Translate

venerdì 24 gennaio 2020

LA PATTUGLIA SPERDUTA

509_LA PATTUGLIA SPERDUTA (The Lost Patrol); Stati Uniti, 1934. Regia di John Ford.

A guardarlo oggi, La pattuglia sperduta, film di John Ford del 1934, è davvero strano. Chissà se gli intenti del regista, al tempo, fossero quelli che, a vedere l’opera quasi un secolo dopo, sembrano ora evidenti. La pattuglia sperduta ha infatti le caratteristiche di un film quasi sperimentale. Intanto il protagonista, Victor McLaglen, è un noto caratterista e non il tipico eroe di una storia avventurosa; manca quindi, in un film d’azione, il perno su cui la vicenda deve sorreggersi. Tra l’altro, il personaggio di McLaglen non ha nemmeno il nome ma per tutto il film è chiamato semplicemente col suo grado militare, sergente. Quindi non ha nemmeno i gradi militari tipici del personaggio protagonista, dove, in questo senso, andrebbe bene una qualsiasi scelta tra quelli degli ufficiali. Per contrapposizione, altre volte, al centro della scena nei film di guerra vengono messi i soldati semplici, ma ben raramente i sergenti che, per vocazione narrativa, sono in genere figure di supporto. Insomma, in una storia che racconta di una pattuglia perduta, abbiamo perso anche il protagonista tipico: che nel film potrebbe essere rappresentato dall’ufficiale ucciso in avvio. A questo proposito, in quell’inizio c’è anche una breve didascalia che ci dà le istruzioni minime, ma davvero minime, per ambientare la storia del film. Deserto della Mesopotamia, prima guerra mondiale, soldati inglesi e nemici arabi. Le informazioni della missione le ha l’ufficiale che, come detto, muore senza avere il tempo di fare o dire qualcosa di significativo: e così il sergente, come lo spettatore, non sa nulla dell’obiettivo militare dell’operazione. Non sa nemmeno dove si trovano, del resto il film si intitola La pattuglia sperduta

Da un punto di vista narrativo, è evidente l’intenzione di Ford di spogliare di tutto quanto, ma davvero tutto, il suo racconto. Il che è già un bel modo per mostrare l’insensatezza della guerra, in modo intrinseco al racconto filmico: i soldati sono mandati a combattere, ma non sanno niente delle motivazioni né delle strategie. Nel film, e in questo Ford è davvero sperimentale, di fatto manca anche il nemico, con gli arabi che incombono come presenza minacciosa e letale ma si palesano solo drammatico nel finale. E il loro esiguo numero, sono in netta inferiorità rispetto alla pattuglia che hanno decimato, toglierà anche il manto di eroicità a cui i soldati inglesi potevano ambire. 


Questo utilizzo del nemico come presenza che aleggia minacciosa, più che come avversario concreto da affrontare, tornerà in Ford nel capolavoro Ombre Rosse e, La pattuglia sperduta, sembra in effetti una sorta di studio in quell’ottica. Sotto questo aspetto c’è però la vera natura del film, che si basa sui rapporti tra i membri della pattuglia, messi sotto pressione e in costante tensione dalla situazione. Anche questo è una sorta di anticipo di quello che accadrà ai protagonisti del capolavoro con John Wayne coi personaggi in viaggio nella diligenza: sembra mancare però, in La pattuglia sperduta, un’organizzazione così studiata delle varie personalità dei membri del racconto. Ma del resto si è detto che è un film che si fonda sull’assenza, su qualcosa che si è sperduto. Manca il protagonista, manca la storia, manca il nemico, e mancano anche i comprimari che si fanno piuttosto notare per stupidità. 

Il sergente, no, per la verità, lui è soltanto un omaccione burbero ma bonario chiamato a recitare il ruolo di leader che però non gli è congeniale. Qui va, per onor di verità, aperta una parentesi. Questa è l’impressione che si avverte oggi, ovvero che McLaglen non avesse le stigmate dell’eroe. E, volendo, c’è da credere che John Ford, che di personaggi eroici del cinema dimostrerà di intendersene, l’avesse capito. Però va detto che McLaglen, al tempo, era forse ancora ad un bivio: nel successivo Il traditore, sempre per la regia di Ford, il simpatico Victor sarà ancora al centro della scena del film, guadagnandosi persino l’Oscar come attore protagonista. Forse Ford con McLaglen stava cercando il suo eroe americano, quello che poi sarà incarnato da John Wayne? O l’utilizzo di McLaglen, in La pattuglia sperduta, prevedeva di sfruttarne proprio l’inadeguatezza al ruolo di protagonista? Sembrano valide entrambe le ipotesi.

