1629_ZABUTI - THE FORGOTTEN (Zabuti) . Ucraina, Svizzera 2019. Regia di Daria Onishchenko
C’è una sequenza, all’inizio di Zabuti, lungometraggio di Daria Onishchenko noto anche come The Forgotten,
che, apparentemente, non c’entra con il resto del racconto filmico. Vi si
vedono sei statue di donna a grandezza naturale, fatte di sapone, che una
ragazza, la stessa artista che le ha create, Maria Kulikovska, usa come
bersagli per allenarsi a sparare con un fucile da guerra. I colpi, precisi nei
punti vitali, al petto o alla testa, provocano degli squarci nel sapone, e le
sei figure, dopo questo pesante «trattamento», finiranno esposte alla 22sima edizione
della NordArt, una mostra di arte contemporanea che si svolge a Büdelsdorf, in
Germania. Questo particolare non c’è, però, in Zabuti di Daria
Onishchenko; l’unico contatto con il resto del lungometraggio è che la
Kulikovska vi interpreta il ruolo di una giornalista separatista. Questo
curioso e pittoresco personaggio, nel film si occupa di creare false notizie di
stragi e bombardamenti nel Donbas, ad opera del governo di Kyiv. Sembra un poco
assurdo? Beh, in linea con l’ambientazione del film, che la protagonista, Nina
(Maryna Koshkina, bravissima) una maestra elementare, definisce efficacemente
“una repubblica immaginaria”. Descrizione puntuale nel senso ma poco
opportuna nella tempistica, ovvero durante il concorso per ottenere la cattedra
in una scuola di Lugansk sotto occupazione russa, e che gli costa, di
conseguenza, la possibilità di ottenere l’agognato posto di lavoro. Siamo,
infatti, grosso modo ai tempi dell’uscita del film, nel 2019, e Lugansk e i vicini
territori ucraini occupati –attenendoci alla didascalia iniziale– si sono
autoproclamati Repubblica Popolare di Lugansk. Nina, con le sue parole, intende
probabilmente dire che le repubbliche separatiste del Donbas non hanno i
requisiti costituzionali per autoproclamarsi, almeno non così rapidamente come invece
fecero nel 2014. Questione di opinioni, naturalmente, che al massimo possono
competere ad esperti in materia; lo spettatore cinematografico può invece
condividere il senso dell’aggettivo «immaginario» usato da Nina quando vede
che, nella citata repubblica, fuori dalle scuole elementari ci sono militari
armati fino ai denti, i bambini fanno una recita in cui il lieto fine è
costituito dallo zar che riesce ad entrare in guerra e Babbo Natale porta in
dono bombe a mano che esplodono. Ma c’è anche di peggio, ovvero il passaggio
che segna la svolta nel racconto filmico: mentre Nina è al concorso e i bambini
fanno la recita dello zar guerrafondaio, nella scuola si è introdotto Andrii
(Danylo Kamenskyi) che, una volta salito sul tetto dell’edificio, srotola sulla
facciata dello stesso un’enorme bandiera ucraina. Non l’avesse mai fatto, i
militari, quelli armati fino ai denti che presidiano l’ingresso, lo catturano e
lo sbattono in cella per tradimento, nonostante abbia solo diciassette anni.
Nina,
che è un’insegnante, si sente in dovere di prendere le difese di quello che, in
fondo, è solo un ragazzino, o comunque un minorenne. Si reca quindi alla
prigione dove Andrii viene detenuto, offrendosi di pagare la cauzione, o quel
che potrebbe essere: come già intuito, la donna non è particolarmente, diciamo
così, avveduta, e la sua missione è un po’ come l’agnello che va in visita al
macello. I due uomini in divisa che la accolgono, pretendono, e ottengono, un
pagamento «in natura», come si diceva un tempo; in ogni caso, pur se molto
turbata, Nina riesce ad andarsene con Andrii. Galeotto il coprifuoco, che nel
frattempo è sopraggiunto, e i due sono obbligati a passare la notte insieme. Non
succede niente di piccante, sia chiaro, che Nina, in quel senso, ha già dato ed
è particolarmente scossa. Suo marito, Yura (Vasily Kukharskiy) l’aspetta a casa
preoccupato, tuttavia i due, almeno in passato, avevano avuto un buon rapporto
di coppia, seppur appassito anche per via delle divergenze geopolitiche; in
ogni caso, la notte passata fuori, in sé, non crea particolari problemi ai
coniugi. Almeno tra di loro, perché i guai stanno comunque arrivando: Andrii si
innamora della donna, e questo sarebbe il meno, una semplice bega sentimentale,
mentre ben più grave è che le autorità della LNP, acronimo per Repubblica
Popolare di Lugansk, mettono ora gli occhi su Nina e Yuri. L’uomo è impegnato
in commerci poco leciti, ma questo conta poco, mentre la moglie è una
sostenitrice dell’uso della lingua ucraina, e, ora, e qui c’è il vero problema,
ha avuto a che fare con Andrii, che si scopre collabori con i Servizi Segreti di
Kyiv. Un pesante pestaggio subito da Yuri funge da «foglio di via» per la
