Translate

venerdì 1 agosto 2025

GERMANIA 7 DONNE A TESTA

1707_GERMANIA 7 DONNE TESTA , Italia, Germania Ovest 1970. Regia di Paolo Cavallina e Stanislao Nievo

Affiancato in regia da Paolo Cavallina –giornalista, scrittore e conduttore radiotelevisivo– Nievo confermò il suo discostarsi dalla poetica abrasiva di Jacopetti, attitudine che si era percepita già nella sua prima opera, il citato Mal d’Africa. Germania 7 donne a testa sposta ulteriormente la sua attenzione, concentrandosi nel cuore di quell’Europa che, negli anni Settanta, sperava di essersi messa definitivamente alle spalle la tragedia bellica. Il titolo Germania 7 donne a testa fa, infatti, riferimento alla condizione statistica nel paese teutonico immediatamente dopo il secondo conflitto mondiale, con la popolazione maschile che era stata decimata sul fronte di guerra. In genere il film di Nievo e Cavallina non è inserito nelle liste dei Mondo movie, ma del resto è un’opera quasi completamente ignorata tout-court. L’interesse che ci può essere a riguardo è perché Nievo fu un elemento secondario, ma importante, nella nascita del «genere», e, quindi, annotare quello che fu il suo percorso, il suo contributo, può completare meglio il quadro generale di quei seminali anni. Secondo Il dizionario Bolaffi del Cinema Italiano, Germania 7 donne a testa è “un ampio documentario sulla Germania (…) non privo di efficaci analisi di costume”. In effetti, è interessante l’analisi sull’importanza delle donne nella società tedesca, anche quando, all’alba degli anni Settanta, il loro numero era rientrato in percentuali normali. Il ruolo femminile, grazie all’emancipazione, riferendosi alla Germania Federale, era infatti cresciuto in modo sostanziale. Qualche attinenza agli aspetti più pruriginosi dei Mondo movie, sembra però resistere nell’attenzione dedicata ai negozi che vendono materiali pornografici e, volendo, anche alla quotidianità della vita carceraria di un criminale nazista. Stanislao Nievo si congedò quindi dal cinema e con esso, anche dalla curiosa vicenda degli pseudo-documentari italiani.

           

Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE


IN VENDITA QUI


giovedì 31 luglio 2025

ADDIO MIA BELLA SIGNORA

1706_ADDIO MIA BELLA SIGNORA , Italia 1954. Regia di Fernando Cerchio

Il titolo del film del bravo Fernando Cerchio Addio mia bella signora, riecheggia la famosa canzone risorgimentale Addio mia bella addio (1848, di Carlo Alberto Bosi) che, in effetti, nella pellicola viene intonata un paio di volte. Il racconto filmico è, infatti, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale e i temi patriottici erano quindi pertinenti; una scelta condivisibile, visto che, al cinema, non c’è niente di meglio della musica per creare la giusta atmosfera. Per altro quello di Cerchio è un melodramma, di quelli tosti degli anni cinquanta, e quindi, ecco che ancora più importante del pezzo patriottico citato è la canzone Addio mia bella signora (a volte indicata come Addio signora, in questo caso cantata da Giacomo Rondinella stando ai titoli di testa del film o da Elio Mauro secondo il sito IMDb). La questione della canzone non è secondaria in quanto il pezzo divenne celeberrimo (riproposto, tra gli altri, nel corso degli anni da Gino Tajoli e da Claudio Villa) e nel film è usato magistralmente da Cerchio come effetto trainante. Sulle struggenti note della canzone melodica, le scene romantiche tra Cristina (un’elegante Alba Arnova) e Guido (Armando Francioli) sono girate con stile calligrafico impeccabile dal regista, quasi un videoclip dal sapore impressionista, ma il nocciolo della questione è altrove. Cristina, infatti, è già sposata con il colonnello Riccardo Salluzzo (un monumentale Gino Cervi), uomo decisamente più attempato della giovane moglie. La Grande Guerra è scoppiata e il colonnello è partito per il fronte; a badare alla lussuosa magione è rimasto il suo attendente Giuseppe (un altrettanto monumentale Nino Pavese) troppo anziano per svolgere il suo ruolo in prima linea. Guido aveva adocchiato Cristina prima che questa si sposasse ma aveva dovuto desistere di fronte al matrimonio della ragazza. Ora però, col marito assente, complice alcune amicizie comuni (tra cui val la pena citare Marco interpretato da un già pimpante Franco Fabrizi), il giovanotto poteva tornare a fare il cascamorto con la giovane sposa. Qui c’è un passaggio cruciale nell’economia della disputa morale che scaturirà dalla torbida storia (del resto si tratta di un melò strappalacrime): Clara (Laura Gore) invita Cristina ad una festa in onore dei volontari universitari quando il colonnello non è ancora partito per la guerra. Alla festa la ragazza incontra nuovamente Guido che subito coglie al volo l’occasione per corteggiarla; ben sapendo che questa è una donna sposata. 

Poi, certamente quello tra Cristina e il colonnello non era un matrimonio di cuore, diciamo così, e la ragazza non era felicemente innamorata del marito; ma la scorrettezza di Guido, il suo tempismo opportunista, rimane evidente. Anche perché, pur proclamandosi volontario universitario, mentre il colonnello è in prima linea il giovane si guarda bene dall’arruolarsi e pensa a fare la bella vita con Cristina e gli amici. La situazione di idillio temporaneo, in quanto è evidente che prima o poi lo spasso finirà, è interrotta da un colpo di scena: dal fronte arriva la notizia che il colonnello è morto. Cristina, dimostrando un certo spessore morale, è turbata dai suoi sentimenti, dalla sua irrefrenabile gioia che sovrasta il pur timido dispiacere per la morte di un marito che, seppur sia sempre stato buono nei suoi confronti, non ha mai amato. Di ben altra pasta è fatto Guido che invece minimizza gli scrupoli e la sprona ad un deciso cambio di passo, ora che è libera dai precedenti vincoli. Per festeggiare il natale e la decisione di sposarsi, niente di meglio che andare in campagna con gli amici: quando giunge un’altra notizia dal fronte, che ribalta nuovamente la situazione. Il colonnello non è morto, è tornato mutilato agli arti inferiori. Cristina, sentendosi colpevole, rivede i suoi programmi ma Guido non molla e minaccia di rivelare al marito della loro tresca se non ci penserà la ragazza a chiarire la questione. Il torbido drammone è ben strutturato con i giusti incastri narrativi e il colonnello arriva a conoscere la verità e gioca d’anticipo mettendo sotto muto ricatto morale la moglie, in una situazione che si fa sempre più tesa. Guido scalpita, Cristina è insofferente, il colonnello istiga sornione: notevole la condotta in regia di Cerchio. Poi, quando la tensione arriva all’acme, è il vecchio militare a fare un passo indietro. Mentre Guido si è finalmente deciso ad arruolarsi pur di smuovere Cristina dal suo stallo, e la ragazza ormai ha ceduto, il colonnello medita il suicidio per farsi da parte. Giuseppe, figura sempre presente e incaricata di facilitare gli snodi della trama, se ne accorge per tempo e avverte Cristina. La donna, vedendo che l’anziano marito è pronto a togliersi la vita pur di non ostacolarne la felicità, decide di dare corpo alle parole della canzone che dà il titolo al film, lasciando Guido ad attenderla inutilmente al solito appuntamento. Il melodramma, genere che spesso ha una forte matrice morale, è quindi compiuto: i personaggi, in un modo o nell’altro, finiscono per fare il proprio dovere. Il colonnello ha lasciato le gambe, per compierlo; Cristina rinuncia all’amore, per rispettare il suo legame col marito. E Guido, sebbene è legittimo dubitare del suo reale intento, partirà con i bersaglieri. Poco male; sentito o meno che sia, dovrà farlo di corsa.    




