139_IL SILENZIO DEL MARE (Le silence de la mer). Francia, 1947; Regia di Jean-Pierre Melville
Opera prima di Jean-Pierre Melville, Il silenzio del mare è un film del tutto
sorprendente. Tratto da un testo (il romanzo omonimo di Vercors) ritenuto, a
ragione, anticinematografico,
rispetta nei fatti questa caratteristica, riuscendo, al contempo, ad essere
pienamente cinema. Nella storia raccontata dal romanzo e dal film, non c’è
azione e nemmeno dialoghi: c’è solo un personaggio che pronuncia monologhi e
altri due che li ascoltano. Il narratore è l’ufficiale nazista Von Ebrennac
(Howard Vernon) che, durante l’occupazione della Francia, si insedia
nell’abitazione di due francesi, un attempato signore e la giovane nipote.
L’ufficiale è zoppo e resta alloggiato nella casa per diversi mesi; i due
francesi lo accolgono con freddezza, non rivolgendogli la parola e nemmeno lo
sguardo. Il tedesco, in tutta risposta, non sembra affatto esserne risentito,
comprendendo l’ostilità di chi vede la propria casa e la propria terra occupata
forzatamente: addirittura si dimostra estremamente cortese, passando tutte le
sere a salutare, con brevi monologhi, la coppia di persone, senza che queste
gli concedano mai un cenno di risposta. Pian piano l’ufficiale mostrerà il suo
animo, la sua apertura mentale, la sua ammirazione per la cultura francese; una
gita nella Parigi occupata gli farà aprire gli occhi sulla impossibilità che il
sogno di un’unione felice tra tedeschi e transalpini possa essere compiuta.
Unione che, nel ripetersi della scena con il passaggio serale, va sempre più
sovrapponendosi ad un’altra intesa, quella tra l’ufficiale stesso e la ragazza
francese; un’ipotesi di unione fondata su sguardi non replicati, su risposte
non date, su saluti non corrisposti, ma comunque via via sempre più evidente.
Un’evidenza espressa da Melville attraverso un uso proprio dello strumento cinema: alcune scene sono da antologia, tanto azzardate quanto, nella loro espressione, classiche. Le due più note sono una ripresa che mette a fuoco contemporaneamente tre differenti piani del locale dove in sostanza si svolge quasi tutto il film, e che è ottenuta da Melville in modo davvero empirico. Il regista gira in più riprese gli stessi fotogrammi di pellicola, illuminando di volta in volta, a turno, i vari soggetti disposti a diverse distanze dall’obiettivo, ottenendo quindi, la massima profondità di campo. La seconda è una panoramica che parte dalla Cattedrale di Chartes, sale verso il cielo, dove, in dissolvenza, l’immagine si sposta sul cielo di Parigi, sopra la scuola militare, con la mdp che arriva poi sul cannone e quindi sul carro armato che è piazzato là come monumento, ma che nel film serve a rappresentare la guerra in corso. Stratagemmi al limite dell’incredibile, ma necessari. Perché, giova ricordarlo, Jean-Pierre Melville gira Il silenzio del mare senza i diritti sul libro, senza autorizzazioni, praticamente senza pellicola e senza budget ma, grazie a talento ed ingegnosità, riesce a produrre un film che niente ha da invidiare a moltissimi prodotti dell’industria cinematografica, anzi.
Il lungometraggio è costruito su un’improvvisazione dietro l’altra, ma ha il vantaggio che il regista francese sa perfettamente quello che poi rimarrà sullo schermo, una qualità innata (assistita dall’abilità dell’addetto alla fotografia Henri Decae) che gli permette di arrivare a soluzioni visive perfettamente funzionali allo scopo (e quindi classiche), pur con sistemi artigianali e artificiosi, non disponendo di uno studio alle spalle come supporto tecnico. Le inquadrature dal basso che riprendono l’ufficiale tedesco, sottolineando l’assurdità dei deliranti monologhi, e il ritmo serrato del montaggio, che si contrappone alla sostanziale inattività della trama, creano un clima di tensione costante. Lo spettatore è perennemente sulla corda; sembra sempre di essere sul punto in cui qualcosa rompa l’assurda routine degli incontri serali.
Un’evidenza espressa da Melville attraverso un uso proprio dello strumento cinema: alcune scene sono da antologia, tanto azzardate quanto, nella loro espressione, classiche. Le due più note sono una ripresa che mette a fuoco contemporaneamente tre differenti piani del locale dove in sostanza si svolge quasi tutto il film, e che è ottenuta da Melville in modo davvero empirico. Il regista gira in più riprese gli stessi fotogrammi di pellicola, illuminando di volta in volta, a turno, i vari soggetti disposti a diverse distanze dall’obiettivo, ottenendo quindi, la massima profondità di campo. La seconda è una panoramica che parte dalla Cattedrale di Chartes, sale verso il cielo, dove, in dissolvenza, l’immagine si sposta sul cielo di Parigi, sopra la scuola militare, con la mdp che arriva poi sul cannone e quindi sul carro armato che è piazzato là come monumento, ma che nel film serve a rappresentare la guerra in corso. Stratagemmi al limite dell’incredibile, ma necessari. Perché, giova ricordarlo, Jean-Pierre Melville gira Il silenzio del mare senza i diritti sul libro, senza autorizzazioni, praticamente senza pellicola e senza budget ma, grazie a talento ed ingegnosità, riesce a produrre un film che niente ha da invidiare a moltissimi prodotti dell’industria cinematografica, anzi.
Il lungometraggio è costruito su un’improvvisazione dietro l’altra, ma ha il vantaggio che il regista francese sa perfettamente quello che poi rimarrà sullo schermo, una qualità innata (assistita dall’abilità dell’addetto alla fotografia Henri Decae) che gli permette di arrivare a soluzioni visive perfettamente funzionali allo scopo (e quindi classiche), pur con sistemi artigianali e artificiosi, non disponendo di uno studio alle spalle come supporto tecnico. Le inquadrature dal basso che riprendono l’ufficiale tedesco, sottolineando l’assurdità dei deliranti monologhi, e il ritmo serrato del montaggio, che si contrappone alla sostanziale inattività della trama, creano un clima di tensione costante. Lo spettatore è perennemente sulla corda; sembra sempre di essere sul punto in cui qualcosa rompa l’assurda routine degli incontri serali.
La tensione sentimentale tra il tedesco e la ragazza cresce,
lentamente, silenziosamente, ma si muove; così come anche la stima reciproca
tra i due uomini. Ma la situazione di stallo in cui si sono imprigionati i due
francesi, non cede.
E come potrebbe: il film è, in effetti, proprio un manifesto alla
resistenza francese. Questo spirito era già presente nel libro di Vercors, ma
Melville ne trae un film che lo comunica con gli strumenti propri del cinema,
riuscendo, quindi, in un’operazione certamente ardua visto anche la fama anticinematografica che accompagnava il
romanzo. Ma l’autore francese, o se vogliamo assecondarne i gusti, il creatore francese, non ha scelto il
proprio pseudonimo a caso: Hernan Melville era un grandissimo narratore, così
come monsieur Grumbach, in arte Jean-Pierre Melville.
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