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lunedì 24 luglio 2023

LE TRE SCIMMIE

1317_LE TRE SCIMMIE (Üç maymun)Turchia, Francia, Italia, 2008; Regia di Nury Bilge Ceylan.

L’Antonioni turco è l’ingombrante paragone che ha accompagnato il regista Nuri Bilg Ceylan al Festival di Cannes del 2008, dove Le tre scimmie si guadagnò la Palma d’oro per la miglior regia. E, guarda caso, il punto iniziale dell’analisi del suo film finisce per essere quasi sempre se il riferimento al grande regista italiano sia legittimo. Il dubbio sollevato è che il lavoro di Ceylan sia piuttosto un po’ di maniera, che il cineasta turco ricerchi l’approvazione della critica con una messa in scena affidata a riprese spesso fisse e monotone nel tentativo di darsi un tono autoriale. Può essere, tuttavia Le tre scimmie, con le sue immagini sudaticce, i colori caldi e pastosi, la diffusa indolenza visiva, un suo fascino ce l’ha. Visivamente non è un brutto film, Le tre scimmie, e anche il presunto schematismo della trama, con la richiesta che qualcuno paghi un crimine al posto di un altro dietro compenso di denaro che si ripete all’inizio e alla fine del racconto, è meccanismo narrativo legittimo e buono come un altro. Eppure qualcosa effettivamente manca, a Le tre scimmie, per potersi dire un film davvero riuscito, convincente. Le tre scimmie del titolo sono tanto quelle del motto illustrato in cui una non vede, l’altra non sente e la terza non parla, quanto i tre personaggi della famiglia al centro del racconto. Il padre, Eyüp (Yavuz Bingöl) è l’autista di un politico; Hacer (Hatice Aslan) è la sua non più giovanissima ma bella moglie e il giovinastro Ismail (Ahmet Rifat Şungar) l’inconcludente figlio: a loro modo, nell’arco del film, faranno, in un certo senso, voto di omertà proprio come le scimmiette. 

A dare il là alla storia è Servet (Ercan Kesal), l’uomo per il quale abitualmente Eyüp lavora: durante una notte in cui il politico è al volante, investe qualcuno che rimane sull’asfalto senza vita. Ma le elezioni incombono e Servet non può assumersi una simile responsabilità, la sua carriera politica ne uscirebbe distrutta. Ecco quindi la proposta indecente che il brillante individuo sottopone a Eyüp: sei il mio autista, prendi tu la colpa, fatti un anno scarso di galera e ne esci con un bel gruzzolo in cambio. Eyüp, manco a dirlo, accetta, che la sua famiglia non naviga certo nell’oro. Ma la condizione economica, concettualmente, è una giustificazione debole, sia chiaro. Questo è l’incipit della storia, al che la situazione legittima la messa in scena stagnante di Ceylan che, di maniera o meno, ha però un valido pretesto narrativo alla base. Eyüp è al fresco, e non può far altro che aspettare la fine della pena; Ismail, che non ne combina una giusta, non vede l’ora che arrivino i soldi che il padre riceverà in cambio della galera, per dare un impulso ai suoi affari. Niente di che, sia chiaro: vuole fare l’autista per i bambini della scuola, ripercorrendo quindi le orme del padre, e anche questo indica che la storia non fa che tornare sui propri passi. In ogni caso gli serve un’auto, per fare ciò; ma perché aspettare la fine della pena? 

Servet potrebbe sganciare un anticipo, in fondo lui ha beneficiato subito dell’affare. Per la verità, pare di no; sembra proprio che la campagna elettorale sia andata male quindi tutto sto beneficio non c’è stato. Comunque queste cose a Ismail non interessano, a lui interessano solo i soldi. E frequentare gente brutta mentre aspetta di metterci le mani sopra. Così una sera torna a casa malconcio, pestato a sangue e Hacer, che fin lì l’aveva spronato a darsi una svegliata, si lascia sopraffare dal cuore di mamma. Andrà lei da Servet a batter cassa; ma senza dirlo a Eyüp che, visto che sta pagando di persona standosene in gabbia, gradirebbe certamente gestire lui le gratificazioni economiche conseguenti. Ovvio che Servet non è che faccia i salti di gioia nel vedere la moglie del suo autista: deve pagare un favore da cui non ha ricavato quanto sperato e con Eyüp ancora dietro le sbarre si era probabilmente illuso di rimandare la chiusura della questione. Sul momento liquida la donna, poi però la guarda meglio e rivede i suoi conti: Hacer è una bella donna, in ogni caso il debito lo deve pagare ma farlo ora, con l’autista fuori gioco, potrebbe avere dei risvolti piacevoli. 

Hacer, dopo un certo riverenziale imbarazzo, ci prende gusto, anche troppo secondo gli intendimenti di Servet. Perché l’uomo, da buon politico, intende solamente sfruttare al meglio l’occasione e non certo impelagarsi in una torbida storia sentimentale di tradimenti. Un personaggio squallido, certamente; ma non l’unico della vicenda, anzi. Ed è qui che il film di Ceylan perde la sua partita, non tanto per le pretese autoriali più o meno degnamente supportate dalla qualità del suo film. Le tre scimmie non è un film memorabile perché non c’è nessun personaggio che sia umanamente degno di nota. In effetti il regista ne dev’essere consapevole, se ha scelto un titolo in cui paragona i suoi protagonisti ai simpatici animaletti della storiella metaforica. Riassumendo: Eyüp, nell’accettare di pagare per un crimine non suo, si mette moralmente sul piano di chi quel crimine l’ha commesso, Servet. Non ha caso, nel finale, proverà a rifilare la patata bollente causata dal figlio ad uno più disperato di lui, in una ripetizione dell’insano gesto, pagare qualcuno per evitare di assumersi le proprie responsabilità, che non lascia alcun presagio ottimistico. Hacer sembra una brava donna, ma solo perché è inquadrata in un sistema che non gli concede libertà; casalinga, moglie, madre. 

Ma appena le capita una mezza tentazione, perde completamente la testa come una ragazzina. Il peggiore del mazzo è comunque Ismail che, alle carenze morali ereditate dai genitori, assomma una sfacciataggine e una mancanza del minimo senso di responsabilità e di rispetto, assolutamente disarmanti. Sullo schermo il momento peggiore gli spetta di diritto ed è quando schiaffeggia sua madre perché ne ha scoperto la tresca con Servet. In un piccolo gesto, una mancanza di rispetto molteplice: nei confronti di sua madre, di una donna, di una persona più anziana di lui oltre che di qualcuno che, se ha sbagliato, lo ha fatto anche e soprattutto in conseguenza delle sue insistenze. Se invece prendiamo come valore assoluto del gesto in sé, ovviamente, l’assassinio di cui si rende protagonista supera di gran lunga la vigliaccheria dell’omicidio stradale commesso da Servet in apertura. Lui riesce ad essere il peggiore per distacco in un quadro che non offre nessun appiglio positivo. D’accordo che al cinema oggi si trovano abitualmente storie senza eroi tutti d’un pezzo, e ci mancherebbe, ma almeno l’ombra di umanità capita di intravvederla. E, a proposito di ombre, può venire il dubbio che il fantasma del fratellino di Ismail, morto ancora bambino, quando appare a Eyüp, voglia spronarlo a cercare nel passato l’umanità da tempo perduta. E forse per questo che l’uomo trova in qualche modo la maniera di perdonare la moglie dopo che, in una delle sue visioni, la donna si era buttata da un ponte. Senso di colpa: toh! un barlume d’umanità. L’unico nel film. Peccato sia venuto ad uno spettro.  


Hatice Aslan 





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