1651_L'OCCHIO SELVAGGIO . Francia, Canada, 2025. Regia di David Cronenberg
Proiettato in anteprima nazionale al BAFF, Busto Arsizio Film Festival, The Shrouds: segreti sepolti avrebbe dovuto giovarsi della presenza sul palco del suo autore in persona, David Cronenberg: purtroppo una banale influenza ha tenuto lontano il regista che si è comunque connesso in videochiamata per rispondere alle domande di Gianni Canova, critico cinematografico, e Giulio Sangiorgio, direttore artistico del Festival. Curioso annotare come un virus –ricordate il filone virale dei primi film di Cronenberg? – si sia a suo modo vendicato impedendo al regista di muoversi con il proprio corpo – e ricordate anche quello della «nuova carne»? In ogni caso, Cronenberg, nel suo collegamento, è stato molto presente, anzi si può dire anche puntuale e pungente, ad esempio quando ha negato, in buona sostanza, i rimandi a Hitchcock di cui chiedeva Canova, o quando ha risposto allo stesso critico che non fosse necessario approfondire sui riferimenti autobiografici del film. Punto di vista comprensibile da parte di un autore, dovuto a quella sorta di pudore d’artista misto ad un pizzico di sadico piacere nel tenere celati i propri assi, anche questo peculiarità dei creativi d’arte. Ma ha ragione da vendere Canova, critico italiano per eccellenza in ambito cinematografico e di Cronenberg nello specifico. Il recente tragico passato di Cronenberg, la morte della moglie Carolyn avvenuta nel 2017 e quella della sorella Denise nel 2020, avevano già avuto un’importante influenza nel cortometraggio di un minuto scarso The death of David Cronenberg, codiretto con la figlia Caitlin dallo stesso David, e importanti sono anche le eredità di questi lutti che The Shrouds: segreti sepolti si porta addosso. A partire sin dal titolo originale, The Shrouds, che significa «i sudari», ma anche nella trama stessa, con Karsh (Vincente Cassel), vedovo inconsolabile che cerca conforto nella sua attività di inventore di cimiteri tecnologici. Cassel, per pettinatura, aspetto generale, istrionico carisma, è il nuovo e convincente avatar di Cronenberg: e anche questo è un dettaglio autobiografico. Ma, a questo punto, subentrano i rimandi ad Hitchcock accennati da Canova: perché, dal 1940, qualunque indimenticabile «prima moglie» dello schermo deve confrontarsi con la Rebecca del famoso film del «maestro del brivido» inglese, autentica pietra angolare cinematografica. [Rebecca - La prima moglie (Rebecca), Alfred Hitchcock, 1940].
Per sgomberare il campo da qualsivoglia obiezione, basti dire che, effettivamente, la defunta consorte di Karsh, al di là del diminutivo Becca con ci si riferisce a lei nel film, si chiama appunto Rebecca (interpretata, nei flashback, da Diane Krueger). Ma i rimandi a Hitch non finiscono qui: Terry, la cognata del protagonista e sorella di sua moglie, è praticamente identica a lei, acconciatura più casual della Krueger, che interpreta entrambi i personaggi, a parte. È lampante sin dal primo incontro tra Karsh e Terry a cui assistiamo che i due finiranno, prima o poi, a letto, proprio per via della forte somiglianza tra le due sorelle. L’uomo è attratto dalla donna non come soggetto in sé, ma in quanto simulacro, sosia, della sua amata consorte: ogni riferimento a La donna che visse due volte [La donna che visse due volte (Vertigo), Alfred Hitchcock, 1958] è evidentemente voluto. Questi rimandi al cinema di Hitchcock sono sorprendenti, dal momento in cui Cronenberg, in tutta la sua carriera, pur frequentando il cinema di generi anche simili al maestro inglese, come il thriller o l’horror, aveva sempre avuto un approccio completamente diverso. Tuttavia, un primo motivo per cui il canadese si rivolge ad Hitchcock appare abbastanza chiaro: tutto il plot narrativo di The Shrouds, di cui si potrebbe parlare per ore, è un gigantesco MacGuffin, il celebre pretesto narrativo citato spesso dal regista britannico. Tra l’altro, il castello di colpi e contro-colpi di scena è talmente ricco e ben orchestrato che quest’ultima fatica del regista nato a Toronto, nonostante la verbosità dei dialoghi, scorre in modo assai più decifrabile dei suoi abituali film. A tal proposito, si possono annotare le numerose e colorite espressioni di Karsh che, sostanzialmente per tutto il racconto, viene stupito da una serie di sorprese non sempre gradite, come l’atto vandalico al suo cimitero, il passato fedifrago della moglie o il doppio gioco del cognato Maury (Guy Pearce). Se la trama sembra essere un gigantesco pretesto narrativo, alcuni elementi sono tipici della poetica di Cronenberg, anche nel loro essere spiazzanti e inaspettati, come il cimitero tecnologico di Karsh.
