666_IL DIAVOLO E' FEMMINA (Sylvia Scarlett). Stati Uniti; 1935. Regia di George Cuckor.
Oggi Il diavolo è
femmina, commedia del 1935 di George Cukor, è considerato un capolavoro; a
suo tempo fu un clamoroso fiasco. Katharine Hepburn, davvero affranta dopo la
disastrosa anteprima dell’opera, addirittura si offrì di riparare al flop
girando un altro film gratuitamente. Ma Pan Berman, il produttore destinatario
dell’offerta, era talmente stizzito che rispose, senza scherzare, che non li
avrebbe mai più voluti rivedere: né lei né Cukor. E’ con un certo divertimento,
in seguito, che il regista di origine ungherese riporterà questo aneddoto, ma
soltanto per i successi che, sia lui che Kate, ottennero nel mondo del cinema,
a discapito del senso erroneamente profetico nascosto nelle parole del
produttore. Però Cukor non è mai per nulla divertito quando ricorda l’effettivo
fallimento commerciale de Il diavolo è
femmina; e ha piena ragione di non esserlo. Si tratta certo di un film
interessante, gradevole e con alcuni spunti degni di merito, questo è
innegabile. La fama attuale è legata al garbo con cui Cukor imbastisce una
trama ricca di equivoci e di allusioni, prevalentemente di natura sessuale,
senza mai scadere nel volgare. Sylvia Scarlett, il personaggio interpretato
dalla Hepburn, spacciandosi per ragazzo, segue il padre in fuga verso
l’Inghilterra dalla natia Francia. A corto di denaro e senza occupazione, la
coppia si unisce a Jimmy Monkley (Cary Grant), un imbroglione, e a Maudie
(Dennie Moore) una cameriera. I quattro mettono su un carrozzone di saltimbanchi
e provano a vivere di espedienti, generalmente ben poco legali.
Ovviamente
l’attenzione di Cukor è posta, in questa fase, sulle schermaglie tra
la Hepburn e Grant, con
l’anomalia che la prima è nelle vesti maschili. Il vero salto di qualità
l’opera lo prevede quando i quattro incontrano il facoltoso pittore Michael
Fane (Brian Aherne), di cui Sylvia si innamorerà quasi subito. Fane, che tra
l’altro ha una splendida fidanzata (Natalie Paley), prende in simpatia il
giovinetto sbarbato: quale sia la natura di questa
simpatia se lo chiede lo stesso uomo quando scopre che Sylvester,
nome che assume Sylvia nei panni maschili, è in realtà una ragazza. In genere,
questo tipo di storie che si basano su personaggi
en-travesti, vertono in modo sotterraneo sull’interesse morboso
verso l’attrazione omosessuale e sulla promiscuità di genere che sono
inclinazioni assai meno rare, magari anche solo in forma latente, di quanto sia
convenzionalmente accettato. In questi testi, che sfruttano sì la pruriginosità
della situazione ma abitualmente preferiscono rimanere conformi alla norma, la
rivelazione che sotto le spoglie del personaggio camuffato ce ne sia uno di
sesso opposto, è in genere enfatizzata dall’avvenenza sessuale di questi: la
bella ragazza che si spaccia per giovinetto o il macho che si finge gran dama,
sfruttano la sorpresa della rivelazione legata non solo alla caduta del
travestimento, ma anche al loro reale e marcato aspetto, per rimettere le cose
a posto. Sotto la maschera i maschi son maschi e le femmine femmine: se il
mascheramento confonde, una volta eliminato viene a galla la
verità e le due categorie tornano ben
distinte. Cukor opta per una scelta meno consueta perché pone nel ruolo
equivoco una figura, quella della Hepburn, atipica nel suo essere femminile.
Kate è una bella donna, indiscutibilmente, ma non ha un forte sex-appeal, anzi
ne è quasi sprovvista. La questione non è che l’attrice sia attraente in modo
differente rispetto ai cliché a cui siamo abituati, ma è che la sua figura non
ostenta particolari richiami alla sfera sessuale. E il suo Sylvester è solo uno
sbarbatello, un giovinetto non troppo dissimile da un ragazzino in età
pre-puberale. L’operazione di Cukor è quindi davvero fuori dagli schemi: una
storia che verte sullo scambio di genere sessuale della protagonista, ma che
viene a mancare proprio sulle esternazioni di questo aspetto. Lo scartamento
visivo tra
la Hepburn
in versione femminile e maschile è infatti minimo: il vestito a fiori con cui
si presenta da Michael è molto femminile, è vero, ma la ragazza lo indossa in
modo goffo, come sottolineato dall’uomo quando la vede seduta a gambe larghe.
E
questa
asessualità della Hepburn è
esaltata non solo dal confronto con
la
Paley, una modella dalla bellezza folgorante, ma anche
dall’avvenenza dei maschi della storia, Grant ovviamente in primis ma anche
Aherne. Cukor riteneva che ad inficiare l’efficienza del suo
Sylvia Scarlett, questo il titolo
originale, fossero stati lo struggente incipit, messo quasi a chiedere clemenza
agli spettatori in anticipo, e il quarto d’ora finale, che faceva rientrare la
storia grosso modo nei canonici ranghi. Secondo il regista il corpo centrale
del film era però di natura completamente differente e poco centrava con queste
due appendici che ne alteravano la resa complessiva. Per la verità, lo
spettatore potrebbe facilmente dimenticare l’inizio, davvero un mero pretesto
narrativo per far partire la vicenda, mentre il finale non sposta di molto
l’impressione che è naturalmente incentrata sulla figura di Sylvia/Sylvester.
Per cui, a lasciare annoiati gli spettatori, potrebbero non essere stati questi
passaggi, quanto proprio il nocciolo del discorso, che Cukor pensava invece si
fosse un po’ perso. In realtà il regista avrebbe dovuto mettere
in preventivo che il suo
gusto nel merito poteva lasciar
perplessi gli spettatori: non è che l’incertezza di genere sessuale fosse un
problema, nemmeno al tempo, basti pensare a dive assolute dell’epoca come
la Garbo o
la Dietrich che
furoreggiavano grazie anche alla loro ostentata androginia. Ma erano figure
decise, in un senso o nell’altro e anche, come Marlene, in tutte e due
contemporaneamente, mentre a Sylvia Scarlett
la Hepburn dona una vaghezza
di contenuti sessuali che cerca di supplire o mascherare con le parole della proverbiale
verve dialettica. E’ forse questo aspetto che sembra mancare, ma non è tanto
una carenza quanto piuttosto la delicatezza di Kate, una donna fragile nascosta
in un guscio corazzato, gradevole anche se troppe volte spigoloso, comunque in
grado di provare un sentimento candido e ingenuo da sembrare platonico. E per
questo, per alcuni, persino legittimamente stucchevole.
Natalie Paley
Katharine Hepburn
insomma, era meglio se non le facevano togliere la maschera, per una volta (^^)
RispondiEliminaNo dai, la zia Kate non si tocca! :)
RispondiElimina