359_NAPOLI VIOLENTA . Italia, 1976. Regia di Umberto Lenzi.
Nonostante le feroci stroncature della critica, nel 1975 il
film Roma violenta di Marino Girolami
ottenne un lusinghiero risultato al botteghino, in buona parte merito della
riuscita (anche se discussa) figura del commissario Betti, interpretato da
Maurizio Merli. Il personaggio è talmente indovinato che, l’anno successivo,
eccolo di nuovo in azione, stavolta di scena a Napoli, come chiarito subito dal
titolo Napoli violenta che ricalca
quello dell’episodio precedente onde evitare equivoci. L’idea di spostare
l’azione nel capoluogo partenopeo è probabilmente nell’ottica di poter credibilmente
alzare la posta in fatto di violenza generalizzata e criminalità maggiormente
diffusa nel tessuto cittadino, in modo da mettere alla frusta il volenteroso
commissario. A rendere sullo schermo questo far west metropolitano è chiamato
il regista Umberto Lenzi, specialista dell’ultraviolenza, come testimoniano i
suoi precedenti nel poliziottesco (il notevole Roma a mano armata dello stesso 1976, e il precedente Milano odia: la polizia non può sparare tra
gli altri), ma anche i suoi gialli con venature ora psicologiche e spesso anche
splatter. E a contraddistinguere Napoli
Violenta, oltre alla tipica violenza delle incursioni criminali, è proprio
il ricorso da parte del regista ad alcune scene piuttosto truculente: il
criminale che rimane infilzato alla gola sulla cancellata, la ragazza a cui
viene picchiata la faccia contro i convogli della funicolare in movimento, o il
poliziotto a cui viene rotta la testa con la palla da bowling.
Cionondimeno
Lenzi rispetta pienamente gli stereotipi del genere, fornendo una prestazione ineccepibile
dal punto di vista muscolare, magari
meno personale rispetto a Roma a mano
armata ma sempre con un pizzico di originalità: infatti, se i classici inseguimenti
a rotta di collo con le auto non ci sono, il topos narrativo è comunque rispettato. In primo luogo dalle corse a
tutta birra con la motocicletta del centauro che porta Casagrande (Elio
Zamuto); scene in soggettiva davvero portentose e solo in qualche punto si nota
che la pellicola viene accelerata. E, per non essere da meno, in un reticolo
cittadino come quello di Napoli non certo agevole, anche Betti fa la sua parte
nel merito lanciandosi forsennatamente con la sua Alfetta, causando qualche
incidente ma riuscendo, in modo narrativo un po’ troppo sbrigativo (con un frontale auto/motocicletta), a fermare almeno
temporaneamente la corsa del Casagrande,
un criminale davvero spietato. Ma non c’è di che preoccuparsi: dopo uno
spettacolare inseguimento a piedi, in cui Betti si lancia sopra la funicolare
del rione Montesanto (che pare il Merli girò senza controfigura), anche il caso
Casagrande viene archiviato a suon di piombo.
Tra le scene memorabili va
ricordata anche la morte del meccanico, bruciato vivo dai malavitosi per non
aver pagato il pizzo. Simpatico il
rapporto che si crea tra Betti e il povero Gennarino, figlio del suddetto
garagista, che si presenta come un vero scugnizzo un poco mariuolo: Lenzi
solidarizza con il ragazzino, per la sua verve simpatica e anche per la sorte
disgraziata ma, a ben vedere, non tralascia di infliggergli (a livello di
scrittura) una severa punizione. Gennarino si fingeva storpio per sbeffeggiare
gli automobilisti senza alcun motivo ma, purtroppo per lui, storpio ci finisce
sul serio! Tuttavia Lenzi sfrutta questo passaggio nell’economia della sua
storia anche in senso positivo, perché è proprio vederlo riattraversare la
strada trascinando il piede (stavolta però in modo drammaticamente autentico)
convincerà Betti a continuare la sua missione. Bene anche i principali cattivi
della storia, da Barry O’Sullivan (O’ Generale) a John Saxon (Capuano) anche se
la loro provenienza internazionale fa un po’ perdere di peculiarità alla
rappresentazione della criminalità camorrista. Ma sono quisquiglie di infima
importanza: com’era prevedibile, né Lenzi né tantomeno il commissario Betti, tradiscono
le attese.
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