Alba Arnova 



Galleria 








martedì 29 luglio 2025

CRIMINE SILENZIOSO

1705_CRIMINE SILENZIOSO (The Lineup), Stati Uniti1958. Regia di Don Siegel 

A proposito di Don Siegel, fondamentale regista della storia del cinema, si citano in genere i suoi riconosciuti capolavori, Contratto per uccidere [The Killers, 1964], Ispettore Callaghan: il caso Scorspio è tuo! [Dirty Harry, 1971] o Fuga da Alcatraz [Escape from Alcatraz, 1979], giusto per elencare tre dei suoi più noti crime-movie di pura azione. Può darsi che si argomenti sul fantascientifico L’invasione degli Ultracorpi [The invasion of the Body Snatchers, 1956] o sul western Il pistolero [The Shootist, 1976] a testimonianza della sua capacità di uscire dal suo abituale ambito, che era il poliziesco in tutte le sue sfumature. Anche approfondendo ulteriormente, e considerando che Siegel è accreditato di una cinquantina di regie comprese la quindicina di quelle televisive, ben difficilmente viene preso in considerazione Crimine silenzioso, un atipico tardo noir. L’origine di questa inaspettata gemma è la serie televisiva The Lineup, di cui Siegel aveva diretto l’episodio pilota nel 1954 oltre ad altre successive puntate. In realtà, la stessa serie televisiva era uno spin-off da un precedente programma radiofonico e si trattava sostanzialmente del classico Police Procedural ovvero quei racconti che mettevano sotto l’obiettivo il lavoro di un distretto di polizia o istituzioni similari. Se nella versione radiofonica si era mantenuta anonima l’ambientazione, per quella televisiva si puntò forte sull’identificazione di San Francisco come luogo delle vicende poliziesche raccontate. Una scelta che, considerato il successo della serie, verrà confermata anche per la trasposizione cinematografica per la quale Siegel subisce precise direttive. Folgorante incipit a parte, i primi venti minuti di Crimine silenzioso non sono poi infatti troppo diversi da un comune episodio della serie: il tenente Ben Guthrie (Warner Anderson), spalleggiato dall’ispettore Asher (Marshall Reed), indagano sul traffico di stupefacenti provenienti dall’estremo oriente, spessi introdotti negli Stati Uniti grazie ad ignari viaggiatori i cui bagagli trasportano la droga a loro insaputa. Anche l’idea alla base della storia è degna di un telefilm e basta osservare la scia di cadaveri che viene disseminata per capire che un simile metodo di trafficare droga era contro ogni logica, attirando su di sé un’attenzione eccessiva. Non sono solo i morti imputabili a Dancer (Eli Wallach, straordinario) a destare perplessità ma anche solo quelli del citato bellissimo incipit che precede i titoli di testa. 

La morte del finto tassista ma soprattutto quella del poliziotto, per un modesto quantitativo di droga, non sembrano l’indice di una pianificazione adeguata ad un traffico che, stando alle premesse, volesse introdurre gli stupefacenti in modo subdolo e silenzioso. Ce ne sarebbe già per derubricare The Lineup a semplice operazione a beneficio dei fan del telefilm dell’epoca; Siegel, tuttavia, non è affatto d’accordo. E lo mette in chiaro subito, in quei sessanta secondi che costituiscono l’introduzione che, si è già detto, è girata con dinamismo magistrale, grazie ad un montaggio che è puro cinema d’alta scuola. Dopodiché, l’intemperante regista assolve il compito di accontentare produzione e spettatori della serie TV, mettendo in scena un po’ di investigazione dei volenterosi Guthrie e Asher, di cui giusto val la pena ricordare la splendida Dodge Custom Royal del 1957 con cui scorrazzano per le vie di Frisco. Ma quello che preme a Siegel è ben altro. Il momento in cui Crimine silenzioso cambia marcia è l’entrata in scena dei due criminali protagonisti, il citato Dancer e il suo collega più anziano Julian (Robert Keith), su cui converge completamente l’attenzione di Siegel, mentre i due poliziotti saranno costantemente relegati in comportamenti di routine. Julian e Dancer, al contrario, sono due personaggi formidabili, in anticipo sui tempi e in grado di conferire alla storia un’atmosfera malsana e disturbante davvero sorprendente per un film che è ancora ascritto agli anni 50. In apparenza è Dancer il soggetto perverso e maniacale, e Julian sembra una sorta di tutore che ne smorzi gli eccessi. In realtà, se effettivamente Dancer è l’elemento che esce dagli schemi della normalità, Julian è perfino peggio, considerato che sfrutta le deviazioni del giovane socio per sfogare una violenza di cui non è capace in prima persona. Al netto delle letture psicanalitiche sulla follia di Dancer e Julian, che sono effettivamente due individui privi di qualsivoglia struttura morale, la cosa che interessa maggiormente di Crimine silenzioso è il suo essere un manifesto programmatico del cinema secondo Don Siegel. I due criminali si muovono, nella storia, tra due blocchi sociali contrapposti: da una parte c’è la polizia, che incarna ufficialmente la società, dall’altra l’organizzazione criminale, di vediamo solo Il Capo (Vaughn Taylor) ma che sembra altrettanto ben strutturata. In sostanza San Francisco, e come lei l’America o il Mondo Occidentale intero, è divisa tra Buoni e Cattivi, ma si tratta più che altro di convenzioni perché Siegel non conferisce alcuna profondità ai personaggi se non ai due criminali protagonisti. 