Non ci sono dubbi, invece, che il resto della truppa della pattuglia inglese sia tratteggiato in modo non troppo benevolo da Ford: certo, c’è dispiacere per il ragazzo giovane e impreparato, mandato a morire per l’insensatezza della guerra, ma dalla follia religiosa del personaggio di Boris Karloff alle battute razziste un po’ troppo gratuite, personaggi memorabili tra i soldati inglesi non se ne contano. Da questo punto di vista l’esperimento di Ford sembra quindi avere un esito negativo: si può togliere tutto alla storia di un film, ma non i personaggi carismatici. Detto questo, va comunque sottolineato che il film è di buonissimo livello; notevole, ad esempio, la musica di Max Steiner, e comunque anche gli interpreti coinvolti fanno la loro parte in modo professionale. Lo stesso McLaglen, in ogni caso, non ne esce affatto male: anzi, viene un po’ il sospetto, confermato poi da successivi occasioni in cui l’attore recita per conto di Ford, che il regista lo maltratti un po’ troppo, destinandogli ruoli eccessivamente macchiettistici. McLaglen non sarà stato John Wayne, ma era comunque un validissimo interprete e lo dimostra anche nello scomodo ruolo del sergente de La pattuglia sperduta.  






mercoledì 22 gennaio 2020

IL CORSARO NERO

508_IL CORSARO NERO ; Italia, 1976. Regia di Sergio Sollima.

Kabir Bedi, Carole Andrè, Emilio Salgari, i fratelli De Angelis e naturalmente Sergio Sollima: questi sono gli artefici che accomunano Sandokan, lo sceneggiato televisivo, e Il Corsaro Nero, il film, usciti entrambi nel 1976. Praticamente lo stesso team creativo, dalla coppia di protagonisti, all’autore del soggetto, dai compositori delle musiche (fondamentali) al regista, oltre naturalmente al tema piratesco. E assai simile è il risultato: praticamente un capolavoro Sandokan, sebbene in genere la critica lo abbia sempre derubricato a semplice buon prodotto di intrattenimento, e eccellente anche Il Corsaro Nero, anch’esso abitualmente assai poco stimato. Invece Il Corsaro Nero è un film d’avventura notevole, molto divertente, appassionante, ma anche vigoroso e tragico. Certo, è innegabile che ci sia qualche passaggio a vuoto, ma del resto i film di pirati sono molto difficili da gestire; nello specifico furono profusi ingenti investimenti, molti dei quali andati perduti con l’affondamento di una nave durante le riprese. Oltre alle evidenti difficoltà di realizzazione, (per capirci: si faccia un paragone con un film western, dove si piazza il set  nella prateria invece che in mezzo al mare) anche il periodo storico non aiuta moltissimo ad appassionare il pubblico giovanile, che è il più appetibile per questo genere di pellicole. Un conto è vedere dei tizi vestiti casual, come in effetti sono i cowboy dei western, maneggiare armi a ripetizione, un altro è vedere i damerini vestiti a festa del XVII secolo armeggiare con le loro esili spade o al massimo con gli archibugi. 

