650_ANATOMIA DI UN OMICIDIO (Anatomy of a Murder). Stati Uniti, 1959. Regia di Otto Preminger.
L’etimologia di anatomia
ci dice che l’origine del termine sia la parola greca dissezione. Un concetto reso graficamente da Saul Bass sia per i
titoli di testa e di coda che per le locandine del film Anatomia di un omicidio, capolavoro e manifesto del cinema di Otto
Preminger. Con Anatomia di un omicidio
il regista di origine mitteleuropea mette a fuoco il suo sguardo forse come mai
prima d’allora, anche a rischio di andare contro alle consuetudini produttive del
cinema americano. Ma Preminger è determinato a portare a termine la sua anatomia
attraverso l’uso del cinema, uno studio analitico della società americana
dell’epoca che, sullo schermo, si traduce in un magnifico giallo processuale, uno dei capisaldi assoluti del genere.
L’approccio di Preminger alla storia è quanto mai realistico: innanzitutto va
detto che il testo da cui l’opera è tratta, l’omonimo romanzo di Robert Traver,
è autobiografico, essendo lo scrittore anche l’avvocato difensore che si trovò coinvolto
in un processo del tutto simile a quello narrato. Preminger non solo si premura
di rimanere piuttosto fedele agli avvenimenti, ma è quasi ossessivo, maniacale,
nel suo mettere insieme i tasselli, le parti sezionate del suo film, avendo
cura che abbiano quasi tutti una matrice realistica. Così il giudice Weaver è
interpretato da un vero uomo di legge, (l’avvocato Joseph N. Welch), la
biblioteca del tribunale è una vera biblioteca pubblica e, aspetto più
significativo di tutti, il luogo del delitto, il bar di Barney Quill, è
ambientato nella Taverna Lumberjack dove avvenne il vero omicidio da cui la
storia è ispirata.
Questa precisione minuziosa nel fornire una serie di
dettagli realistici influì anche nella scelta del cast: per il ruolo, tutto
sommato centrale nella vicenda, di Laura Mannion era stata scelta in origine
Lana Turner, all’epoca diva affermata. L’attrice pretendeva però di recitare
indossando gli abiti esclusivi disegnati per lei dal suo sarto; Preminger si
impuntò, visto che questi capi non erano adatti al ruolo, opponendosi anche
alla produzione che era invece intenzionata a concedere questo capriccio alla
diva pur di averla nel cast. Fu invece scritturata Lee Remick, molto più
giovane della Turner, anche se certamente meno nota ed esperta, e la scelta
risulterà particolarmente congeniale al lavoro di Preminger. Perché il regista,
se da un lato si premura di mettere insieme una storia che riprenda anche
crudamente la nuda realtà dei fatti, opera anche sul versante opposto,
stilizzando il suo racconto con una serie di rimandi simbolici o metafore. Come
già evidenziato dalla natura dei titoli di testa, splendidi, a cura del mago
dell’animazione stilizzata, il citato Saul Bass. Ma in questo senso si può
leggere anche l’utilizzo del bianco e nero nella scelta della pellicola, (per
la magnifica fotografia di Sam Leavitt): da una parte ambienta la storia
riportandoci ai tempi del
noir o dei
crime movie, mentre in ottica più
contemporanea si rifà alle realistiche immagini dei giornali di cronaca nera.
Ma rimane, comunque, una versione astratta della realtà, visto che quest’ultima
è naturalmente a colori.
Questo lavoro metaforico di Preminger permea tutta
quanta la storia e funziona altrettanto bene rispetto alla ricostruzione
realistica in primo piano. In ossequio alla quale, il regista, si prende
grandissimi rischi: dalla lunghezza del film, che verrà poi sezionato
(curiosamente) troppe volte nei passaggi televisivi, all’uso di parole o temi
scabrosi, quelli legati alla violenza e allo stupro subito da Laura, che
provocarono molti problemi alla pellicola. In tema metaforico il paragone tra
il mondo del cinema e l’aula di tribunale sembra essere la chiave che Preminger
prova a fornire: il giudice Weaver richiama l’assemblea a considerare quei
termini che provocano reazioni eccessive (in quello specifico passaggio il termine era ‘
mutandine’), alla stregua di quello che
significano per la storia in questione, ovvero elementi di prova agli atti e
non un motivo di scandalo o eccitazione. Non c’è la ricerca dell’elemento
scabroso ad effetto, da parte di Preminger, quanto la volontà di mettere in
luce quegli aspetti che il cinema ipocritamente evitava anche quando parlava di
storie inerenti agli stessi. Ma un’anatomia non può essere ipocrita per
definizione, visto che sezionando si finisce per mettere in luce ogni singolo
componente della materia in analisi. La vicenda raccontata verte sul processo a
carico del tenente Fredrerick Mannion (l’ottimo Ben Gazzara) per aver
freddato con cinque colpi di pistola Barney
Quill, reo, a suo dire, di aver violentato Laura, la moglie del militare.