I due poliziotti sono ingessati nel loro ruolo; di contro Il Capo è addirittura sulla sedia a rotelle e non degna nemmeno d’una espressione Dancer quando ha con lui il fatale dialogo nel museo marittimo. I personaggi di contorno assolvono semplicemente alla parte che il copione prevede per loro, ma lo spazio emotivo del racconto è occupato interamente dal confronto tra Julian e Dancer. Tutta quanta la struttura di Crimine silenzioso sembra una grande metafora dell’industria cinematografica secondo Don Siegel. La polizia, rappresenta il pubblico e gli organi censori istituzionali, che intralciano con le loro pretese, vedi i rimandi dovuti alla serie televisiva o il limite per la violenza esibita, la libertà artistica. Il Capo è il tipico produttore degli studios hollywoodiani, sordo alle giustificazioni per eventuali problemi ineluttabili che possano insorgere nello svolgere pur con la massima efficienza il lavoro. Com’è tipico di chi non lavora e non ha mai lavorato un singolo giorno. Siegel non era, e tantomeno lo sarebbe oggi, un buon rappresentante del Politicamente Corretto e ce lo mostra vecchio, inespressivo, rinsecchito e su una sedia a rotelle: non potrebbe essere più imbalsamato di così. Quando Dancer lo scaraventa giù dal parapetto sulla pista ghiacciata di pattinaggio, il regista si guarda bene dall’arretrare la camera per avere un minimo di rispetto per la tragedia umana che sta avvenendo. Al contrario, cambia prospettiva e si piazza di lato, per cogliere e gustarsi senza perdersi un attimo del terribile volo che si conclude con un fatale schianto. Siccome si è detto del cinismo di cui Siegel vuol essere libero di poter disporre, nella sua caduta Il Capo travolge e uccide anche un ignaro e innocente pattinatore. Non rimane che comprendere i ruoli dei due protagonisti, Dancer e Julian. Se il primo è evidentemente l’alter ego del regista, che non vuole pastoie morali o di altro genere mentre svolge il suo mestiere, l’altro è una figura che può essere qualcosa come uno sceneggiatore o un produttore esecutivo, qualcuno non in grado di fare il regista, così come Julian non è in grado di sparare, ma che vuole ugualmente assurgere al ruolo di maestro. Proprio in virtù di un’onestà intellettuale che può sconfinare nel cinismo, Siegel conferisce al suo personaggio, quello che lo rappresenta, una connotazione negativa: l’artista, il cineasta, secondo il buon Donald, deve avere mano libera, non deve essere vincolato da limiti tanto meschini come quelli descritti. Ma nell’opera c’è comunque una prospettiva senza speranza, e questa è innegabile ed è resa esplicita dalla migliore sequenza del film, quella giustamente conclusiva. La società, la collettività, rappresentata splendidamente dalla città di San Francisco, ha un effetto mortale sulla libertà dell’individuo. Essendo un crime-movie, assai più che un poliziesco, il protagonista di Crimine silenzioso è un criminale, un cattivo a tutto tondo. 

L’importante, per Siegel, che in qualità di artista se ne frega del quadro morale, è che si batta contro il tentativo di ingabbiarlo, di comandarlo, di costringerlo dentro le regole. Alla fine deve liberarsi anche di Julian, e gli spara alla schiena, proprio senza alcun riguardo per qualsiasi barlume di cavalleria o rispetto, perché in fin della fiera anche il suo socio cercava di piegarlo alla disciplina, come si capisce sin dalla loro prima apparizione quando discutono di grammatica. Tuttavia Dancer non ha alcuno scampo e la città letteralmente lo ingoia, nella geniale chiusura che segna la fine della pista. I tentativi di Sandy (Richard Jaeckel), l’autista messo a disposizione ai due gangster dall’organizzazione criminale, prova a scappare nell’ultimo spettacolare inseguimento finale. Il Golden Gate, il mitico ponte di Frisco, è la strada per la libertà, ma prima le vie bloccate, poi un’autostrada in costruzione, che si interrompe su uno strapiombo e infine una carreggiata che si rivela essere solo una sorta di spartitraffico cieco, precludono ogni possibilità d’uscita. La città, simbolo supremo della società occidentale, ha leggi ferree: se non le accetti, sei destinato ad essere fagocitato, annientato, distrutto. Siegel lo sa; almeno dal 1958 e da Crimine silenzioso: ma non per questo ha intenzione di lasciar fare. Basta guardare lo sguardo di Eli Wallach quando manovra il canocchiale al museo marino, guidandolo come una macchina da presa: dove sono i capi, i boss, quelli che tirano i fili della baracca? Prima di soccombere, com’è destino, si può sempre giocargli qualche brutto tiro. Quello di Wallach, oltre che maniacale, folle, lucido, divertito e compiaciuto, è lo sguardo di Don Siegel.         







Galleria 






domenica 27 luglio 2025

COME UN URAGANO

1704_COME UN URAGANO , Italia 1971. Regia di Silverio Blasi

Era passato quasi un anno dalla puntata conclusiva di Un certo Harry Brent [1970, Leonardo Cortese] ed era quindi tempo per la RAI di portare sui suoi schermi una nuova storia di Francis Durbridge, il celebre giallista inglese. Per la verità, l’idea di scomodare Durbridge appare quasi al limite del pretestuoso perché gli autori italiani, per questo nuovo adattamento, stravolsero e non poco il testo originale. Si è già visto come le esigenze televisive italiane avessero indotto pesanti modifiche ai precedenti lavori dello scrittore inglese ma, forse, Come un uragano stabilisce un nuovo record in tal senso. Bat out of Hell [qualcosa che l’autore stesso spiegò essere una sorta di metafora tipo un pipistrello che esce di corsa dall’inferno], lo script originale, verteva su un’unica traccia gialla di matrice, diciamo così, domestica. Il cui plot si potrebbe riassumere con queste parole: due amanti uccidono il marito della donna ma il cadavere dell’uomo sparisce e qualcuno comincia a ricattarli. Stavolta, Biagio Proietti, chiamato ancora una volta ad adattare la traduzione di Franca Cancogni, non si limitò, quindi, ad inserire nuovi dialoghi per dare maggiore spessore ai personaggi, ma si inventò addirittura una trama su un altro piano narrativo per dare maggior corpo allo sceneggiato. Proietti, che aveva appena dato prova della sua abilità di narratore con Coralba, di cui era autore del soggetto originale, riuscì ad imbastire un intrigo sulla malavita organizzata che gestiva le scommesse clandestine sulle corse dei cavalli a livello nazionale che si inseriva coerentemente con la poetica di Durbridge. Ma, almeno stando all’articolo di Guido Guidi pubblicato come presentazione allo sceneggiato sul TV Radiocorriere n.26 del 1971, Proietti non si limitò a questo ma preparò addirittura ben cinque finali differenti, che furono poi effettivamente girati dal regista, Silverio Blasi. Questa strategia, che teneva in buona sostanza all’oscuro tutti quanti del finale scelto poi nel montaggio – pare sia il regista che gli attori  e perfino lo sceneggiatore– serviva per evitare qualunque possibile fuga di notizie. In pratica la trama studiata da Durbridge era dapprima ampliata ed adeguata alle esigenze italiane, con maggior lunghezza e attenzione al lato umano dei personaggi e l’aggiunta di una traccia investigativa da sovrapporre a quella originale. E, per completare l’operazione di adeguamento al pubblico italiano, per la soluzione dell’intrigo giallo furono scritte cinque soluzioni diverse con colpevoli e coinvolgimenti differenti. In questo modo, qualsiasi indiscrezione fosse trapelata durante le riprese non avrebbe avuto la certezza di essere inerente al finale che venisse scelto, non si sa nemmeno bene da chi, per la definitiva messa in onda. Sulla veridicità di queste informazioni, diffuse direttamente dagli autori, è lecito sollevare qualche dubbio; girare costava denaro e, se fare qualche scena in più poteva essere anche un costo preventivabile, cinque finali sembrano effettivamente un’esagerazione. Tuttavia questa è la versione che venne presentata sulla stampa, per quanto potrebbe essere una strategia pubblicitaria. Al netto di quelle che sembrano solo semplici curiosità di un prodotto televisivo che al tempo ebbe un grandissimo successo, la loro plausibilità, perlomeno da un punto di vista narrativo, induce almeno un paio di riflessioni. 