In effetti a rompere un po’ la tipica diffidenza del pubblico italiano verso il genere fu proprio il Sandokan televisivo, di ambientazione più tarda e con i pirati malesi che, con le loro vesti pittoresche e un po’ trasandate, erano però assimilabili alle tendenze hippy dei seventies, e quindi di gusto contemporaneo. Ma ora, proprio grazie a Sandokan, e soprattutto a Kabir Bedi, era possibile azzardare anche una trasposizione di un altro eroe salgariano, Il Corsaro Nero, appunto. L’interessante personaggio è protagonista di un ciclo di racconti, i primi due dei quali sono alla base del soggetto utilizzato da Sollima per il suo film: Il Corsaro Nero e La Regina dei Caraibi. Kabir Bedi se è possibile è ancora più in forma che in Sandokan: domina la scena, trasuda carisma da ogni poro della pelle, ed è perfetto nel ruolo che, va specificato, ha comunque delle differenze con la Tigre della Malesia. Leale, democratico, istruito, è però anche assai cupo, spietato, con un senso dell’onore eccessivamente estremo: il carattere del Corsaro Nero lascia poi perfino interdetti quando condanna a morte la donna che ha scoperto di amare. Passaggio davvero duro da digerire, questo, ma indispensabile nel tratteggiare il rigore del protagonista e della politica occhio per occhio, dente per dente, assai in voga al tempo, e certamente diffusa anche nei tribolatissimi anni 70. Perché Sollima, non smette affatto la veste di educatore cinematografico, che si era preso la briga di rendere esplicita in Sandokan; in effetti, moltissimi spaghetti-western avevano questa vocazione, più o meno celata dietro i dialoghi scurrili o le battute scatologiche. 

Già la trilogia dei western politici dello stesso Sollima aveva un approccio impegnato al genere, ma era anche diffuso, si pensi ad esempio ai film di Ringo di Duccio Tessari, un atteggiamento pedagogico del filone, forse che alcuni registi tenessero in conto che molte delle sale in cui venivano proiettati gli spaghetti-western erano quelle degli oratori. Con Sandokan, Sollima aveva fatto tesoro della lezione, riuscendo a mettere in equilibrio un racconto duro e vigoroso, senza scadere nell’eccessivo o nelle efferatezze gratuite; il tutto in relazione alle stringenti esigenze televisive. Con Il Corsaro Nero, prodotto puramente cinematografico, Sollima ha certamente meno limitazioni, ma opta per un racconto comunque mondato dagli eccessi efferati o volgari (c’è solo qualche allusione sul piano erotico), senza rinunciare al tono tragico ed estremo del racconto. Anche troppo, in verità: la povera Honorata (Carole André, in gran forma) è lasciata dal Corsaro Nero e dai suoi, con una barca in mezzo al nulla del mare, incontro a morte certa, unicamente per la colpa di essere figlia del nemico, Van Gould (Mel Ferrer). Qui è evidente la critica a questo atteggiamento vendicativo dell’eroe, del resto già ammesso dal Corsaro Nero stesso attraverso il pianto sofferto; ma sarà la vena spirituale (un po’ naif, va detto) dell’opera a rendere manifesta la condanna all’insensata politica del taglione e del farsi giustizia da sé. Nel momento cruciale, quando il conte di Ventimiglia (alias il Corsaro Nero) ha finalmente a tiro di spada l’odiato Van Gould, sarà l’intervento spirituale dei fratelli, ovvero il Corsaro Verde e il Corsaro Rosso, precedentemente uccisi a tradimento dal nemico, a fermare la mano dell’eroe. 


Anche se poi Yara, la india-medium legata dai drammatici lutti famigliari al Corsaro Nero, chiarirà all’eroe che, in realtà, il suo cuore era già stato guarito dall’odio grazie all’amore di e per Honorata. Odio e amore sono intessuti in una vicenda avventurosa che, come da coordinate del genere, concede ampio spazio agli aspetti sentimentali; qui la vicenda amorosa è molto intensa, come i baci tra il Corsaro Nero e Honorata, anche perché, in termini di durata temporale, è compressa nel centro del racconto. In ogni caso è un film di pirati, l’avventura più pura reclama il suo spazio e Sollima glielo concede: arrembaggi, attacchi all’arma bianca, duelli, fughe, il racconto è vivace e sostenuto. 