L’attività della GraveTech, la società del protagonista, è l’ennesimo colpo geniale del cinema Cronenberg: un’azienda che, attraverso l’utilizzo di sudari speciali, permette ai propri clienti di monitorare costantemente lo stato delle salme seppellite in un cimitero appositamente allestito. L’utente, quando si reca in visita al cimitero, può connettersi tramite App sullo smartphone al monitor posto sulla lapide, e osservare a che punto è la putrefazione del caro estinto. O forse non è proprio questo lo scopo, forse c’è un tentativo di rimanere connessi, almeno visivamente, al defunto. Già, parlando di monitor e di sudari che funzionano come telecamere, è chiaro che uno dei temi portanti di The Shrouds sia l’atto di vedere, cosa naturalmente anche prevedibile essendo quello di Cronenberg un cinema metalinguistico e la vista il senso maggiormente coinvolto nella settima arte. Ma, del resto, è l’intera nostra società ad essere dominata dal senso della vista, stando a Marshall McLuhan già dalla scoperta della tipografia a caratteri mobili, nel XV secolo. Oggi, siamo talmente abituati ad avere nella vista il massimo e supremo riferimento, che un’idea come quella della GraveTech ci appare geniale, pur nel suo lato malsano e, probabilmente, immorale. Manca qualcosa nel rispetto che si deve alla vita, se pensiamo che filmare un cadavere sia un tentativo in qualche modo plausibile di elaborare un lutto. Cronenberg sta provocando, è evidente, ma non in modo gratuito: considerato le assurdità a cui stiamo assistendo quotidianamente, piazzare una telecamera in una bara non è poi così fuori luogo, anzi. Ma, oltre alla vista, esistono anche altri modi per comprendere, capire, cosa ci sta attorno e Cronenberg ce lo dice sin dalla prima scena, quando Karsh è nello studio dentistico e il dottore azzarda una curiosa teoria, secondo cui il dolore ai denti del suo paziente sia un’espressione della sofferenza per la morte della moglie. Un’altra brillante provocazione cronenberghiana, d’accordo, però è innegabile che anche il dolore sia un mezzo per comprendere la realtà. La società occidentale, al contrario, si fonda essenzialmente su ciò che può vedere. Il protagonista, ad esempio, si fida di Hunny, il suo assistente digitale, finché lo vede nelle fattezze umane di una ragazza mentre lo trova inaffidabile se assume quelle di un koala. Con lo stesso criterio, è attratto da Terry sostanzialmente perché questa è esteticamente uguale a Becca, del resto è sempre la Krueger ad interpretare entrambi i personaggi. Il problema di Karsh, e di tutta la società occidentale, è che la vista è un senso parziale ma, al contempo, talmente acuto e incisivo al punto da ingannarci, da indurci a credere che sia totale, in grado di fornirci un quadro completo ed esaustivo. Già Giovanni Verga e i veristi, che furono affascinati dalla fotografia, e in seguito Dziga Vertov, l’avanguardista russo del «cineocchio», si erano già, a loro modo, scontrati con la difficoltà di rappresentare la realtà pura e semplice attraverso una visione pur fedele della stessa. Son passati decenni, la tecnologia si è raffinata in modo esponenziale, ma un qualunque appassionato di calcio può confermare le inaspettate difficoltà riscontrate dal VAR (Video Assistant Referee, assistenza video all’arbitro) nello stabilire ciò che accade sui campi da gioco, nonostante le tante differenti e contemporanee angolature delle riprese.