A
difenderlo, nel processo, l’avvocato Biegler (lo strepitoso James Stewart), coadiuvato
dal vecchio legale McCarthy (Arthur O’Connell) e dalla segretaria Maida (Eve
Arden). Sul fronte opposto, a fianco del pubblico accusatore Lodwick (Brooks
West) si schiera Claude Dancer (il formidabile George C. Scott) magistrato arrivato
dalla città per dare man forte all’accusa. Dopo una tutto sommato breve
introduzione, il film si concentra sulle fasi processuali, in particolar modo
su interrogatori e controinterrogatori di testi e imputato. E’ significativo
che Preminger rinunci ai momenti più teatrali del processo, ovvero la
requisitoria e l’arringa finali, saltate a piè pari dal film: al regista non
interessano questi riassunti faziosi, ma si concentra appunto, con la sua
analisi, sui fatti riportati dai diretti interessati.
L’elemento cruciale del
processo ha infatti la concreta consistenza del paio di mutandine di Laura che
Mary Pilant (Kathryn Grant) nel finale consegna coscienziosamente al tribunale
dopo averle ritrovate. Quello, in sostanza, sarà il fattore decisivo ai fini
della sentenza, oltre alla deposizione della stessa Mary Pilant. La ragazza,
figlia in incognito di Quill, ne ha ereditato il locale dove per altro già
prima era la direttrice; ovviamente sul momento non può certo essere favorevole
alla difesa di Mannion, che le ha appena ammazzato il padre. Per la verità,
quando il buon McCarthy scopre che è la figlia di Quill, Biegler intuisce che
ci possono essere sviluppi favorevoli alla difesa e subito prova a sondare una
sua possibile deposizione a favore del suo cliente. La ragazza non si lascia
coinvolgere, convinta dell’impossibilità che suo padre abbia potuto stuprare
Laura; qualche dubbio però le sorge quando trova le mutandine della donna nel
cesto della biancheria da lavare del locale e così decide di andare a deporre.
Biegler, che correttamente aveva evitato di coinvolgerla nel dibattimento, è
l’unico nella disputa processuale a conoscere la sua parentela con
l’assassinato. Qui prende corpo la sua strategia, rappresentata simbolicamente
dall’esca per la pesca che l’avvocato prepara durante gli interrogatori,
mostrandosi apparentemente distratto.
Qualche momento prima, l’idea che il
difensore di Mannion potesse aver ingannato l’accusa, proprio come il pescatore
fa con il pesce (o la rana dell’esempio raccontato da Biegler, vero
appassionato di pesca) sembrava essere stata smontata da Dancer, che aveva convocato
a sorpresa un detenuto compagno di cella del tenente a testimoniare la violenza caratteriale del militare e alcune sue dichiarazioni poco opportune. Questo passaggio,
davvero infelice per Mannion, sembrava pregiudicarne le chance di assoluzione
proprio sul più bello. L’arrivo di Mary Pilant con il citato indumento intimo
di Laura, riequilibra le sorti del processo e a quel punto scatta la
trappola di Biegler. Dancer, furente per
il colpo a sorpresa, incalza la povera Mary Pilant, accusandola di voler
infangare la memoria di Quill: la rivelazione che l’uomo era il padre della
ragazza lo manda però al tappeto e dirotta i favori della giuria verso l’imputato. L’abilità
di Biegler è stata, infatti, quella di spostare l’attenzione dall’omicidio allo
stupro, lasciando intendere che il primo sia una sorta di conseguenza del
secondo. Secondo la strategia difensiva, Mannion, vedendo la propria moglie
stuprata e selvaggiamente picchiata, sarebbe stato colto da un ‘
impulso irresistibile’, una patologia
temporanea che aveva già salvato un imputato in un vecchio processo e che
faceva quindi giurisprudenza. Il problema era dimostrare che Mannion fosse
incappato in questo disturbo.
