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martedì 4 giugno 2019

NAPOLI VIOLENTA

359_NAPOLI VIOLENTA . Italia, 1976Regia di Umberto Lenzi.

Nonostante le feroci stroncature della critica, nel 1975 il film Roma violenta di Marino Girolami ottenne un lusinghiero risultato al botteghino, in buona parte merito della riuscita (anche se discussa) figura del commissario Betti, interpretato da Maurizio Merli. Il personaggio è talmente indovinato che, l’anno successivo, eccolo di nuovo in azione, stavolta di scena a Napoli, come chiarito subito dal titolo Napoli violenta che ricalca quello dell’episodio precedente onde evitare equivoci. L’idea di spostare l’azione nel capoluogo partenopeo è probabilmente nell’ottica di poter credibilmente alzare la posta in fatto di violenza generalizzata e criminalità maggiormente diffusa nel tessuto cittadino, in modo da mettere alla frusta il volenteroso commissario. A rendere sullo schermo questo far west metropolitano è chiamato il regista Umberto Lenzi, specialista dell’ultraviolenza, come testimoniano i suoi precedenti nel poliziottesco (il notevole Roma a mano armata dello stesso 1976, e il precedente Milano odia: la polizia non può sparare tra gli altri), ma anche i suoi gialli con venature ora psicologiche e spesso anche splatter. E a contraddistinguere Napoli Violenta, oltre alla tipica violenza delle incursioni criminali, è proprio il ricorso da parte del regista ad alcune scene piuttosto truculente: il criminale che rimane infilzato alla gola sulla cancellata, la ragazza a cui viene picchiata la faccia contro i convogli della funicolare in movimento, o il poliziotto a cui viene rotta la testa con la palla da bowling. 

Cionondimeno Lenzi rispetta pienamente gli stereotipi del genere, fornendo una prestazione ineccepibile dal punto di vista muscolare, magari meno personale rispetto a Roma a mano armata ma sempre con un pizzico di originalità: infatti, se i classici inseguimenti a rotta di collo con le auto non ci sono, il topos narrativo è comunque rispettato. In primo luogo dalle corse a tutta birra con la motocicletta del centauro che porta Casagrande (Elio Zamuto); scene in soggettiva davvero portentose e solo in qualche punto si nota che la pellicola viene accelerata. E, per non essere da meno, in un reticolo cittadino come quello di Napoli non certo agevole, anche Betti fa la sua parte nel merito lanciandosi forsennatamente con la sua Alfetta, causando qualche incidente ma riuscendo, in modo narrativo un po’ troppo sbrigativo (con un frontale auto/motocicletta), a fermare almeno temporaneamente la corsa del  Casagrande, un criminale davvero spietato. Ma non c’è di che preoccuparsi: dopo uno spettacolare inseguimento a piedi, in cui Betti si lancia sopra la funicolare del rione Montesanto (che pare il Merli girò senza controfigura), anche il caso Casagrande viene archiviato a suon di piombo. 


Tra le scene memorabili va ricordata anche la morte del meccanico, bruciato vivo dai malavitosi per non aver pagato il pizzo. Simpatico il rapporto che si crea tra Betti e il povero Gennarino, figlio del suddetto garagista, che si presenta come un vero scugnizzo un poco mariuolo: Lenzi solidarizza con il ragazzino, per la sua verve simpatica e anche per la sorte disgraziata ma, a ben vedere, non tralascia di infliggergli (a livello di scrittura) una severa punizione. Gennarino si fingeva storpio per sbeffeggiare gli automobilisti senza alcun motivo ma, purtroppo per lui, storpio ci finisce sul serio! Tuttavia Lenzi sfrutta questo passaggio nell’economia della sua storia anche in senso positivo, perché è proprio vederlo riattraversare la strada trascinando il piede (stavolta però in modo drammaticamente autentico) convincerà Betti a continuare la sua missione. Bene anche i principali cattivi della storia, da Barry O’Sullivan (O’ Generale) a John Saxon (Capuano) anche se la loro provenienza internazionale fa un po’ perdere di peculiarità alla rappresentazione della criminalità camorrista. Ma sono quisquiglie di infima importanza: com’era prevedibile, né Lenzi né tantomeno il commissario Betti, tradiscono le attese.  




     


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