Ottima, come al solito in Sollima, la deriva ironica quando non direttamente comica, con i personaggi come Morgan (Angelo Infanti), leggendario e famosissimo pirata di cui, almeno qui, nessuno sembra ricordare il nome, oppure con i refrain testa o croce tra i fratelli del protagonista. All’altezza anche le comparse: Van Stiller (Franco Fantasia), Carmaux (Sal Borgese), l’Olonese (Edoardo Faieta) e anche la marchesa di Bermejo (Dagmar Lassander), che aggiunge un  po’ di pepe rosa alla vicenda. Se in molti aspetti l’opera ricalca la formula del precedente successo televisivo, avrebbe avuto poco senso fare diversamente con le musiche. Chiamati quindi a trovare una melodia all’altezza della situazione, con lo scomodo termine di paragone delle fortunatissima sigla di Sandokan, i fratelli De Angelis non tradiscono le attese. Hombres del mar è un pezzo fortemente evocativo, in questo senso persino migliore della canzone dedicata alla Tigre della Malesia, e il suo tema sorregge benissimo la colonna sonora, soprattutto grazie  a José (Tony Renis) che accompagna le gesta dei nostri eroi suonando una sorta di flauto; bella anche la traccia dedicata a Yara. Il finale è forse eccessivamente sdolcinato, con i nostri che scampano la pelle miracolosamente, finendo su un’isola paradisiaca dove trovano ad aspettarli addirittura Honorata, salvata anch’essa da un generoso dio del mare. Troppa grazia? Beh, Sollima aveva già fatto morire Marianna, e la fine apparentemente riservata a Honorata non era davvero accettabile. Il lieto fine ce lo doveva, altroché. 



Carole André




lunedì 20 gennaio 2020

LO SPERONE INSANGUINATO

507_LO SPERONE INSANGUINATO (Saddle the wind); Stati Uniti, 1958. Regia di Robert Parrish.

I titoli di testa di Lo sperone insanguinato scorrono sulla dolce musica della canzone Saddle in the wind, in onore al titolo originale dell’opera, certamente più inerente al testo rispetto alla versione italiana. L’espressione usata per intitolare il bel western di Robert Parrish letteralmente significa sellare il vento, facendo riferimento al vano tentativo di domare, imbrigliare, qualcosa di ingovernabile come l’aria. Il che è certamente adeguato per riferirsi al rapporto tra i due protagonisti del film, ovvero il maggiore dei Sinclair, Steve (Robert Taylor), che funge da tutore allo scatenato fratello Tony (John Cassavetes). Che si tratterà di un film che mette in scena un rapporto contrastato, lo si può capire dall’incipit della pellicola: alla musica soave dei titoli di testa succede infatti una scena davvero sgradevole dove un pistolero arriva nella classica bettola del west e si mette a fare il prepotente prendendosela con i due poveri e inoffensivi inservienti. Il ceffo rientrerà in scena successivamente, avendo un conto da regolare con Steve, incontrando però il fratello minore Sinclair. Il risultato dello scontro, nonostante avvenga col fratello sbagliato, è prevedibilmente identico; ma non  per questo possiamo ritenere simili tra loro i due Sinclair. Sebbene, in genere, il vestiario dei cowboy non offra poi molte variabili, sorprende come i due fratelli siano abbigliati in modo praticamente uguale: ma questa omogeneità, che si somma a quella assai generica del colore dei capelli, non fa che mettere in contrasto l’assoluta estraneità di uno rispetto all’altro. Taylor e Cassavetes, a livello somatico, non saranno tra i fratelli meno probabili della storia del cinema, questo magari no, ma davvero non sono molto credibili in questa parentela. 

Già la differenza di età è insolita, cosa che, nel racconto filmico, è notata anche da Joan (Julie London), che osserva come il maggiore si comporti più da padre che da fratello di Tony. La trama mette a confronto un ex pistolero, che ora vuole fare semplicemente l’allevatore di vacche, al fratello che anela invece a diventare una celebrità della pistola. Tema certamente non originale ma il regista lo sviluppa in modo personale, soprattutto considerando che siamo ancora negli anni cinquanta, la golden age del cinema western. Parrish sfrutta la scelta dei suoi attori in senso metalinguistico, prendendo cioè due attori di scuola diversa, anche per via dell’età degli interpreti, per enfatizzare il contrasto ricercato. 

