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giovedì 7 agosto 2025

GUAI AI VINTI

1710_GUAI AI VINTI  , Italia 1954. Regia di Raffaello Matarazzo

Al culmine della popolarità dei suoi melodrammi, Raffaello Matarazzo affronta un tema spinoso come quello dell’aborto e utilizza l’ambientazione bellica della Prima Guerra Mondiale per enfatizzare ulteriormente i toni di un argomento già così estremo di suo. Da questo punto di vista si tratta di un’intuizione giusta del regista romano perché, in effetti, la guerra era un amplificatore potentissimo dei sentimenti e delle emozioni umane e in Guai ai vinti l’utilizzo che ne fa Matarazzo è estremamente efficace. Lo spunto specifico, in questo senso, è dato dalle violente razzie a cui si abbandonavano i soldati nei paesi occupati: la possibilità di sfogarsi contro donne e bambini inermi era una tentazione troppo appetibile per la bestialità che si manifestava nei militari. Si tratta quindi di una situazione particolarmente estrema e facilmente individuabile come esemplare. A conferma di ciò, chi c’era ai tempi molto successivi del film in questione (che è del 1954) durante il lungo dibattito sull’aborto (la legge 194 in proposito è del 1978, tre anni dopo vi furono due quesiti ai referendum abrogativi nel merito) si può ricordare come spesso veniva utilizzato l’esempio estremo di una gravidanza da violenza per suffragare la necessità di fornire legalmente alle donne interessate una soluzione alla loro condizione indesiderata. Al netto della questione morale in sé, che non è in oggetto, si può osservare come è abbastanza consueto l’utilizzo di un esempio estremo per dimostrare un concetto generale, avviene anche per altri casi, come per esempio la legittima difesa. Concettualmente non è molto logico: se si porta ad esempio un caso eccezionale (com’è una gravidanza da stupro) sarebbe normale ritenere la cosa l’eccezione. E, a questo punto, sarebbe quella che caso mai confermerebbe una regola di senso contrario più che giustificare il comportamento proposto per risolvere tale situazione. Insomma, dialetticamente, per assurdo, il fatto che per una gravidanza da violenza sia anche legittimo pensare all’aborto, questo non è un elemento tanto favorevole a rendere legale (e quindi normale, cioè nella norma di legge) la cosa. La grana grossa della polemica politica sulla scena italiana (e, ahimè, dell’opinione pubblica) non è però così fine e quindi i casi estremi, anche successivamente, sono sempre stati usati per dimostrare una qualche tesi per normalizzare una questione. Matarazzo che, al contrario è un autore dall’intelligenza sopraffina, fa esattamente l’opposto. Per promulgare la sua opinione sull’aborto, prende sì l’esempio peggiore che può esistere, ma per dimostrare che la risposta giusta è sempre l’amore. 

E, sempre senza entrare nella questione in sé, ma rimanendo attinenti alla prospettiva che traccia la logica, il teorema regge in modo ineccepibile. Vediamo come. Prima Guerra Mondiale, fronte italiano: gli austroungarici sfondano a Caporetto e le truppe imperiali penetrano nel territorio del regno. Luisa (Lea Padovani) con la figlioletta Mirella (Paola Quattrini) e la cognata Clara (Anna Maria Ferrero) non fanno in tempo a lasciare la lussuosa villa in cui vivono e vengono sorprese dai soldati nemici. Non saranno momenti sereni. Mirella perde la parola per lo shock mentre Luisa scopre, con orrore, di essere rimasta incinta. La donna è disperata per quello che ritiene il marchio dell’infamia, anche perché verrà facilmente additata come traditrice e compiacente col nemico mentre il marito combatteva per la patria. La ripugnanza per quello che cresce dentro di sé le è sempre più insopportabile e decide così di abortire. Naturalmente nel 1917 (e anche nel 1954, data di uscita del film) l’aborto era illegale ma all’occorrenza il sistema si trovava ed è in questo senso che la citata legge 194 del 1978 ha la sua ragion d’essere. Tornando alla costruzione della trama, Matarazzo (o Annie Vivanti, autrice del romanzo Vae victis da cui è tratto il film) non è ancora soddisfatto della drammaticità ottenuta: la successiva svolta è che, a fronte dell’aborto di Luisa, salta fuori che pure la più giovane Clara è rimasta incinta. La cosa eleva esponenzialmente la criticità della situazione: Clara non è sposata ed è sottinteso che sia vergine, inoltre, se Luisa avrebbe potuto in seguito giustificare in qualche modo la gravidanza (inventandosi una licenza del marito) questo era un escamotage a cui una donna nubile non avrebbe mai potuto ricorrere, nemmeno dopo anni. In ogni caso, il tema della verginità femminile, per l’Italia del secondo dopoguerra, era già un argomento di quelli pesanti; figuriamoci una maternità come quella descritta. Ad alimentare ulteriormente (è pur sempre un melò di Matarazzo) i toni c’è poi il contrasto tra le due donne che si trovano nella medesima situazione: già, perché Clara, con enorme disappunto di Luisa, decide di tenere il suo bambino. 

