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domenica 3 novembre 2024

INTERCEPTED

1571_INTERCEPTED (Мирні люди). Canada, Francia, Ucraina 2024; Regia di Oksana Karpovych

Ormai ci si è abituati anche a stupirsi, a fronte della genialità con cui il cinema ucraino sta reagendo in modo sempre sorprendente, originale e sconvolgente, alla brutalità della guerra. Intercepted, affascinante ma devastante opera di Oksana Karpovych, propone una soluzione inedita e folgorante per mettere su schermo quella che è nota come «invasione su larga scala» e operata dalla Russia sul suolo ucraino dal 24 febbraio 2022. Nel periodo da marzo a novembre di quell’anno, il servizio segreto ucraino intercettò e registrò decine di telefonate, ore e ore di conversazione, quando i soldati russi chiamavano incautamente casa, nonostante il fermo divieto militare. La Karpovych ha selezionato alcuni frammenti di queste telefonate, di per sé già assolutamente sconvolgenti; ma non si è limitata a ciò. Ha assemblato un filmato video a cui sono state quindi associate le varie intercettazioni; ma non ha, però, scelto di mostrare fasi di combattimento, o comunque quelle azioni concitate o efferate che si sentono raccontare dai soldati di Mosca. Intercepted, da un punto di vista visivo, è un viaggio attraverso i luoghi martoriati dall’azione bellica russa; quello che resta dopo il passaggio della furia devastatrice degli uomini di Putin. In qualche caso ci sono anche immagini con attività umana: un passante, un uomo seduto che fuma, quattro ragazzi che giocano a pallavolo, qualche signora affaccendata, ma sempre in un ambiente desolato, ferito; ferito a morte, forse. Queste scene sono assai peggio di una battaglia in pieno svolgimento che, accanto alla paura, può darti l’adrenalina del combattimento, la voglia di sopravvivere. Nei fotogrammi di Intercepted si fanno i conti con il fatto di essere sopravvissuti, almeno per il momento: e ora? Non sembra davvero ci possa essere una risposta, non in quella distruzione totale che è divenuta l’Ucraina ma la regista non ci sta chiedendo affatto questo. In effetti, una simile riflessione può sorgere solo a visione del film conclusa, perché durante lo svolgimento qualcosa ci turba ancora di più di quello che stiamo vedendo: le voci. La traccia audio di Intercepted lascia assolutamente atterrito anche il più scafato spettatore. Il tema principale, in realtà, non sarebbe nemmeno bellico e nemmeno inerente alla crisi russo-ucraina, ma assai più generale, più basilare, andando a scovare il più malefico e pericoloso legame che si può istaurare –e troppo spesso si istaura– nella società umana, a qualunque latitudine: quello tra madre e figlio maschio. La condizione assoggettata della donna in tanti paesi, e i troppi casi di femminicidio in Italia, sono forse tra i potenziali sviluppi che questo troppo spesso malsano binomio favorisce ma, in questo caso, la questione bellica è ben più urgente e comunque, come vedremo, meno opinabile. Le donne intercettate, perlopiù madri dei soldati russi, lo dicono infatti apertamente ai loro pargoli ormai cresciuti, e più volte: ammazzate tutti gli ucraini che trovate, civili e donne compresi. Un militare racconta che hanno ucciso una donna ucraina davanti ai suoi due figli piccoli: “Giusto!”, approva sua madre. In un’altra telefonata, il soldato riferisce delle torture inflitte ai prigionieri, tipo quella delle «21 rose», dove ci si accanisce sulle venti dita del malcapitato, i venti petali della «rosa» che si aprono proprio come un bocciolo durante la fioritura. Per spiegare quale è il ventunesimo petalo da torturare, il ragazzo russo utilizza un linguaggio volgare, e di questo si scusa con la madre; che, peraltro, evidentemente soddisfatta dell’operato del suo figliolo, non si scandalizza certo per la parolaccia. Per la cronaca, nelle decine di intercettazioni, c’è anche qualche interlocutrice che sembra sinceramente sconvolta da quanto apprende, dalle atrocità che i militari ammettono tranquillamente di compiere. In un caso, una di queste donne ha un comportamento ambiguo: sembra del tutto compiacente della violenza inflitta agli ucraini, quando, ad un certo punto, se ne esce con queste parole: “La distruzione è una scelta. È quando lasci gli altri decidere per te. Noi abbiamo fatto questa scelta semplicemente rimanendo in silenzio”. Il figlio abbozza una replica, ma lei lo prega ripetutamente di non chiamarla più. C’è anche, ma si riportano questi casi che sono le eccezioni, il soldato che prega la moglie di provvedere ad evitare al loro figlio un futuro sotto le armi. In effetti le intercettazioni non riguardano solo le madri: una moglie recapita il messaggio della figlioletta al marito, militare russo impegnato nella famigerata «Operazione Militare Speciale». La bambina, mentre lavora con la scuola a confezionare pacchi di aiuti umanitari, esorta il padre a uccidere tutti gli ucraini e a tornare al più presto a casa, con la palese soddisfazione della mamma per l’amorevole augurio. Il padre chiede lumi: a chi sono destinati gli aiuti? Ai militari russi o ai civili ucraini? La risposta di sua moglie –“ai soldati”, ça va sans dire– lo tranquillizza. In generale, comunque, si registra un’enorme spossatezza, una pesantezza che grava sui militari, che stanno evidentemente patendo la situazione e, nella maggior parte dei casi, sfogano quindi la loro rabbia per la mancanza di via di uscita su chiunque gli si pari d’innanzi.  
Da un punto di vista formale, la regista ben coadiuvata dal direttore della fotografia Christopher Nunn, sfrutta al meglio gli scenari devastati dalla guerra che, ormai lo abbiamo imparato, ben si prestano a venire rappresentati sullo schermo in modo simbolico. Tende svolazzanti delle finestre sventrate su palazzi martoriati, quasi fantasmi che si agitano per la disperazione –ormai quasi un cliché visivo dei film ucraini su questo conflitto– ponti distrutti che si protendono vanamente sulle acque di qualche fiume, si alternano allo schermo ricolmo di oggetti rotti, spaccati, distrutti, sparsi per ogni angolo dell’inquadratura: questa è l’Ucraina oggi. Quello che vediamo è un paese distrutto, mentre, nelle orecchie, abbiamo la frustrazione di quei soldati che questa distruzione l’hanno perpetrata. Un’incongruenza che spiega meglio di ogni altra cosa il nonsense di questa guerra.    




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