Innanzitutto è evidente che l’intreccio giallo dovesse avere caratteristiche molto precise perché, oltre ad appassionare, doveva essere aperto fino all’ultimo a soluzioni differenti. Difficile stabilire se, tecnicamente, sia un virtuosismo narrativo, una trama che lascia tante strade percorribili senza incappare in incongruenze clamorose, oppure si tratti solo di mera capacità di assemblare passaggi narrativi plausibili. E, da queste considerazioni ne deriva un’altra nemmeno troppo lusinghiera per lo sceneggiato in questione: è evidente che lo spettatore sia di fronte ad un semplice gioco enigmistico, trovare il colpevole, senza aver avuto in mano gli elementi per la soluzione, dal momento che sono possibili molteplici finali. Il che è un bel limite, per un giallo: in pratica è un giallo privato della sua essenza più pura, la sfida tra l’autore e il fruitore, che è la quintessenza del suo essere, almeno per quel che riguarda questo «genere» narrativo, dalla letteratura fino al cinema. Sembra quasi che la televisione, già in quei tempi che vengono giustamente ricordati come una fase aurea di questo specifico media se li paragoniamo al crollo verticale che arriverà nei successivi anni Ottanta, rivelasse già la sua natura superficiale. Il giallo era un «genere» importante e utile, per l’individuo di una moderna società, perché permetteva a chiunque di confrontarsi con il Male. In Italia, paese che aveva storicamente una scarsa cultura in questo tipo di narrativa, si aveva sempre la tendenza a prendere le distanze dal colpevole, abitualmente definito sbrigativamente con l’etichetta di «mostro». Nei racconti gialli, al contrario, spesso si arrivava ad identificarsi addirittura con il colpevole, provando le stesse emozioni, almeno per quel che permetteva un racconto letterario o filmico, e questo significava prendere una coscienza maggiore del proprio «lato oscuro». È forse in quest’ottica che va valutata e apprezzata la scelta della televisione di Stato nel diffondere, con il suo avvento, la narrativa gialla, dando spazio sempre più crescente alle storie criminose. L’Italia, partita storicamente con un significativo ritardo in questo ambito, aveva poi subito un reset totale dal regime fascista che aveva prima limitato la letteratura gialla, mettendola infine addirittura al bando nel 1941. Non prima di aver inculcato nella popolazione l’idea che i temi legati alle attività criminose fossero estranei alla natura latina degli italiani. Testimonianza memorabile di ciò è la stupefacente dichiarazione programmatica messa in bocca ad un personaggio della serie televisiva pionieristica Aprite Polizia! [Aprite Polizia! Le inchieste del commissario Alzani, Daniele D’Anza, 1958]. Il commissario Alzani (Renato De Carmine), presenta il sesto e ultimo episodio della serie con queste scioccanti parole: “la delinquenza non latina è sempre più crudele, più cinica”. 

Siamo nel 1958, il Fascismo e le sue leggi sono ormai un ricordo, non troppo lontano per la verità, e Daniele D’Anza, seppur giovane, è un regista che lascia già intuire il proprio talento: eppure le parole del suo protagonista lasciano sgomenti. Tuttavia, ai tempi di Come un uragano, di acqua ne era passata sotto i ponti da quell’incauto passaggio televisivo, e l’Italia aveva imparato a rapportarsi con profitto con il genere giallo e i suoi derivati tanto che al cinema il thriller all’italiana era universalmente conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. E, non a caso, definito fuori dall’Italia con il termine «Giallo», sotto il cui nome all’estero si possono trovare i film dei vari Dario Argento, Lucio Fulci, Mario Bava, Umberto Lenzi e tutti gli altri maestri che han dato lustro al nostro cinema «di genere». Se possiamo trovare un limite, comune alla maggior parte dei film di questa pagina comunque memorabile della nostra cinematografia, questo è un po’ la volontaria rinuncia alla logica narrativa, in origine basilare per quel che riguarda i generi giallo e poliziesco, in favore della visionarietà delle immagini e del loro impatto scioccante sullo spettatore. Se questi ultimi aspetti sono certamente pregevoli, può esserlo assai meno quanto era stato messo sull’altro piatto della bilancia. La mancanza di coerenza narrativa, di razionalità dei racconti, rischiava di ridurne l’effetto a mero spettacolo senza un tornaconto in termini di crescita per lo spettatore. Vedere Profondo rosso, in sostanza, poteva gratificare la voglia, la necessità o il piacere di provare paura, di spaventarsi, per lo spettatore, ma il suo impatto astratto e svincolato dal razionale non consentiva allo stesso spettatore di confrontarsi con il Male, e perciò di conoscerlo meglio e, in definitiva, conoscersi meglio. La RAI aveva sempre avuto un approccio generale a questi temi assai più cauto, in ossequio alla morale costituita e alla religione cristiana, largamente diffusa nel paese e molto influente. Ma l’utilizzo ai limiti dello strumentale della prosa di Francis Durbridge, con i suoi dilettevoli intrecci gialli sventrati e ricostruiti alla bisogna dagli autori italiani, con l’unico scopo di nascondere agli occhi curiosi degli spettatori il nome del colpevole, non sembra poi così un’operazione diversa. In questo senso Come un uragano –che arriva giusto dopo Coralba, versione «Made in Italy» dei gialli «à la Durbridge»– sembra rappresentare il punto di non ritorno.