Purtroppo (per lui) le visite mediche a cui era
stato sottoposto non lo potevano scagionare del tutto, non avendo queste avuto un
esito del tutto certo. Era quindi occorsa l’abilità di Biegler per mettere in
relazione più stretta la violenza subita da Laura con la perdita di controllo
(e quindi l’evento criminale) di Mannion. Nel film, in tutto questo trafficare
con leggi e deposizioni, mai si fa riferimento alla
giustizia in senso morale se non in qualche passaggio retorico
dell’accusa. Biegler, che è il protagonista principale, l’eroe della storia,
sprona sì il suo assistito e la moglie a dire la verità, ma solo a fini
strategici, perché una bugia sarebbe controproducente nel caso venisse
scoperta. Non c’è mai, nel film, un vero ricorso alla morale, soltanto Maida,
la segretaria di Biegler, sembra porsi un interrogativo: è forse l’unico
rilievo in tal senso nell’intera opera. Il senso di giustizia è del tutto
estraneo al film: Biegler accetta la difesa, ed è spinto a farlo da McCarthy e
Maida, unicamente per necessità economiche; lo stesso McCarthy si scopre
ringalluzzito dall’essere chiamato in soccorso dall’amico, ma per motivi di
autostima. Il giudice si esprime più volte in riferimento alle regole della
disputa processuale, mai in senso di giustizia assoluta. L’accusa si mostra
palesemente scorretta nel portare a processo solo quello che gli torna comodo,
come ad esempio nella selezione delle fotografie dalla scena del crimine.
L’istituzione della magistratura è così messa lei stessa sul banco degli
imputati ma, come si diceva, il discorso di Preminger è al contempo simbolico.
L’idea che insieme alla Legge possa essere messa in discussione l’intera
società americana (o occidentale) è confermata dall’altra istituzione che viene
duramente criticata nel film, anche se in modo indiretto. Controluce al tema
sulla giustizia c’è un’altrettanto strutturata analisi della famiglia: nessuna
delle unioni di cui si vede, o si parla, nel film, ha figli (perlomeno in senso
canonico) e la cosa è anche sottolineata esplicitamente durante il
dibattimento. Non hanno figli Mannion e la moglie e non ne hanno avuto dalle
precedenti unioni famigliari; non ha figli Biegler, che è scapolo, e nessuno
degli altri fa cenno di averne. L’unico legame di questo tipo è quello tra
Barney Quill e Mary Pilant, che viene tenuto segreto ed è in qualche modo
illegittimo, visto i cognomi diversi.
Tra l’altro, nel finale, la figlia a
processo porterà un elemento non certo a favore della memoria del padre. Si è
detto che il protagonista, l’avvocato Biegler, non ha figli ma non sembra
nemmeno intenzionato a cercarsi una compagna; a suo modo pare essersi
costituito una famiglia ma nella
direzione
sbagliata, contraria, trovandosi cioè una madre (Maida) e un padre (McCarthy).
Laura, la moglie di Mannion, sembra invece lei stessa una bambina: il viso
della Ramick, la sua altezza (paragonata esplicitamente con quella di Stewart),
ma anche il suo modo sfacciato di provocare, danno l’idea di una fanciulla un
po’ monella piuttosto che di una vera
dark
lady. In quest’ottica la scelta di Lee Ramick, peraltro bellissima, in
luogo di Lana Turner sembra essere azzeccata: Laura è una donna che preferisce
non crescere e rimanere adolescente per potersi godere la vita. Proprio la sua
candida e a suo modo ingenua sincerità, quando si presenta ubriaca già prima
della lettura della sentenza, è un’ammissione della sua inattendibilità. E
anche il marito, che una volta assolto si squaglierà senza pagare il conto,
facendosi beffe del suo avvocato motivando la sua fuga come dettata da un
impulso irresistibile, ci lascia ben più
di un dubbio circa l’effettiva giustizia morale del verdetto finale. Tra l’altro,
si rivelano fallimentari anche le motivazioni economiche che Biegler aveva
seguito per accettare l’incarico. In conclusione, sia da un punto di vista legale, visti i
dubbi che l’assoluzione lascia, sia da quello famigliare, la società mostrata dal
film non sembra in grado di produrre né giustizia (il verdetto) né futuro (la
mancanza di famiglie con figli) e sagacemente Preminger ci lascia con
l’immagine di un bidone dell’immondizia. Il vero lascito della nostra
società.
Lee Remick
realistico fino in fondo, anche nelle conclusioni, senza retorica o moralismi...
RispondiEliminaBeh, questo è un filmone.
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