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mercoledì 9 maggio 2018

IL PONTE DELLE SPIE

144_IL PONTE DELLE SPIE (Bridge of spies). Stati Uniti, 2015;  Regia di Steven Spielberg

Steven Spielberg è forse il regista che meglio è in grado di capire e tramutare in cinema il sentimento comune; ovvero quello su cui tutti quanti, consapevolmente o no, stanno riflettendo in quel momento storico. Dalla paura degli squali, agli extraterrestri, al ritorno dell’avventura classica o dei dinosauri, fino ai conti da risolvere con la guerra e le sue decisioni o ai drammi come l’Olocausto.
Dove c’è un conto in sospeso, prima o poi arriva l’Autore che ne coglie le potenzialità artistiche e ci invita a rifletterci sopra in modo più costruttivo: Spielberg è quell’Autore che arriva con preciso tempismo, esattamente quando il grado e la capacità di comprensione del pubblico sono maturi al punto giusto.
Su cosa verte, questo Il ponte delle spie? E’ un film sulle spie, sullo spionaggio, quindi il tema non può che essere l’osservare, il guardare. E cosa si fa, quando si guarda? Si vedono immagini e, in un certo senso, queste immagini si prendono: infatti la spia russa dipinge e quella americana fa foto, entrambe producono immagini. Quindi il lavoro della spia è simile a quello del regista che con le immagini produce il suo lavoro, il cinema. Se questo regista è Spielberg, possiamo stare sicuri che farà un buon lavoro ma, soprattutto, possiamo stare anche sicuri che il tema sarà attuale, contingente. E infatti c’è sicuramente bisogno, in questo momento storico, di capire chi veramente siamo, quali ragioni abbiamo, e dove abbiamo eventualmente sbagliato: di questi tempi si fa’ più che mai fatica a capire qualcosa nella confusione tra le bufale e l’informazione di regime, con i terroristi che non vengono da un altrove in qualche modo alieno ma sono cresciuti nei nostri stessi quartieri. 

Occorre davvero riflettere da capo, tornare al principio, per risolvere la prima domanda, quella da cui dipende tutto il resto: chi siamo?
Per la nostra attuale società, farlo significa tornare al dopoguerra, l’ultimo vero re-boot; per il cinema, significa riprendere il Cinema del Sogno Americano, quello di Frank Capra, per capirci. Non a caso tra gli sceneggiatori di questo Il ponte delle Spie ci sono i fratelli Coen, abilissimi, oltre che nel produrre intrecci e sceneggiature impeccabili, a ricreare il mondo del grande regista italoamericano.
Storicamente, il dopoguerra si trasformerà immediatamente in Guerra Fredda, e qui, in questo momento storico, è ambientato il film di Spielberg: è quindi questa la radice politica della nostra società, la contrapposizione tra i due blocchi, filo-atlantico e filo-sovietico. 

Manca, perciò, una età dell’oro, un paradiso perduto: questo periodo aureo è solo negli ideali, ma non c’è a livello pratico. Lo capiamo nella differenza tra l’approccio al caso tra l’avvocato  Donovan, un’eccellente Tom Hanks,  e l’intero paese degli Stati Uniti: persino il giudice della corte, pretende dall’avvocato una difesa per onor di firma e per niente scrupolosa. Rudolf Abel (un insuperabile Mark Rylance), la spia russa,  è un nemico, e con il nemico, si sa, il regolamento non si usa. Ed è proprio questo il punto cruciale della storia: perché proprio quel regolamento, che è nientemeno la Costituzione Americana, dovrebbe sancire la differenza tra i buoni e i cattivi

Ma se non viene applicata non sancisce proprio niente: la differenza tra buoni e cattivi è perciò solo nella forma (il processo, in America, almeno in apparenza, è celebrato con tutti i crismi) ma non nella sostanza. Gli sguardi ostili sulla metropolitana, dove l’avvocato Donovan è riconosciuto e visto come un traditore, mostrano l’incapacità di comprendere non solo le ragioni dell’altro, ma anche di capire noi stessi. Tom Hanks, il prototipo dell’americano ideale (Mr. Donovan goes to Berlin, potremmo dire) viene guardato con diffidenza quando non con odio (gli spari nel salotto di casa) dalla stessa società che lo ha prodotto e, almeno sulla (magna) carta o sullo schermo, idealizzato. C'è quindi una sorta di smarrimento della propria identità, in un popolo, se non è più in grado di riconoscere quegli eroi che ha scelto di elevare a propri illustri rappresentanti. Ma allora è solo nello sguardo dell’altro, ad esempio il dipinto in regalo, che possiamo davvero trovare noi stessi. Il nostro semplice essere non basta più per capire chi siamo; e neppure ci basta riflettere. Occorre un altro punto di vista, quello dell’altro. La scena iniziale, è eloquente: Abel, la spia russa, il cui scopo in quanto spia è guardare e capire, si sta’ facendo un autoritratto. Nella stessa sequenza abbiamo il suo volto, il volto riflesso, e quello dipinto. Tre punti di vista diversi, ma comunque riconducibili alla stessa persona, eppure non bastano a capire che tipo di uomo sia Abel. E’ una spia che fa’ quindi solo il suo dovere, oppure è un personaggio abietto? Sarà Donovan a farci capire che è un uomo degno di rispetto, al di là della doverosa e coscienziosa difesa nel processo.

Così come sarà un ritratto in dono da una spia russa a far capire all’avvocato Donovan di essere davvero un buon americano, ovvero un uomo comune (non il principe o comunque l’uomo dal sangue blu della tradizione europea) che in condizioni non comuni, si erge allo stato di Eroe.
E guardandone una foto sul giornale o un’immagine in tv, anche sulla metropolitana e in famiglia, stavolta se ne accorgono.
E’ un film ottimista, quindi, questo Il ponte delle spie, ed essendo uno Spielberg, c’era da scommetterci. Ma l’ottimismo del geniale regista americano è tutt’altro che di comodo. E’ un ottimismo salubre, salutare, perché ci mostra la strada, una possibile soluzione, a questi tempi dove in molti auspicano di chiudere le frontiere, di issare muri (e, emblematicamente, il titolo del film, al contrario, ci parla di un ponte).
Fidiamoci dell’altro; è l’unico che può dirci chi siamo.



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