È un bello sceneggiato, Come un uragano, intendiamoci. Ben scritto, ben diretto e con interpreti di prim’ordine. A cominciare da Alberto Lupo, che è il convincente ispettore di Scotland Yard John Clay in trasferta in quel di Alunbury, paese di periferia dove è inviato per indagare sui traffici illeciti del gioco d’azzardo che gravano attorno al nuovo e grande ippodromo locale. Per il pur volenteroso ispettore Booth (Manlio Guardabassi), un boss malavitoso del calibro di Albert Roach (Renato De Carmine) è un osso troppo duro e, siccome la piaga delle scommesse clandestine affligge l’intera nazione, ecco che da Londra mandano Clay ad affiancarlo. Questa traccia, quella delle beghe malavitose inventata da Proietti, sembra in un primo momento rimanere sullo sfondo, perché irrompe subito, in avvio, un delitto di matrice sentimentale. Il che sembra curioso, perché, in effetti, si è detto degli sforzi per nascondere l’identità del colpevole, mentre sostanzialmente lo sceneggiato comincia con il facoltoso immobiliarista Geoffrey Stewart (Sergio Rossi), che viene ucciso dal suo amministratore Mark Paxton (Corrado Pani). Se Paxton è certamente un assassino, e lo vediamo immediatamente, la trama si complicherà alquanto, lasciando da scoprire un intrigo assai più complesso di un semplice omicidio legato a motivi sentimentali. Almeno di facciata, infatti, Paxton uccide Steward in accordo con la moglie di questi, Diana (Delia Boccardo, bellissima), che è naturalmente la sua amante. Nel corso del racconto, facendosi via via più complicata la situazione, qualche dubbio sulle reali intenzioni di Paxton può sorgere; ovvero che, forse, oltre che sull’affascinante Diana, l’uomo avesse messo gli occhi sul patrimonio del suo datore di lavoro. A completare il quadro mancano giusto quelli che, in sostanza, saranno i sospettati, personaggi che possono essere colpevoli, almeno fino al colpo di scena conclusivo, tenendo conto della trama aperta a molteplici soluzioni finali. Glenda Cooper (Adriana Asti), è una piacente antiquaria, effettivamente implicata in affari loschi; peggio di lei è però suo marito Paul (Cesare Barbetti), uno scrittore fallito e mantenuto dalla moglie, acido e tagliente con le parole e molto sospetto; Bill Grant (Renzo Montagnari), facoltoso rivenditore di auto di lusso, è un uomo affabile e dichiaratamente innamoratissimo di Diana e, proprio per questo, da tenere d’occhio; c’è poi una seconda Diana, ovvero la bella señorita Velasco (Gabriella Grimaldi, pseudonimo della sorella di Daria Boccardo), amante di Geffrey Stewart e comunque coinvolta nell’intrigo. Secondo gli autori italiani, il colpevole potrebbe essere uno di questi, scegliendo a caso. Quasi che il delinquere ma soprattutto l’omicidio, siano eventi occasionali, che possano occorrere a chiunque o quasi. Una struttura narrativa di questo tipo, aperta fino all’ultimo a qualsiasi soluzione, deve giocoforza smussare le motivazioni di quello che sarà poi il colpevole, perché tali motivazioni non devono trapelare anzitempo. Certo, gli anni 70, dove cominciava forse a profilarsi l’idea che il mondo era davvero come l’aveva efficacemente descritto il geniale Fritz Lang nei suoi film, dove il conflitto buoni vs cattivi era solo un convenzione di quello del nostro mondo reale tra cattivi e più cattivi. Ma Lang, a cui Proietti aveva peraltro dedicato la figura del commissario dal volto umano in Coralba, aveva una carica umana enorme che permeava ogni suo personaggio. Durbridge, per quanto raccontava di ispirarsi alla gente che incontrava ogni giorno, per creare i suoi personaggi, aveva una cifra autoriale meno importante –il che rispetto a Fritz Lang non è mai un limite, ad onor del vero– oltre avere come prosaico scopo primario quello di intrattenere il pubblico televisivo. I suoi racconti gialli, avvincenti e ben congeniati, erano poi ulteriormente modificati ma non certo per esigenze autoriali, bensì per adeguarli al palinsesto e al gusto italiano. Oltretutto, il pregevole tentativo di rendere più umani i personaggi si andava a scontrare, in un certo senso, con la necessità di mantenere la possibilità che ci potessero potenzialmente essere tanti colpevoli diversi, ognuno con ragioni plausibili. Un po’ come in una vera indagine, questo è senz’altro vero. Ma, da un punto di vista della finzione narrativa, il risultato fu un’atrofizzazione sotto il profilo morale dei personaggi, considerando la necessità che dovessero essere tutti quanti sospettabili e che solo le circostanze, a quel punto, dovevano rendere i soggetti colpevoli o innocenti. Da un punto di vista sociale la narrativa gialla, che trattava argomenti criminali e assai delicati, aveva sempre svolto un’importante funzione, grazie alla catarsi. Argomenti pericolosi e, nel miglior caso, come minimo latenti nell’animo umano, trovavano soddisfazione e soprattutto sfogo grazie a questo tipo di narrativa. Ma era importante, per fare ciò con un risultato utile in tal senso, una guida morale, non necessariamente bigotta o severa, ma che fosse comunque uno strumento per canalizzare queste sensazioni. Per capirci: se prendiamo la violenza, ingrediente primario dell’attività criminale, come elemento di riferimento, potremmo dire che i film o i racconti sulla violenza sono utili, per comprenderla e meglio gestirne gli impulsi a cui naturalmente è soggetto l’individuo. O anche solo per sfogarla, tramite la partecipazione emotiva, ma sempre con un supporto morale che la connoti come elemento negativo in sé. Diversamente libri o film violenti o inneggianti alla violenza sono da condannare e possono perfino essere dannosi per l’individuo, spronandolo ad utilizzarla nella vita con il processo di emulazione. Se con alcuni esempi dei thriller all’italiana probabilmente questo rischio si corse, onestamente, difficile ipotizzarne le caratteristiche sullo sceneggiato Come un uragano. Eppure, qualcosa manca. Se ci rifacciamo ad uno dei migliori esempi di assassini della storia del cinema, e per farlo ricorriamo ancora al maestro Fritz Lang, ovvero a Peter Lorre nei panni di M – Il mostro di Dusseldorf e lo paragoniamo agli omicidi, potenziali e non, dello sceneggiato di Silverio Blasi cosa possiamo notare? Che il terribile e feroce assassino di bambine che infestava la città tedesca è, per assurdo, più umano, nella spettacolare confessione durante il processo a cui lo sottopongono i banditi della città. Non si giustifica, per questo, il suo orrendo crimine, ma se ne comprende la natura profondamente umana della sua origine, deviata e malata, certo, ma umana. Viceversa, i personaggi di Come in uragano, uccidono quasi esclusivamente per denaro, come alla fine capisce anche la povera Diana, quando vede Paxton cercare di tagliare la corda. Il suo amante, infatti, ha scoperto che Geoffrey, poco tempo prima del suo assassinio, aveva cambiato le regole del testamento a favore dell’altra Diana, la sua amante spagnola, rendendo cioè vano l’atto criminale. E che la Diana spagnola, che conosceva il losco Paul Cooper, sapesse di beneficiare del testamento o non o sapesse, sono solo dubbi che servono a sorreggere il mistero tipico dei gialli di Durbridge. Che potesse essere un personaggio in sé stesso credibile, davvero credibile come assassino o come innocente non era un elemento inerente. Qui si uccideva per gioco, sostanzialmente, un gioco senza regole chiare, da non fare più «con gli spettatori», ma «a danno degli spettatori», alle loro spalle. Un utilizzo del media televisivo che diventerà sempre più consueto e comune, ma che nella finzione gialla, a causa della delicatezza degli argomenti trattati, lascia davvero stupefatti.  
Sarà un caso ma anni dopo, le cronache cominceranno a raccontare di casi con motivazioni simili, ma non dalla fiction televisiva, ma dalla cronaca nera. 


