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lunedì 13 febbraio 2023

7 SCONOSCIUTI A EL ROYALE

1221_7 SCONOSCIUTI A EL ROYALE (Bad Times at the El Royale)Stati Uniti, 2018; Regia di Drew Goddard.

Nonostante sia un cineasta polivalente, principalmente produttore e sceneggiatore, prima di 7 Sconosciuti a El Royale Drew Goddard si era cimentato alla regia solo una volta, con Quella casa nel bosco nel 2011. Ma forse in virtù dell’esperienza più generale nell’ambito cinematografico, Goddard si rivela subito capace anche dietro la macchina da presa: era stato bravo ad interpretare l’horror nel suo esordio e qui è addirittura in grado di realizzare un film, 7 sconosciuti a El Royale che richiama fortemente il cinema meta-nostalgico di Quentin Tarantino o qualche esempio di quello dei fratelli Coen. Non uno genere specifico, quindi, ma un modo di fare cinema molto in voga, certo non limitato agli autori citati ma comunque abbastanza peculiare, che Goddard, a livello formale, riesce a ricreare con competenza. Del resto anche Quella casa nel bosco aveva una fortissima connotazione metalinguistica che, a questo punto, potrebbe proprio essere la cifra poetica del regista. Dopo i cliché horror del precedente film, stavolta Goddard si cimenta con  quelli di questi nuovi thriller autoreferenziali. Ambientazione anni Sessanta, décor dettagliatissimo, fotografia dai colori caldi, attenzione maniacale alla musica, violenza talmente estrema da risultare astratta, utilizzo dei flashback e della scomposizione della linearità temporale, impiego di didascalie anche formalmente bizzarre: insomma, un concentrato di tutte, o quasi, le caratteristiche di questo tipo di film. L’insieme funziona sia per l’abilità di Goddard, che si è detto è anche valente sceneggiatore – il che non guasta mai – sia per il cast a dir poco sorprendente. Nientemeno che Jeff Bridges è Padre Flynn poi, tra gli altri, c’è Chris Hemsworth nel ruolo del folle Billy Lee mentre Dakota Johnson è Emily e la debuttante Chintya Erivo la vera protagonista, la cantante Darlene Sweet. 

Quest’ultima è l’unico personaggio che in qualche modo potrebbe rientrare nei canoni di quelli che al cinema un tempo venivano considerati buoni: in effetti lei vorrebbe unicamente fare quello che ama, cantare, ma la vita la pone d’innanzi a più di qualche difficoltà. Poi, quando le si para davanti la possibilità di arricchirsi con denaro rubato non sembra farsi il minimo scrupolo per via dell’ambigua provenienza dello stesso. Il che qualche dubbio sulla sua dirittura morale ce lo pone, ad essere onesti; ma vabbè. Anche Padre Flynn eticamente non è proprio malaccio, come personaggio: non sarà un prete vero ma ha una sua specie di morale, sebbene l’aver scontato la pena per la rapina, e averci in questa perso il fratello, non lo rende legittimamente proprietario dei dollari rubati. Il punto, o quello che si potrebbe presumere che lo sia, è che nel film non ci sono vere possibilità di scelta: si va da personaggi presi dalla politica istituzionale, con i continui riferimenti impliciti a JF Kennedy, ad altri presi dalla contestazione del sistema, laddove Billy Lee ricorda i rivoluzionari pazzi alla Charles Manson, tutti quanti accomunati dalla sintetica descrizione che ne dà Darlene Street: gente che vuole incantarti con le parole ma che, alla fin fine, vuole unicamente fottere chiunque. Può bastare a giustificare la sua scelta di accettare l’offerta di Padre Flynn e diversi il bottino? 

Siamo sul finire degli anni Sessanta, la citata contestazione è appena cominciata, eppure, anche grazie al Vietnam, tirato in ballo dall’impiegato dell’hotel El Royale, Miles Miller (Lewis Pullman), si è capita la vera natura del Sogno Americano. Forse c’era qualcuno in buona fede che ci credeva, come l’agente Sullivan (Jon Hamm) che disobbedisce agli ordini che gli intimano di fregarsene del rapimento a cui gli capita di assistere, visto che l’unica cosa che conta è recuperare i filmini compromettenti che potrebbero infangare la memoria del presidentissimo. Ma l’onesto Sullivan, dedito soltanto ad un banale doppio gioco, dura pochissimo in una simile contorta e corrotta situazione: Rose (Cailee Spaeny), la rapita, è una pazza pericolosissima mentre sua sorella Emily, la rapitrice, è meno folle ma non meno pericolosa. Nell’assoluta mancanza di valori positivi, se non nella disperata delusione di Darlene, il film non sembra darci scelte ma, in compenso, ci pone subito di fronte ad un bivio: anche simbolicamente l’El Royale è infatti spaccato in due dalla linea di confine tra California e Nevada. Il film quindi è costretto, proprio come i suoi personaggi, a fare una scelta anche se sembra un filo assurda, del tutto virtuale e non molto significativa. Comunque c’è una decisione narrativa da prendere, praticamente inevitabile, e quindi si va avanti. Ci rimane sul gozzo, almeno al livello ideologico, la questione del bottino che non è risolta in modo pulito, sia chiaro. Eppure, alla fine, sentendo Darlene cantare, non possiamo che condividere la scelta di Goddard. La sua voce, che ce ne saranno anche di migliori – come sostiene Billy Lee – ma è bellissima, sembra perfino in grado di guarire un personaggio discutibile come Padre Flynn.
E, per un’ora e mezza, anche noi. 