Lo scorno per la donna più matura è doppio, perché non solo la cognata si dimostra in grado di affrontare una simile prova senza lasciarsi prendere dall’odio ma, come detto, lo fa trovandosi in una condizione assolutamente peggiore. Interessante notare come la storia non regali agli uomini particolari moti di vanto, con le ottuse e superficiali parole di Franco (Pierre Cressoy) che non aiutano certo la fidanzata Clara ad affrontare la difficile situazione. Certo, peggio del giovane fanno quegli uomini che, radunati in branco, raschiano proprio il fondo del barile in fatto di malefica brutalità. In questi passaggi Matarazzo mette in pratica quanto anticipato dalla didascalia iniziale, che andava a specificare che il film non voleva essere un’accusa contro un nemico specifico (leggi, gli austriaci) e semmai vi poteva essere una critica alla violenza in quanto tale senza distinzione di origine. Una informazione resa superflua dallo sviluppo degli eventi visto che la belluina cattiveria della folla di italiani che, nel tragico finale, si scaglia contro Clara e il suo bambino, reo di essere figlio del nemico, è del tutto simile a quella animalesca dei soldati austriaci durante l’aggressione e lo stupro delle due donne protagoniste. Un’altra finezza narrativa del racconto è la posizione in cui viene, in un certo senso, relegata la Chiesa. Don Marzi (Gualtiero Tumiati) è in polemica con il dottor Bonechi (Camillo Pilotto) che si rivela essere possibilista circa l’intervento richiesto da Luisa. Il prete cerca di convincere la donna e il dottore a non intraprendere questa scelta ma il medico, in definitiva, ribadisce la volontà di fare fino in fondo quanto gli detta la propria coscienza. Indispettito, Don Marzi ribatte che a sua volta farà fino in fondo il suo dovere; che, gli ricorda la signora Bonechi (Isa Querio) è quello di pregare per queste povere anime martoriate dagli avvenimenti. La Chiesa non è quindi privata della sua importanza, come del resto la medicina: tutto viene però messo in secondo piano rispetto alla coscienza di ognuno. Anche Luisa, seppur la sua scelta è criticata per contrasto da quella opposta di Clara, è trattata con compassione dal racconto che cerca di interpretare, se non giustificare, la durezza d’animo che ormai si è impadronita della donna. E, tra l’altro, delle due sventurate è proprio la più anziana ad essere la figura principale, quella che impersona lo spettatore del film; o dovremmo dire la spettatrice, visto che lo stolto Franco si occupa in prima persona di portare sullo schermo la controparte maschile del pubblico. Uomini superficiali e ottusi, donne acide e incattivite, tutti vittime del più bieco pregiudizio: questa è la società secondo Matarazzo, una società corrotta che solo l’amore di un’anima innocente come Clara può salvare. Naturalmente a caro prezzo; e Matarazzo, almeno al cinema, intende farcelo pagare fino in fondo.  


  Anna Maria Ferrero 


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