L’avvento del VAR, al netto del risultato specifico ottenuto dello strumento, ha avuto l’effetto di alimentare nuovi dubbi, nuove incertezze, ottenendo il risultato opposto a quanto prefissato. Allo stesso modo, le tante immagini da cui siamo bombardati, non chiariscono la situazione ma, semmai, offrono il fianco a nuovi interrogativi. In The Shrouds, una telecamera in una bara dovrebbe forse svelarci cosa succede dopo la morte e, al contrario, ecco che si scoprono strane protuberanze che sorgono sulle ossa di Becca e altri defunti del cimitero GraveTech. Strane e inspiegabili, almeno dalla scienza conosciuta: e qui si arriva al cuore del discorso di Cronenberg. Perché una spiegazione è possibile, ed è la stessa spiegazione a cui ormai, chi più chi meno, siamo abituati a rivolgerci: il complotto. Cronenberg, nel rispondere ad una domanda di Sangiorgio, il direttore artistico del BAFF, lo rivela esplicitamente: il complottismo può essere una sorta di rifugio del suo protagonista, e questa soluzione, considerata la natura del cinema di Cronenberg, possiamo intenderla valida anche per l’uomo dei nostri giorni. Con questo non è che il regista canadese voglia perorare il complottismo in senso letterale ma si tratta di una sorta di provocazione simile a quella del precedente Crimes of the future, dove aveva sostanzialmente insinuato il dubbio di essere un conformista borghese. Qualcosa che, almeno artisticamente, gli era totalmente estraneo. Con The Strouds il regista canadese invita a riflettere sul tanto diffuso complottismo, dando una spiegazione folgorante è illuminata al fenomeno. E per rendere più evidente il discorso, utilizza la geopolitica, i russi e i cinesi del racconto, in un vortice di intrighi che ci confonde e non ci permette di capire cosa sia vero o cosa frutto di congetture. Non a caso, alla fine, Karsh tra Terry, che lo attrae perché soddisfa il desiderio di rivedere sua moglie, e Soo-Min (Sandrine Holt), sceglie quest’ultima. La donna, moglie di un possibile facoltoso cliente in fin di vita, è cieca –e quindi ha sviluppato altre capacità di percezione della realtà, si veda la scena della registrazione audio– oltre ad essere coreana e vivere a Budapest – la Corea, almeno quella del Nord, e l’Ungheria sono tra i paesi meno allineati alla comunità occidentale. Soo-Min veicola quindi due elementi, totalmente diversi ma che, nel loro esserlo, rappresentano il cortocircuito finale della società occidentale. L’essere non-vedente della donna ci riporta ai tempi precedenti alla alfabetizzazione estrema introdotta dalla stampa a caratteri mobili, quando l’udito, il tatto e gli altri sensi avevano almeno lo stesso valore della vista. E quando il concetto stesso di meccanizzazione scomponibile del linguaggio studiato da McLuhan non aveva ancora reso l’uomo occidentale quello che è stato finora. I rimandi geopolitici intrinseci alla figura di Soo-Min, come detto Ungheria e Corea del Nord sono due tra gli agenti più coinvolti negli intrighi internazionali, simboleggiano il fenomeno del complottismo, il luogo terminale in cui ci si rifugia tutti quanti da quando, subissati dalle tante informazioni contraddittorie, perlopiù sotto forma di immagini, non sappiamo più in cosa credere. McLuhan disse che, con l’invenzione della consonante (scritta) abbiamo dato un orecchio per avere in cambio un altro occhio. Adesso che l’occhio, sopraffatto dalla sua stessa ingordigia di immagini, ci inganna, non sappiamo più come fare per capire cosa sia vero o cosa non lo sia. In questa situazione, il complottismo, diviene la nostra ultima spiaggia. Dopo aver fatto ammenda sull’inutilità del suo cinema con Crimes of the future e con il paragone al cinema morale di Fritz Lang, Cronenberg ne rivendica l’importanza in qualità di MacGuffin che, come il complottismo, è uno strumento per cercare di sopravvivere.
Sempre McLuhan disse che il medium è il messaggio; Hitchcock, dal canto suo, diceva che la trama, (plot, in inglese), era unicamente un pretesto. Cronenberg, in The Shrouds, fa una sorta di sintesi e ci dice che il complotto (plot, in inglese) è sia pretesto che messaggio. È il senso di tutto quanto, perlomeno quello che possiamo illuderci di trovare. Ed è tutto ciò che ci rimane.
A parte il buon sesso.