Chintya Erivo


Dakota Jhonson 


Cailee Spaeny


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domenica 12 febbraio 2023

QUELLA CASA NEL BOSCO

1220_QUELLA CASA NEL BOSCO (The Cabin in the Woods). Stati Uniti, 2011; Regia di Drew Goddard.

Già produttore e sceneggiatore, quando Drew Goddard decide di passare dietro alla Macchina da Presa per dirigere Quella casa nel bosco ha evidentemente un’urgenza che gli preme soddisfare. Perché il suo esordio è un horror tutt’altro che banale o convenzionale; certo, la matrice metalinguistica nel genere era stata già introdotta da Wes Craven con Scream (1996) che è uno dei riferimenti che salta all’occhio guardando il film di Goddard. Tra gli altri, La Casa (1981) e La Casa II (1987) entrambi di Sam Raimi, oltre all’inizio che, con il gruppo di ragazzi che si ferma dall’inquietante benzinaio, ricorda il capostipite di questo filone horror Non aprite quella porta (1974, regia di Tobe Hooper). E questo restando alle citazioni più evidenti, che Goddard non prova a dissimulare in nessun modo, al contrario. E un testo metalinguistico e il regista vuole che gli spettatori sappiano e partecipino a questo nuovo horror in cui un gruppo di ragazzi verrà in qualche modo sacrificato alle regole del genere. Per l’aspetto più interessante e originale il regista sfrutta le sue conoscenze professionali in qualità di produttore: quello che viene mostrato di insolito, in Quella casa nel bosco, è ciò che sta nella sala dei bottoni del cinema. Certo, è una versione romanzata alla bisogna, in questo caso lo studio di produzione diventa una sorta di centro di controllo sul mondo che coordina, gestisce e sacrifica la vita di ignari giovanotti. La vicenda dei ragazzi che vanno a fare una scampagnata, Curt (Chris Hemsworth), Jules (Anna Hutchison), Marty (Fran Kranz), Holden (Jesse Williams) e Dana (Kristen Connolly), è una sorta di rito in cui devono essere sacrificati le varie figure simboliche, l’atleta, la puttana, il buffone, lo studioso e solamente per ultima, la vergine (ruoli in rigoroso ordine ai rispettivi personaggi citati sopra). Tutto ciò per far star buoni gli Antichi; a proposito del cast, tra gli oscuri burattinai vale la pena citare il sempre ottimo Richard Jenkins mentre addirittura Sigourney Weaver è ingaggiata per interpretare la Direttrice. E’ evidente una metafora tra la storia fantascientifica che sorregge la vicenda terrorizzante dei cinque giovani e la produzione di film horror. La domanda che nasce un po’ spontanea è: per quale motivo c’è la necessità di vedere massacrati tutti questi ragazzi? Perché il genere horror da mezzo secolo si accanisce contro i giovani? 

La risposta più ovvia è che sono proprio gli adolescenti a premiare questi film, che incarnano le loro inquietudini e la loro voglia di trasgredire, nella consapevolezza che per crescere devono in qualche cosa disobbedire alle convenzioni e prendersi qualche rischio. Il cinema horror interpreta nella sua natura questa funzione e in tempi relativamente più recenti ha sviluppato un sottogenere che vede all’opera i giovani e i loro desideri, tra voglie, limiti e rischi connessi. Goddard sembra invece scegliere una risposta più complottista: questa necessità, almeno vedendo il suo film, sarebbe indotta dal Sistema. Non a caso il meccanismo salta perché Marty ha fumato marjuana rimanendo immune alle droghe con cui gli uomini del controllo hanno condizionato i giovani. La salvezza non premia il più forte, il più resistente, il più audace, il più fortunato, ma quello che trasgredisce di più. 

