però chiamato ad una grande prova, essendo il testo troppo manicheo e lasciando così ben poche aree di chiaroscuro in cui il mitico attore possa far valere le sue qualità specifiche. A riuscire in questa difficile impresa è invece la vera star della pellicola, Gloria Grahame. La sua Ginny è la classica dark lady del cinema noir e l’attrice riesce ad essere pienamente convincente, pur nelle difficoltà suddette della storia, in cui è oltretutto messa a confronto con una bionda platino come Jacqueline White che invece interpreta una devota moglie affettuosa e comprensiva.
Il soggetto sembra infatti fatto apposta per mettere in cattiva luce la figura di Ginny (che è una ragazza di vita e non pretende di essere un modello di virtù, sia chiaro) ma la mancanza di nerbo di Mary, (la White), subito disposta a perdonare la scappatella del marito Mitchell, finisce per esaltarne lo spirito vitale. La Grahame è giovane, certo, non ha ancora raggiunto lo splendore ambiguo dei suoi ruoli degli anni Cinquanta, ma è già un’attrice superlativa, una delle migliori che abbia mai irradiato gli schermi. Il modo in cui interpreta il ruolo della ragazza cattiva (dal cuore buono) esprime meglio di chiunque altro lo spirito di quegli anni e quindi l’essenza del genere noir. Gloria è la voglia di cambiare ma è anche l’impossibilità di farlo, è la voglia di essere pulita e onesta ma anche l’incapacità di resistere alle tentazioni che l’avvenenza le offre: l’America (e il mondo) al tempo si trovava in quelle stesse condizioni, nella disperata necessità di uscire da un periodo da incubo ma nel timore di non potercela realmente fare nel modo giusto. Insomma, se c’è Gloria Grahame nel ruolo di dark lady, qualunque film entra di diritto nei noir da vedere e, di conseguenza, nei film da ricordare.
Jaqueline White
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