Delia Boccardo 



venerdì 25 luglio 2025

CORALBA

1703_CORALBA , Italia 1970. Regia di Daniela D'Anza

Il successo di Melissa, sceneggiato trasmesso dalla RAI nel 1966, indusse i vertici dell’emittente nazionale a ripetere la formula con i medesimi ingredienti. Si ipotizzò quindi un nuovo «originale televisivo» con Daniele D’Anza in regia e Rossano Brazzi protagonista di una vicenda che lo mettesse al centro di un intrigo angosciante. In sostanza, una situazione più in linea con i gusti del pubblico italiano rispetto alle preferenze degli spettatori inglesi, appassionati del giallo classico. In effetti il citato Melissa, come molti altri sceneggiati dello stesso genere, era tratto da un testo di Francis Durbridge, autore inglese e vero specialista in soggetti gialli per la televisione. Quelli inglesi erano film televisivi di una manciata di puntate della durata di mezz’ora circa, che venivano trasmesse verso le 19 e vertevano unicamente sul meccanismo giallo. Erano, in buona sostanza, degni eredi della corrente deduttiva del personaggio di Sherlock Holmes o dei romanzi di Agata Christie, numi tutelari della scuola anglosassone del genere. In Italia i dirigenti RAI avevano esigenze leggermente diverse, tanto per cominciare c’era da riempire la serata del dopo cena, con un racconto filmico quindi più corposo; inoltre, l’aspetto dei protagonisti doveva essere più sofferto e appassionato per coinvolgere meglio gli spettatori, per via della loro natura latina. E, forse, c’era anche una sorta di funzione catartica da soddisfare, per via della contingente situazione nel Belpaese in quelli che stavano già cominciando a divenire i famigerati «Anni di Piombo». I soggetti di Durbridge vennero quindi ampliati, inserendo personaggi e dando maggiore spazio all’approfondimento psicologico dei vari protagonisti in modo da soddisfare le citate esigenze. Nel 1970 si decise però un ulteriore passo in avanti: il soggetto sarebbe stato scritto ex-novo da un autore italiano, Biagio Proietti, per cercare una via autonoma anche su questo terreno tipicamente britannico. 

Proietti, all’epoca, era un giovane autore coinvolto nel mondo cinematografico e fu in quell’ambito che venne contattato da Rossano Brazzi e da suo fratello Oscar, produttore di Coralba, per stendere un corposo soggetto prendendo a modello il precedente esempio di Melissa, il citato sceneggiato RAI del 1966. D’Anza, il regista, trovò subito sintonia con Proietti e il suo testo, e se ne servì per una messa in scena di alto profilo: uno sceneggiato che più che ai suoi predecessori, guardasse direttamente al cinema sul grande schermo. Ma non al nostrano cinema «di genere», ad esempio il thriller all’italiana, che al tempo andava tanto in voga e a cui si possono ascrivere solo alcuni accenni, come la figura della presunta signora Schneider (Germana Paolieri), la ricattatrice che si nasconde dietro gli occhialoni scuri. Ha infatti ragione Mario Gerosa, quando nel suo prezioso saggio dedicato a Daniele D’Anza, coglie le analogie d’impostazione scenica generale tra Coralba e il cinema di spionaggio, altro «genere» britannico per eccellenza. [Mario Gerosa, Biagio Proietti, Daniele D’Anza, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2017, pagine 91 e seguenti]. L’idea dell’intrigo nel cui immergere lo spettatore, attraverso l’identificazione con il protagonista, il dottor Danon (Rossano Brazzi), ha però un’impostazione, per così dire, metalinguistica, a dimostrazione dell’ambizioni dello sceneggiato. Se la storia di spie rimanda direttamente al cinema inglese del tempo, la vicenda è perlopiù ambientata ad Amburgo, in Germania, ma ci sono passaggi anche a Ginevra, Venezia e Chamonix. Il protagonista è un dottore italiano, il che agevola l’immedesimarsi del pubblico RAI, ma il contesto in cui si muove è totalmente estraneo a nostro consueto mondo, sebbene molti precedenti sceneggiati erano ambientati all’estero, ad esempio proprio in Melissa l’azione si era svolta a Londra. 

Ma per Coralba si effettua un lavoro più specifico, si cerca di far passare l’idea di un contesto spiazzante, sfuggente, non omogeneo o coerente come un’ambientazione in questa o quella specifica città o nazione. Non a caso la sigla iniziale, che scorre sulle immagini delle acque del porto di Amburgo, un luogo fluttuante e che non dà riferimenti solidi, è accompagnata da Goin’out of my head cantata da Frank Sinatra, uno dei massimi esponenti della musica americana e quindi totalmente estraneo ad ogni altro elemento della vicenda. A confortare quest’impressione, la sigla finale, Splendido, [di Daniele D’Anza, Biagio Proietti e Gigi Cichellero] è sì in italiano ma è però cantata da Petula Clark, al tempo notissima interprete britannica che conferisce al brano il tipico accento inglese. Anche la composizione del cast non offre un riferimento univoco: Brazzi è certamente un volto noto ai telespettatori, così come Glauco Mauri (nel ruolo del commissario Lang), mentre per trovare un altro interprete abituale degli sceneggiati televisivi dobbiamo aspettare la comparsa di Carlo Hintermann per un ruolo marginale, il compagno della finta signora Schenider. Nonostante sia tolta di scena relativamente in fretta –ma va detto che ritorna puntualmente nella sigla finale di ogni puntata– ha lasciare un segno magnetico, per via della bellezza, e sfuggente, del resto non è quasi mai in scena, è Valérie Lagrange (è Helga Danon, la moglie del protagonista). La Lagrange era una cantante e attrice francese praticamente sconosciuta in Italia ed è perfetta per interpretare il ruolo di una donna che si rivela non essere quel che poteva credere tanto il marito, il dottor Danon, quanto lo spettatore. Il resto del cast sottolinea il carattere internazionale dell’opera: Michael Berger (è Tauberg), Martine Redon (è Vanessa), Wolfgang Stumpf (è l’avvocato Zimmermann) e Paul Glawion (è il commissario Ansen). In un simile contesto, la presenza di artisti del Belpaese nel cast, oltre ai due principali protagonisti, Danon e Lang, è rafforzata da un attore noto solo nel cinema «di genere», Venantino Venantini (è il dottor Bauer), e da Mita Medici (è Deborah, figlia del dottor Danon), all’epoca attrice in rampa di lancio e qui all’esordio televisivo. Già dall’estrema attenzione con cui sono curati questi dettagli alla base dello sceneggiato ci dice che Coralba è un prodotto di alta scuola, destinato al successo e a rimanere nella storia della televisione italiana come uno dei punti di svolta. Perché, a differenza dei tipici sceneggiati RAI, Coralba rende manifesto e clamoroso il distacco dal tipico registro recitativo di marca teatrale che aveva da sempre caratterizzato queste produzioni. D’Anza, come detto, prende il cinema del grande schermo come riferimento, come testimoniano le tantissime scene girate all’aperto –ci sono anche azioni di puro intrattenimento come la scazzottata, l’indagine peregrina per mezza Europa, l’attenzione alle automobili, tutti cliché del cinema di cassetta italiano e non – e anche l’uso del colore, quando in Italia la TV era ancora in bianco e nero, sottolinea le ambizioni di Coralba. In un simile contesto, gli interpreti recitano con un tono meno spiccato rispetto a prodotti analoghi, non dovendo supplire le carenze di una regia che, in questo caso, è di livello cinematografico. Il tutto per una confezione formale che, ad un ipotetico spettatore a cui dovesse capitare di assistere ad uno spezzone dello sceneggiato, lo farebbe scambiare quasi sicuramente per un film per il grande schermo che sta passando in televisione. Per quel che riguarda l’intrigo giallo, Proietti fa un ottimo lavoro, sovrapponendo sostanzialmente due trame gialle, stratagemma utilizzato spesso anche da Durbridge per creare un labirinto narrativo che offra sempre più di una apparente strada da seguire verso la soluzione. In questo caso, come base dell’intrigo abbiamo un ricatto ordito ai danni del dottor Danon, reo di aver causato la morte di un ragazzino somministrandogli il farmaco Coralba non ancora testato. In realtà le cause della morte del giovane non sono accertate e semmai il tentativo di Danon fu un atto di coraggio; che tuttavia gli morde ancora la coscienza. Non sembrano di quell’avviso, ovvero che il dottore sia pentito o comunque in sofferenza, l’uomo e la donna che decidono di sottoporlo ad un ricatto che non ha come unico scopo quello di spillargli denaro ma, anche e soprattutto, distruggerlo. Su questo primo meccanismo giallo se ne innesta un altro ordito da un altro dei personaggi della vicenda che, venuto a conoscenza del ricatto, decide di ingarbugliare ulteriormente la matassa per uscirne come unico vincitore, sfruttando il lavoro preparatorio dei, chiamiamoli così, concorrenti. È evidente che, se ci sono più personaggi che si muovono di nascosto, spesso senza conoscere gli uni le mosse degli altri, poi si vengano a verificare passaggi narrativi incomprensibili, per chi, come lo spettatore, è completamente estraneo agli eventi. 