La trasgressione non è più, come nel processo educativo, qualcosa per sondare i limiti, ma l’unica via per la salvezza. Fare qualcosa di tutto sommato ancora inteso come proibito, fumarsi una canna, può salvarti e fregare il Sistema. L’idea che le necessità siano indotte da chi tira le redini della società non è certo campata per aria: viviamo nell’era del consumismo e la maggior parte di ciò che compriamo e ancor più desideriamo di comprare in realtà è roba superflua. Tuttavia è curioso appioppare questo meccanismo al cinema horror, o nello specifico al filone del gruppo di giovani che finiscono male. In fondo, questo tipo di film ha una sua funzione, ed è quella in qualche senso educativa già citata sopra. Ma forse l’idea di Goddard è di dare una sveglia ai giovani attraverso l’uso del cinema horror, sfruttando proprio il gradimento del genere presso i ragazzi. Ma in questo caso l’ostentata natura metalinguistica di Quella casa nel bosco gli si ritorce un po’ contro. L’argomento del film è inevitabilmente il filone dei giovani massacrati all’interno del genere horror e non il Sistema in senso assoluto. E c’è una palese critica alla pratica di uccidere i giovani in questi film, almeno così sembra intendere il finale, con gli Antichi che faranno piazza pulita di tutto, lasciando la possibilità di produrre d’ora in poi qualcosa di diverso. Ma allora qualcosa non torna. Un film che vorrebbe sancire la fine di una corrente cinematografica e, invece di proporre qualcosa di nuovo, ne utilizza gli stessi stilemi narrativi? Se non bocciato, in un fondo è film divertente, quantomeno rimandato all’arrivo degli Antichi. Per vedere se faranno paura quanto i classici ragazzi massacrati.   






Kristen Connolly



Anna Hutchison 



Sigourney Weaver 

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venerdì 10 febbraio 2023

LEPTIRICA

1219_LEPTIRICA . Jugoslavia, 1973; Regia di Đorđe Kadijević.

Chissà quanto può influire sulla nostra emotività di fronte ad una scena la consapevolezza di guardare un horror piuttosto che un altro genere di film. Un horror oltretutto di culto come Leptirica, un piccolo ma prezioso film prodotto dalla televisione Jugoslava nel 1973 per la regia di Đorđe Kadijević. La scena in questione è quasi in avvio: nel mulino di un remoto villaggio bosniaco di fine Ottocento arriva il signor Zivan (Slobodan Perovic). Vule (Toma Kuruzovic), il mugnaio, dorme; quando si sveglia, totalmente infarinato, coi baffoni bianchi e il cappello di pelo, sembra una creatura del folclore balcanico. Invece è solo un pover’uomo: sono passati tre minuti dall’inizio del film, da buon prodotto televisivo la camera è stata grosso modo concentrata sui volti dei due uomini e il tono del racconto si mantiene quieto. Il bizzarro canto di un uccello, piuttosto inquietante, rompe la monotonia del rumore del ruscello e della macina, Vule corre fuori per zittire il volatile seguito da Zivan che alimenta quella sottilissima angoscia che si è insinuata: “dormi qui, solo? Non hai paura?” sono infatti le domande che porge al mugnaio; il quale rimane perplesso poi qualcosa attira la sua attenzione. E’ la scena citata: la ripresa stacca su un prato in pendio che taglia obliquamente lo schermo. Al centro, in lontananza, la figura di una ragazza bionda, con un vestito bianco: una veloce zoomata e sentiamo addirittura i campanacci delle pecore che la fanciulla accompagna. Nient'altro.

Contemporaneamente, la pelle d’oca ci assale le braccia. E’ forse la scena migliore del film ed è dannatamente valida perché è particolarmente significativa oltre ad essere giocata solamente su pochissimi elementi e sulla capacità registica di Kadijević. Il folclore balcanico, in ogni caso, c’entra sin dal racconto del 1880 di Milovan Glišić da cui è ispirato il film, ed è una storia sul vampirismo tutto sommato abbastanza originale. Le scene in puro stile horror sono efficaci con qualche accenno splatter non del tutto da sottovalutare considerando che si tratta di un prodotto televisivo. Pare, tra l’altro, che la televisione jugoslava trasmise il film in orari destinati ai ragazzi e la cosa desta un po’ di impressione, oggi, a vedere i vigenti limiti censori. Può forse aver ingannato il tenore del racconto, che è una sorta di commedia nera con spunti ai limiti del grottesco, mantenuta peraltro nel giusto equilibrio dalla valida regia. 