coppia, con l’uomo costretto ad accontentare la moglie Nina che voleva da tempo
lasciare la LNP. Qui c’è un passaggio narrativo piuttosto interlocutorio: Yuri,
malconcio per le botte ricevute, possiede con forza la moglie, quasi volesse
sfogare la sua rabbia in un rapporto sessuale dai toni più accesi del solito. Nina
ne esce ancora una volta turbata, e, pensando di dover abbandonare Lugansk, si
reca a salutare Andrii: una «saluto» particolarmente affettuoso, diciamo così,
con la quale la donna vuol forse riappacificarsi con il sesso dopo quello ai
limiti della violenza subìto dal marito. Il quale l’ha seguita e osserva ora la
scena furibondo ed esterrefatto, con una pistola in mano, pronto a farsi
giustizia del rivale in amore; per fortuna sopraggiunge qualcuno e non ci sono
conseguenze immediate. È il giorno della partenza da Lugansk, Yuri lascia
intendere a Nina di sapere del suo tradimento e, nonostante tutto, la pone di
fronte ad una scelta: se vuole, rimanga pure con il suo giovane amante. La
donna se ne va con il marito, in virtù, probabilmente, dell’antico amore, forse
mai sopito del tutto. Ritroviamo quindi Nina e Yuri a Kyiv, alle prese con una
società non certo idilliaca, con alcune delle storture e i limiti delle moderne
democrazie occidentali. È una descrizione un poco forzata, con il tema del
razzismo nei confronti degli abitanti del Donbas che ritorna più volte, ma
serve a non idealizzare eccessivamente il cosiddetto «mondo libero», che di
magagne ne ha certamente molte. La regista prova quindi a mostrare come,
sebbene non sia un modello perfetto, quello occidentale sia comunque
preferibile, pur con i suoi difetti, a quello proposto dal Cremlino e dai suoi
simpatizzanti. Un paragone che, in ambito cinematografico, richiama alla mente
la saggezza del grande Fritz Lang, che raccontava come nei suoi noir americani
non ci fossero realmente i «buoni» e i «cattivi» quanto, piuttosto, i «cattivi»
e i «molto cattivi» e i primi dei quali erano, per convenzione narrativa, i «buoni»
e i secondi i «cattivi». La ritrovata armonia sessuale, con il giocoso rapporto
nel finale, suggella una sorta di lieto fine molto interessante, perché
dimostra come anche un macho del calibro di Yuri possa perdonare il tradimento
della sua donna, se l’obiettivo è la felicità reciproca.
La morte di Andrii,
annunciata alla televisione dalla nota giornalista separatista, sempre un po’
sopra le righe, serve per chiudere ogni possibile rimpianto sentimentale e, forse,
a stemperare la leggerezza del finale, in fondo l’Ucraina rimane un paese in
guerra. Ma soprattutto, la comparsa sullo schermo di Maria Kulikovska ci ricorda
le sue creazioni artistiche, le donne di sapone prese a colpi di fucile. Come
per alcuni particolari della vicenda di Nina e Andrii [la vicenda dei
protagonisti è ispirata da fatti reali, dal sito Vogue Ukraine, pagina web
https://vogue.ua/article/culture/kino/mariya-kulikovskaya-i-darya-onishchenko-o-semkah-filma-zabuti-41925.html,
visitato l’ultima volta il 15 dicembre 2024], anche la faccenda delle statue in
sapone ha un rapporto stretto con la realtà. Nel 2012 la Kulikovska, insieme
alla curatrice Olena Chervonik, avevano dato il via al progetto artistico Homo
Bulla, un’espressione metaforica già usata in passato da Erasmo da Rotterdam per
indicare la delicatezza della vita umana, breve e luminosa come una bolla di
sapone. [dal sito della Fondazione Isolyatsia, pagina web https://izolyatsia.ui.org.ua/en/homo-bulla/#culture,
visitata l’ultima volta il 15 dicembre 2024]. Con lo scoppio della guerra e la
secessione delle repubbliche del Donbas, la Fondazione Isolyatsia, dove si
trovavano le sculture, venne sequestrata e trasformata in poligono di tiro dai
filorussi che utilizzarono, con la loro tipica delicatezza, le opere artistiche
della Kulikovska come bersagli. [Ibidem]. Nel film, Maria, prende a fucilate
lei stessa le sue sculture, che sono, tra l’altro, copie della sua stessa
immagine, ma certo non avrà gradito il trattamento riservato dagli occupanti
alle sue creazioni. Tuttavia l’artista non sembra perdere la vena ironica e la
sua interpretazione della giornalista separatista, quella che inventa panzane clamorose
pur di ingraziarsi le autorità secessioniste, ha una chiave recitativa grottesca
che rasenta il sublime. Tre donne, impegnate in questo film, che si dimostrano
tutte e tre molto brave: artiste del calibro di Daria Onishchenko, Maryna
Koshkina e Maria Kulikovska, con il clima di propaganda che c’è da quelle parti
e non solo, sono una speranza per la verità.
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