La capacità di Proietti, ben coadiuvato poi dallo stesso D’Anza e da Belisario Randone in sceneggiatura, è quella di lasciare comunque sempre una possibile soluzione del mistero, che varia di volta in volta, in controluce, in modo da solleticare l’attenzione e la curiosità nello spettatore. Uno stile tipico di Durbridge e che forse gli autori italiani non riescono a replicare alla perfezione ma, semmai, ne forniscono una versione più propria, più sofferta e angosciata. In effetti, se il protagonista è il dottor Danon interpretato da Brazzi, è evidente che il ruolo dei commissari sia altrettanto importante. È in effetti significativo che i poliziotti che indaghino siano due, del resto tutta la storia è duplice: dal citato doppio intrigo giallo, alle due donne bionde assassinate con lo stesso cappotto a quadri, alla doppia vita di Helga/Olga, al dualismo tra la stessa Helga e Deborah, fino ai commissari Lang e Ansen. Quest’ultimo, interpretato dal teutonico Paul Glawion, è il tipico poliziotto duro e inflessibile che applica la Legge senza curarsi troppo dei risvolti umani; del resto l’interprete è tedesco, mentre il suo collega, più attento all’aspetto psicologico, ha il volto espressivo di Glauco Mauri, uno dei più bravi tra gli attori degli sceneggiati dell’epoca. Tuttavia Coralba è un film che non cerca soluzioni semplici e men che mai si rifugia negli stereotipi. Come detto, la storia è ambientata ad Amburgo, in Germania, e anche il commissario interpretato da Mauri è giocoforza tedesco: il suo nome è Lang, evidente omaggio al grande Fritz Lang, regista che riusciva a far coesistere nelle sue opere assoluto rigore morale e pulsante e viva umanità. Proietti raccoglie quindi la lezione di Durbirdge, ma per adeguarla al pubblico italiano, prova a dargli maggiore spessore ispirandosi a Lang che, in senso assoluto, resta un autore inarrivabile. In questo senso si spiega l’amaro finale –forse anche eccessivamente pessimista, se preso alla lettera– che potrebbe voler dire che il delitto, come la vita, è qualcosa di più profondo di un semplice gioco dove si deve scoprire il colpevole. Da un punto di vista tecnico-narrativo i passaggi chiave sono due: uno quasi in avvio, quando Danon si tradisce sulle scale della casa dove avviene il delitto della Schneider, e la faccenda dell’orologio di Vanessa inserito per errore nei gioielli di Helga. Il primo dei momenti rivelatori è molto interessante perché il dottore protagonista, in effetti, compie una gaffe, salendo le scale davanti ai due commissari, che rivela come stia mentendo. Ma, e questo è l’aspetto più importante, in realtà, come capisce argutamente Lang, questo suo passo falso sarà l’indicatore della sua innocenza e non della sua colpevolezza. Nello sceneggiato, quindi, viene meno un elemento tipico della narrativa gialla, ovvero che chi dice la verità è innocente e chi mente è colpevole; oltretutto, il personaggio di Danon, ad un certo punto, accetta quasi con sollievo di essere il possibile, anzi il probabile, assassino della signora Schneider, pur di non essere l’assassino di sua moglie Helga. Anche in questo elemento si può notare come sia l’aspetto umano su cui si focalizza la vicenda: un omicidio è, secondo qualsiasi Legge, sempre un omicidio ma per il protagonista –e, in un certo senso, per gli autori– un conto è aver ammazzato la donna che si ama un altro una sconosciuta che, oltretutto, ti stava ricattando. Danon, che incarna il punto di vista della storia, è un personaggio sofferto, umanamente travolto da quanto gli accade ma già fortemente minato nel suo animo se si pensa al senso di colpa per la morte del povero ragazzino su cui aveva sperimentato il farmaco Coralba. Il suo principale rivale non è colui il quale organizza il ricatto, che è solo una figura  di contorno, utile per innescare una vicenda torbida e fondata su gelosia e invidia, sentimenti umanissimi. No, in contrapposizione al Danon c’è un personaggio infido e calcolatore, che scivola su un dettaglio, l’orologio di Vanessa dal cinturino difettoso, per eccesso di sicurezza, per una sciocca ricerca della perfezione formale dell’intrigo che ha ordito. Anche questa è, in un certo senso, una presa di distanze dal giallo britannico per eccellenza, quello formalmente ineccepibile ma a cui manca qualcosa che realmente appassioni, che coinvolga completamente lo spettatore. Il commissario Lang, con il suo richiamo al maestro del cinema, in tutto questo è unicamente un testimone: è in grado di reggere la complessità dell’intrigo, si accorge di dettagli come le tracce sul ponte e sull’auto, da buon detective, ma capisce anche il dramma che sta vivendo Danon. Ma è unicamente testimone, non risolutore.
L’Italia, sembrano dire Proietti e D’Anza, si può forse capire, ma non salvare.      