Taylor è un attore del periodo classico: alto, di bell’aspetto, dal portamento elegante, è sicuro di sé e recita il ruolo dell’eroe americano in modo semplice ed efficace. Cassavetes è smanioso, aggredisce la scena quasi incurvandosi costantemente in avanti, ha lo sguardo allucinato di chi, quando è sul set, è come in trance agonistica. E’ però anche un esempio, magari soltanto un po’ estremo, del nuovo che avanza ad Hollywood; e di riflesso, in America. Gli anni sessanta incombono e la serafica calma dell’eroe classico certo di essere nel giusto comincia ad incrinarsi, mentre i personaggi problematici si fanno sempre più strada. Parrish li mette uno a fianco all’altro e, sebbene siano fratelli e anche molto legati, finiranno inevitabilmente uno contro l’altro. Il risultato dello scontro è tutt’altro che scontato ed è sorprendente oltre che frutto di una riflessione assai lucida. L’eroe classico americano è certamente più giusto, lo è per antonomasia, ma l’antieroe, pur nelle sue contraddizioni, può avere slanci di umanità sconosciuti al primo. Tuttavia, sebbene questo sia un tema trattato in modo egregio da Parrish (e dai suoi collaboratori, tra cui spicca l’autore del soggetto, Rod Serling), ci sono anche altri aspetti interessanti. 

Il personaggio femminile è per la verità poco approfondito, anche se va detto che il regista pone l’accento sulla condizione contraddittoria della ragazza della storia: fondamentalmente scelta da Tony per il suo aspetto gradevole, deve giustificarsi con Steve proprio per questa sua avvenenza. Ma la cosa si esaurisce lì e in fondo è più articolata la valutazione a cui sono sottoposti i due protagonisti de Lo sperone insanguinato. Se appare evidente che, nell’ottica western che Parrish imprime alla sua storia, Steve sia un personaggio decisamente migliore rispetto al violento Tony, sorprende il giudizio negativo con cui li accomuna il patriarca della vallata, mister Deneen interpretato da Donald Crisp. Crisp, pochi anni prima, nel fondamentale L’uomo di Laramie (di Anthony Mann, 1955) aveva interpretato un personaggio del tutto simile: e anche qui è un vecchio colono che governa con la sua autorità, fondata sul diritto di precedenza, l’intera comunità insediatasi nella vallata dopo di lui. 

Steve era al servizio di mister Deneen, con il quale condivise i turbolenti anni della conquista dei territori: ora però il vecchio non solo era critico nei confronti del suo ex dipendente, ma lo accomunava all’incontenibile e violento fratello. Come poteva, un uomo che sembrava essere divenuto più saggio con l’età, tanto da misconoscere i vecchi sistemi, non cogliere le differenze tra i due? Parrish lascia dapprima la risposta in sospeso, poi ce ne offre una dimostrazione concreta quando fa giungere nella valle l’erede del precedente possidente dei pascoli dei Sinclair, Ellison (Royal Dano). Il padre di Ellison era il proprietario di quelle terre su cui ora si estendevano molti dei pascoli utilizzati dagli allevatori della zona, come detto, in particolar modo dai Sinclair. 

L’uomo era emigrato ma, ora, passata una ventina d’anni, suo figlio si ripresentava con un regolare documento di proprietà e l’intenzione di installarsi sul proprio appezzamento e dedicarsi all’agricoltura. L’accoglienza che gli riservano i due fratelli Sinclair è si differente, ma solo nei modi: Steve intima ai nuovi venuti di sloggiare, non intende sentir ragioni. Da parte sua Tony passa subito alle vie di fatto, ovvero mettendo in pratica quella violenza, come forma di intimidazione, che il fratello aveva soltanto minacciato. C’è quindi una diversità tra i due fratelli, nelle modalità di imporre la propria volontà ma c’è lo stesso spregio per il diritto e la giustizia. Ripensando agli indiani, e in un western è impossibile non farlo, fa specie vedere il classico eroico cowboy vantare il diritto di tenersi la terra semplicemente perché la sta occupando da oltre vent’anni. 


In questo senso il film di Parrish finisce per essere quasi rivoluzionario: il filo spinato, con cui Ellison vuole proteggere le sue colture dal bestiame, è da sempre, nel Far West, un simbolo negativo, il simbolo di quella mal sopportata civiltà che, con le sue leggi e i suoi divieti, arrivava a limitare la libera vita dell’ovest. Una descrizione epica ma intrisa tanto di romanticismo quanto di ipocrisia. E nel momento in cui Parrish toglie l’ipocrisia, anche il romanticismo va a farsi benedire, con scorno della povera Julie London il cui personaggio finisce per fare carta da parati, nonostante qualche blando ammiccamento con Steve. Interessante, dunque, questo Lo sperone insanguinato, perché, mentre regge comunque benissimo la veste di western classico, è già clamorosamente moderno. 


Julie London









sabato 18 gennaio 2020

LA LEGGENDA DEL RUBINO MALESE

506_LA LEGGENDA DEL RUBINO MALESE ; Italia, 1985. Regia di Antonio Margheriti.

Indovinello: siamo dalle parti della Malesia, c’è un pirata che chiamano Tigre e un personaggio chiamato Yanez. No, non è il Sandokan di Sergio Sollima, ma La leggenda del rubino malese di Antonio Margheriti. A parte questi evidenti omaggi allo sceneggiato con Kabir Bedi, il film di Margheriti si iscrive principalmente nella scia de I predatori dell’Arca perduta, pellicola del 1981 di Steven Spielberg che darà luogo ad una nuova corrente di film avventurosi negli anni 80. L’idea di Spielberg era certamente geniale e, oltre ai sequel del capostipite, si contarono molti altri esempi nel genere, anche illustri come All’inseguimento della pietra verde di Robert Zemeckis del 1984. La Immagine, la casa di produzione italiana di La leggenda del rubino malese, non poteva certo competere in fatto di budget con questi prodotti di Hollywood ma non è tanto questo che va ad incidere sulla completa riuscita del film di Margheriti. Perché, pur se non si tratta certo di un capolavoro, La leggenda del rubino malese è un film divertente e appassionante, infarcito da riferimenti metalinguistici che sottolineano la passione del regista per il suo lavoro; peccato per qualche inciampo di troppo al di là dei prevedibili limiti di budget. Oggi, infatti, con uno sguardo benevolo su quei tempi, si può benissimo tollerare un vulcano posticcio; nel corso degli anni se ne sono visti anche nel cinema di Hollywood, del resto. E chiudiamo volentieri anche un occhio per qualche approssimazione nell’intreccio narrativo, perché ben mascherata dal ritmo incalzante, del resto Margheriti ci sa fare. E’ certamente più faticoso accettare la scena del bambino che discute con un serpente (un cobra dagli occhiali), o anche l’idea che il pirata della storia, il citato Tigre, utilizzi l’enorme rubino al centro della ricerca come ornamento del suo copricapo invece di pensare a venderselo e usare il ricavato per organizzarsi militarmente. Qualche perplessità anche sulla scelta dell’interprete femminile, Marina Costa, (che è Maria Janez) la cui presenza scenica non irresistibile non regge la parte che la storia le riserva. Va un po’ meglio sul versante maschile, dove Christopher Connelly (nella parte di capitan Yankee) se la cava in modo più che sufficiente, aiutato dal mestiere di Luciano Pigozzi (nel ruolo di Gin Fizz). 


L’incipit del film è un chiaro tributo a I predatori dell’Arca perduta, con cui la pellicola di Margheriti condivide anche il periodo d’ambientazione, gli anni ’30 del XX secolo, ma poi il regista dispensa una serie di omaggi destinati quasi tutti a produzioni italiane, non solo cinematografiche. Qualche passaggio, specie all’inizio, richiama infatti il genere cannibal, che ha furoreggiato per anni nella penisola, c’è poi l’inseguimento delle auto stile poliziotteschi (sebbene in trasferta esotica) infine Lee Van Cleef (è Warren), dopo le prime scene, si presenta vestito di nero col cappello da cow boy proprio come nei tanti spaghetti western interpretati. Del richiamo, anzi, dei vari richiami al Sandokan si è detto, e già che ci siamo approfittiamone per lasciare il cinema, (visto che quella di Sollima era una produzione televisiva), per occuparci di un altro media citato da Margheriti. Il vestiario di capitan Yankee non può non ricordare Corto Maltese, il fumetto di Hugo Pratt che viveva spesso le sue avventure in luoghi esotici. Ma in tema di fumetti, il protagonista del film richiama forse maggiormente il Mister No protagonista di una collana scritta da Sergio Nolitta (nome d’arte di Sergio Bonelli) per i disegni, tra gli altri, di Roberto Diso. Del resto molti passaggi narrativi del film hanno lo spessore tipico di quelli delle storie con le nuvole parlanti, in genere meno realistici e più confidanti nella fantasia del lettore rispetto a quanto abitualmente avvenga nelle produzioni cinematografiche. 

Anche ricordando il passaggio del bambino col cobra, ma non solo, in questo senso Margheriti esagera un po’ ma va detto, ad onor del vero, che questa è una caratteristica comune a tutto quanto il filone avventuroso degli anni 80. Anni 80 a cui il film decide di ascriversi pienamente e non solo per gli inguardabili credits tipici del tempo: Maria Yanez, nell’ultima scena, decide di tenersi il rubino e non cederlo al museo a cui era destinato. Anzi, del museo sembra ironicamente nemmeno ricordarsene. Ecco, in questa capacità opportunistica di dimenticarsi ogni cosa, scrupoli morali compresi, per cogliere al volo le occasioni, è ben sintetizzato il decennio del vuoto pneumatico.
Ed è un peccato che Margheriti ci caschi in pieno.     



venerdì 17 gennaio 2020

ESTASI

505_ESTASI (Song without end); Stati Uniti, 1960. Regia di George Cukor e Charles Vidor.

Charles Vidor morì durante le riprese di questo Estasi, film dedicato ad una biografia parziale del formidabile musicista Franz Listz, e venne sostituito da George Cukor. E’ prevedibile che, quando subentrino questi problemi in sede di produzione, sia poi difficile che l’opera terminata abbia una sua precisa e personale identità. Cukor, stando alle dichiarazioni degli attori coinvolti, migliorò il rapporto con loro essendo, come noto, un regista molto abile nella gestione degli interpreti. In una situazione in cui nessuno dei due registi coinvolti può aver lavorato pienamente all’opera, in questo caso fortunatamente quello che rimane, ovvero la musica di Listz, vale comunque il prezzo del biglietto. Ci sono, anche perché sono uno degli elementi della vita del formidabile musicista, le vicende sentimentali, a far da collante al racconto, con la storia d’amore tra il musicista (interpretato da Dick Bogarde) e la contessa Marie (Geneviève Page) che si esaurisce quando l’uomo incontra la principessa russa Carolyne (Capucine). Cukor, a cui pare si debba la maggior parte di quanto vediamo sullo schermo, sa bene come gestire questi passaggi anche se, per la verità, l’intrigo sentimentale non incide poi più di tanto. Si risolleva soltanto nel finale, quando viene esplorata anche la vena religiosa, con il vano tentativo di Listz e Carolyne, che era già sposata, di sancire il loro amore con il matrimonio. Sono effettivamente episodi della vita del musicista che, a suo tempo, era considerato come una moderna pop-star, con risvolti sentimentali sempre in aggiornamento costante. 

Il parallelo valeva anche negli anni 60, tanto che la pettinatura di Bogarde, nel film, ricorda quella di Elvis Presley più di quella di un uomo, seppur fosse una sorta di dandy, del 1800. Ma, come accennato, tutto questo viene messo in secondo piano dalla musica: Estasi si propone quindi come una sorta di splendido concerto, con una messa in scena per quanto maestosa a far da semplice supporto al superbo commento sonoro. Uno stuolo di esperti e musicisti venne infatti ingaggiato, tra i quali il talentuoso Jorge Bolet, e Bogarde dovette studiare duramente per imparare a dare almeno l’idea di essere in grado di suonare il pianoforte. Il risultato è una colonna sonora stupefacente, giustamente Oscar nel 1961, con brani dello stesso Listz, ma anche di Beethoven, Wagner, Verdi, Bach, e tanti altri. In modo naturale Listz eccelleva prevalentemente come interprete, dando alle musiche di altri una resa che gli stessi autori non riuscivano spesso ad ottenere. Sotto la spinta, prima della contessa Marie e poi della principessa Carolyne, il musicista otterrà risultati e riconoscimenti anche come compositore. Splendido il tema del film Song without end, che rimane nel cuore più che nelle orecchie: insomma, se per una volta siamo di fronte ad un cinema da gustarsi prevalentemente con l’udito più che con la vista, l’emozione non manca comunque.   




Capucine







Geneviève Page