L’efficacia horror non è affatto intaccata, infatti, dallo stormo di personaggi pittoreschi e caricaturali che ricerca prima un nuovo mugnaio, dopo che Vule è stato ucciso dissanguato nella notte, e poi si cimenta addirittura in una caccia al vampiro. I protagonisti principali sono però Strahinja (Petar Bozovic) e soprattutto la bellissima Radojka (Mirjana Nikolic), la ragazza della scena citata, due giovani innamorati la cui vicenda sentimentale si interseca efficacemente con la traccia vampiresca. Strahinja chiede al padre di Radojka, il signor Zivan, la mano della figlia. L’uomo rifiuta, dal momento che il ragazzo è uno spiantato senza lavoro né soldi. Zivan, tra l’altro, è un omone poco raccomandabile per cui per Strahinja non può nemmeno alzare troppo la cresta. Il giovane è davvero sconsolato e qui c’è il punto in cui le due piste narrative si intersecano in modo visibile – l’altro incrocio è molto più intrinseco – ovvero quando i bizzarri uomini del villaggio approfittano della disperazione del ragazzo per offrirgli il posto di mugnaio. Lavoro che non offre molte garanzie di prosperità, visto che Vule è stato il quarto in un anno a passare a miglior vita sotto le zanne del vampiro. Ma anche allora si diceva che fossero solo leggende o forse è per ribaltare la situazione con Radojka ottenendo un impiego per riuscire a convincere Zivan, fatto sta che Strahinja accetta. Come si vede la matrice letteraria del film garantisce una buona solidità nell’architettura che infatti procede senza sbavature. La regia di Kadijević lavora costantemente sotto traccia fornendoci gli indizi per intuire, se non tutto, perlomeno a grandi linee il lato oscuro della vicenda. Il finale è sorprendente anche se lascia qualche velatura oscura sui passaggi logici, ma del resto siamo nel campo soprannaturale, e nel complesso l’opera risulta pienamente convincente.
Insomma, la sinistra fama di Leptirica è ampiamente meritata.  





Mirjana Nikolic




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mercoledì 8 febbraio 2023

EL TOPO

1218_EL TOPO Messico, 1970; Regia di Alejandro Jodorowsky. 

“La talpa è un animale che scava gallerie sottoterra. In cerca del sole, a volte la strada la porta in superficie. Ma quando vede il sole, resta cieca”. Queste parole possono fungere, in un certo senso, da guida per cercare di avere almeno una strada da seguire guardando El Topo, folgorante secondo lungometraggio di Alejandro Jodorowsky. Il protagonista del film è proprio el Topo, (che significa ‘la talpa’ in spagnolo) interpretato dallo stesso Jodorowsky, e la sua ricerca del sole lo condurrà lungo un viaggio surreale e onirico nel quale la violenza avrà la forza accecante dell’astro celeste per la talpa. Il pretesto narrativo del film è il western, nell’accezione tarda degli spaghetti o delle pellicole crepuscolari del genere ma è arduo catalogare El Topo all’interno della normale produzione cinematografica. Jodorowsky conosce il cinema e, in più di un passaggio, lo dimostra con espliciti riferimenti ma l’utilizzo che fa del media è del tutto svincolato da qualsiasi cosa che non sia il suo estro artistico. Curiosamente la violenza estrema e surrealista è usata con partecipazione e trasporto emotivo e non con astratto distacco eppure si deve ammettere che la cosa la rende comunque affascinante e suadente. In questo senso va forse ricercata la motivazione che spinse il regista cileno ad ammantare il suo film di alcune caratteristiche western, considerato che le derive coeve del genere (i citati spaghetti western o i tardo western) avevano quegli stessi stilemi, seppure di tenore assai meno enfatizzato. Si diceva della necessità di una guida per seguire il film: in realtà la trama di El Topo è tutto sommato comprensibile per quanto presenti troppi rimandi, citazioni, simbolismi, estremismi, per potersi dire davvero narrativamente fruibile al di là della cronologia degli eventi. Quello di Jodorowsky è un titolo di culto, il film preferito da John Lennon, oltre che apprezzato da artisti che vanno da David Lynch ai Timoria (ricordate l’album El Topo Grand Hotel?), e queste sono referenze mica da ridere. Del resto El Topo è un film formalmente quasi ipnotizzante per la malìa delle immagini, un testo che affascina. Qui, però, tornano alla mente le parole citate all’inizio. E sorge il dubbio che il film ci affascini come il sole può farlo con la talpa e che, proseguendo nel paragone, finisca per renderci più ciechi di quanto già non siamo, brutalizzati dalla violenza della pellicola. E’ davvero questo che fa il grande cinema?  





 Paula Romo 



Mara Lorenzio 


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