Valérie Lagrange 



mercoledì 23 luglio 2025

93: BATTLE FOR UKRAINE

1702_93: BATTLE FOR UKRAINE , Ucraina 2018, 2020 e 2023. Regia di Lydia Guzhva


A scoprire che si tratta di una produzione indipendente, imbastita dall’esordiente regista Lydia Guzhva e dal militare Vadym Veydi, in origine giornalista freelance e in seguito arruolatosi nell’esercito ucraino, si rimane sorpresi per la professionalità e la cura formale che contraddistingue 93: Battle for Ukraine. Si tratta di un documentario storico bellico suddiviso in tre capitoli, che ripercorre cronologicamente le prime fasi della guerra russo-ucraina attraverso l’operato della 93sima Brigata Corazzata Kholodnyi Yar dell’esercito di Kyiv. Lo schema del film ricorda i documentari dei canali tematici come History Channel, con interviste, scene dal vero e mappe degli eventi, che permettono di comprendere in modo chiaro ciò che avviene sul campo di battaglia. Il primo capitolo, First Days of War - The story of the 93rd Brigade Kholodnyi, realizzato nel 2018, incomincia documentando le difficoltà incontrate dall’esercito di un Paese che non si aspetta di ritrovarsi coinvolto in una guerra, con problemi come la mobilitazione, l’addestramento delle truppe, e l’approvvigionamento di armi. Il fatto che i separatisti, di loro altrettanto impreparati, abbiano avuto sin da subito il pronto appoggio dell’esercito russo, un’autentica macchina guerra organizzata e astutamente preparata già in precedenza all’evenienza, ha acuito le difficoltà dei nazionalisti. Tuttavia, non c’è come una guerra per velocizzare i tempi di apprendimento e, ben presto, si entra nel vivo degli scontri. Tra gli episodi bellici rilevanti raccontati nel primo episodio il più tremendo è il terribile Calderone di Ilovays'k, un’autentica carneficina con gli ucraini fatti a pezzi dal bombardamento russo mentre cercavano di ritirarsi. Stando alla versione ucraina e occidentale, i filorussi avevano promesso un «corridoio  verde», un passaggio che avrebbe consentito ai nazionalisti di evacuare l’area incolumi: in realtà era la più infida delle trappole e il battaglione fu praticamente distrutto.
Il 14 agosto 2020, a Leopoli, venne presentato il secondo capitolo dell’opera, presso il Lviv Film Center; queste le parole del coautore di 93: Battle for Ukraine, Vadym Veydi: “Nonostante il fatto che ci sia una triste tendenza al sostegno alle posizioni filo-russe da parte di alcuni media civili ucraini, la situazione nelle forze armate ucraine è notevolmente migliorata rispetto alla situazione all’inizio della guerra. Sono stati creati servizi per la stampa e sono arrivate persone ideologicamente interessate a svilupparli... Che video che solo ora vengono mostrati alle forze armate ucraine! Sono pieni di patriottismo, forza e fede!” [Maria Kull, La Prima del documentario militare 93: Battle for Ukraine si è svolta a Leopoli, dal sito GalInfo.com.ua, pagina web https://galinfo.com.ua/news/u_lvovi_vidbulasya_premiera_viyskovodokumentalnogo_filmu_93_biy_za_ukrainu_348967.html, visitata l’ultima volta il 28 dicembre 2024]. L’entusiasmo ardente dello sceneggiatore del documentario rivela la matrice apertamente schierata di 93: Battle for Ukraine, cosa del resto già ben evidente guardando il film. Si tratta, in buona sostanza, di un’opera di propaganda, pienamente lecita in tempo di guerra da parte dei soggetti coinvolti, alla quale lo spettatore neutrale può approcciare senza problemi o timori, a patto di  tenere ben presente la natura dell’operazione. Il secondo capitolo, War Diary of the 93rd Brigade Kholodnyi si apre con alcuni interessanti considerazioni di Roman Huba «Malyi», comandante del primo battaglione, e Oleh Mikats «Desna», comandante dell’intera brigata. Secondo i due ufficiali, la guerra russo-ucraina fu preparata per tempo dal Cremlino, addirittura una quindicina d’anni prima dell’annessione della Crimea, l’evento che diede il là alle operazioni di Mosca. Huba fa un resoconto evidente: ai tempi della dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’Ucraina vantava un esercito forte di 450.000 militari, che scesero nel tempo a 80.000, per arrivare, con gli uomini pronti all’azione, ai soli 6000 mila nel 2014. Mikats è perfino più esplicito, accusando di quest’opera di distruzione dell’esercito ucraino gli ultimi due ministri della difesa, di cui sottolinea il fatto che fossero russi. La realtà è un po’ più complessa da stabilire, ma non deve essere molto diversa da quanto dichiarato dal comandante della 93sima Brigata. Forse l’ufficiale si riferisce a Dymitro Salamatin, nato in quello che ora è il Kazakistan e Ministro della Difesa nel 2012, accusato, tra le altre cose, di tradire il Paese in favore della Federazione Russa [dalla voce di Wikipedia inglese dedicata a Dymitro Salamatin, pagina web https://en.wikipedia.org/wiki/Dmytro_Salamatin, visitata l’ultima volta il 28 dicembre 2024] e a Pavlo Lebedyev, nato effettivamente in Russia e Ministro della Difesa tra il 2012 e il 2014, accusato di diserzione [dalla voce di Wikipedia inglese dedicata Pavlo Lebedyev, pagina web https://en.wikipedia.org/wiki/Pavlo_Lebedyev, pagina web visitata l’ultima volta il 28 dicembre 2024]. Per quanto, accuse simili sono state indirizzate anche al Ministro della Difesa precedente, Mykhailo Yezhel, in carica dal 2010 fino al 2012 reo, secondo i tribunali ucraini, di aver venduto indebitamente due bombardieri alla Russia e di diserzione [dalla voce di Wikipedia inglese dedicata Mykhailo Yezhel, pagina web https://en.wikipedia.org/wiki/Mykhailo_Yezhel, pagina web visitata l’ultima volta il 28 dicembre 2024], per non parlare di quelle rivolte al Capo di Stato Maggiore Volodymir Zamana che, secondo il procuratore militare, avrebbe privato l’Ucraina del suo sistema di difesa avendo sciolto le divisioni missilistiche [dalla voce di Wikipedia inglese dedicata Volodymir Zamana, pagina web https://en.wikipedia.org/wiki/Volodymir_Zamana, pagina web visitata l’ultima volta il 28 dicembre 2024]. Insomma, le parole degli ufficiali della 93sima Brigata non sembrano affatto campate per aria e gettano una luce diversa su tutta quanta la crisi. Per quel che concerne le operazioni belliche, il secondo episodio si concentra sull’Assedio all’Aeroporto di Donets'k, dove i nazionalisti furono in grado di resistere quasi quattro mesi ai pesanti attacchi dell’artiglieria filorussa. Un’altra pagina di epica che, peraltro, gli ucraini si sarebbero risparmiati volentieri; ma è altresì vero che questi episodi stanno cementando sempre più il patriottismo della popolazione sotto attacco. Come Fisica insegna, «Ad ogni azione corrisponde un’azione uguale e contraria», [Terzo Principio della Dinamica] pertanto le manovre di Putin stanno sortendo anche effetti non certo favorevoli ai suoi stessi scopi.  
   
Stando al trailer, il terzo capitolo della serie, al momento ancora in lavorazione, continuerà a seguire le vicende dell’esercito ucraino nella guerra contro l’invasore, fornendo un rapporto dettagliato, ad esempio, sulla Battaglie di Marinka o Pisky. Non resta che aspettare la diffusione del documentario.




    LA STUDENTESSA E L'ORSO è uno studio sulla guerra russo-ucraina attraverso il cinema. 



In vendita qui: