1742_LA VALANGA DEI SIOUX (Hiawatha), Stati Uniti 1952. Regia di Kurt Neumann
Tra i tantissimi sciagurati esempi di titoli di film cambiati, rispetto alla traduzione letterale o quantomeno al senso dell’originale, per la distribuzione in Italia, La valanga dei Sioux rappresenta uno dei casi peggiori. Se diamo conto alla considerazione che ha il film di Kurt Neumann, si potrebbe pensare ad un danno lieve, dal momento che La valanga dei Sioux non gode certo di recensioni entusiaste. In effetti è una pellicola dal budget risicato e contraddistinta di un’ingenuità di fondo che non la rende certo un’opera mirabile o particolarmente memorabile. Tuttavia questi limiti, presenti sin dalla versione originale del film, non inficiano del tutto i lodevoli intenti di Neumann e dagli sceneggiatori Arthur Strawn e Dan Ullman. Che, stando a Steve Brody, presidente della Monogram Pictures, studio produttore del film, non erano solo quelli che possiamo intendere oggi, ovvero la volontà divulgativa, per quanto in modo approssimativo, della cultura dei nativi americani. Il messaggio pacifista veicolato da La valanga dei Sioux, per quanto oggi possa sembrare scontato e condivisibile, nei primi anni 50 poteva essere interpretato come propaganda comunista o comunque strumentalizzato in tal senso. Brody, consapevole dei rischi che correva, decise di posticipare la produzione per non interferire con una tornata elettorale che coinvolgeva, oltretutto, un editore anticomunista di un giornale di Los Angeles. A testimonianza del clima dell’epoca, Strawn, che aveva curato la sceneggiatura partendo dal poema epico The Song of Hiawatha di Henry w. Longfellow, fu, successivamente, inserito nella famigerata Lista Nera di Hollywood. Battaglie politiche del tempo a parte, come detto, alla base di Hiawatha, questo il titolo originale del film di Neumann, c’è un poema epico di Longfellow a cui sono ascrivibili le prime imprecisioni. Longfellow era il poeta americano più famoso del suo tempo, il XIX secolo, e aveva nobili intenti artistici, educativi e divulgativi. In effetti la sola idea di dedicare una delle sue opere ai nativi americani –in forma epica, oltretutto– è una valida testimonianza delle qualità umane di questo artista.
In ogni caso, per molti studiosi, l’idea di utilizzare il nome di Hiawatha per il protagonista del suo canto epico è fuorviante: nel racconto di Longfellow si tratta di un guerriero Ojibwe (una tribù nota anche con il nome di Chippewa) mentre il personaggio storico a cui è ispirato era il fondatore della Lega degli Irochesi. Trattandosi di Epica e non di Storia l’osservazione è certamente utile ma non così determinante per stabilire che si tratti effettivamente di un errore da parte di Longfellow. Come si vede, le imprecisioni, tollerabili o meno, cominciano da lontano e i distributori italiani non furono gli unici ma certamente furono i peggiori di questa curiosa filiera. Tornando a seguire l’ordine cronologico delle fasi realizzative del film, gli sceneggiatori de La valanga dei Sioux utilizzarono poi strumentalmente la cultura equilibrata dei nativi americani per un messaggio che fronteggiasse la retorica bellicista degli anni 50. “Forse se noi non avessimo sempre cercato la gloria, oggi non saremmo odiati dagli altri” sono le ultime parole pronunciate prima di morire dal capo Iagoo (Morris Ankrum) e sembrano decisamente un atto di accusa alla corsa agli armamenti che contraddistinse la Guerra Fredda. I limiti del film di Neumann sono poi formali, sotto ogni aspetto: la storia è banale e la sua messa in scena è onestamente inadeguata. Per il primo aspetto va forse considerato che l’obiettivo degli autori sembra appunto scorgere in un poema epico vecchio di cent’anni, e in culture native ancora più antiche, una lezione da imparare in quella che sembrava a tutti gli effetti l’alba della modernità, i Fabulous Fifties. Per quel con concerne la messa su schermo vera e propria, il film sconta i limiti di budget: gli indiani sono vestiti in modo anche discretamente fedele, ma i protagonisti sono tutti attori caucasici per niente credibili nel ruolo.
Nello specifico, si possono almeno ricordare Vince Edwards nei panni di Hiawatha (nella versione italiana Occhio di Falco), Yvette Duguay in quelli di Minnehaha (Raggio d’Oro per il pubblico italiano) e Keith Larsen in quelli di Pau PukKeewis (è Penna d’Aquila nel nostro paese), il villain della vicenda. La questione dei nomi era abbastanza delicata già in origine, in quanto, come detto, Hiawatha era lo storico pacificatore che aveva ideato la Lega degli Irochesi. In questo caso è il nome di un Ojibwe che, grazie anche alla sua storia sentimentale, cerca di stabilire un’intesa se non una vera e propria alleanza coi vicini ed ingombranti Dakota. Nella storia ci sono anche gli indiani Illiniwek, caratterizzati da un look diverso rispetto ai Ojibwe e ai Dakota, più affini tra loro, e nel racconto figurano unicamente come avversari con cui l’intesa non è ricercata. In effetti, anche la Lega degli Irochesi, a cui evidentemente il poeta Longfellow si ispirò per ideare il suo racconto, era un’alleanza che prevedeva, rare eccezioni a parte, intesa tra i popoli di lingua irochiana e ostilità aperta verso quelli di lingua Algonchina. In Italia, un panorama già abbastanza complesso di suo viene reso del tutto incomprensibile e privo di ogni senso logico dalle traduzioni dei nomi delle tribù, davvero deprecabili. Gli Ojibwe della versione originale diventano senza alcuna logica i Sioux; i Dakota rimangono Dakota, d’accordo, peccato che Sioux e Dakota siano definizioni che indichino la stessa tribù: il primo è il termine con cui li definirono i bianchi, il secondo uno di quelli che utilizzavano loro stessi. È certamente vero che, negli anni 50, in Italia, la conoscenza degli Indiani d’America era relativa presso il grande pubblico: resta da stabilire se questa sia un’attenuante, per i distributori italiani, o piuttosto un’aggravante. Tuttavia, anche solo per la conoscenza dei western, genere di film decisamente in voga all’epoca, dovette sembrare strano venir definiti Apache gli Illiniwek del film originale. Con le loro singolari acconciature dei capelli, alte creste colorate di rosso, questi pittoreschi nativi non possono certo essere scambiati per gli Apache visti in Ombre Rosse [Stagecoach, John Ford, 1939] o Il massacro di Fort Apache [Fort Apache, John Ford, 1948] due film famosissimi anche nei nostri lidi. Con tutte queste traversie di varia natura, La valanga dei Sioux riesce comunque ad essere godibile, nonostante le ingenuità dell’intreccio sentimentale e altre amenità simili. Piuttosto, salta all’occhio qualcos’altro: all’inizio degli anni 50, ad Hollywood, si dedicava un film interamente ai nativi americani, ambientandolo cronologicamente prima dell’arrivo dell’uomo bianco. Si sa che il western è l’epica degli Stati Uniti ma, in questo caso, Neumann, Strawn e Ullman sembrano volerci dire che, abitualmente, sbaglia soggetto.
Yvette Duguay
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