ROAD TO ALEXIS
Da "I BELIEVE IN YOU" al GOLDEN GLOBE
Oggi,
probabilmente, la figura di Joan Collins è accettata un po’ da tutti come
quella di grande attrice, testimone della Hollywood dei tempi andati.
Soprattutto la si mette in relazione con il personaggio di Alexis Colby, la
cattiva del serial Dinasty che furoreggiò negli anni 80. Volendo essere
ottimisti possiamo pensare che più o meno tutti abbiano compreso come la capacità
della Collins di interpretare un personaggio spregevole sia un merito dovuto
alle sue doti d’interprete e non un suo limite. Memorabile, in senso opposto a
questo augurio, la definizione de Il Morandini 2003 che tributò alla Collins
un ben poco lusinghiero “esecrabile attrice” tanto tranciante quanto
goffo e inadeguato. Ma insomma, è lecito pretendere che si sia ormai diffusa la
convinzione che Joan Collins sia una grande attrice: il Golden Globe
vinto nel 1983 (ovviamente per la sua interpretazione in Dinasty) avrà
pure il senso che questi premi hanno (tanto per capirci, Alfred Hitchcock non ha
mai vinto un Oscar) ma il fatto che il mondo istituzionale dello
spettacolo abbia riconosciuto il valore artistico di Joan, gli conferisce
invece un significato particolare. Perché l’attrice inglese non ha quasi mai ricevuto
un atteggiamento favorevole, né dalla critica ma, almeno stando ai fatti, nemmeno
dallo star system stesso. E dire che la carriera della Collins era
partita in quarta: nel 1951 esordisce appena diciottenne in un ruolo marginale
in Nuda ma non troppo, commedia di Frank Launder e, dopo un altro paio
di apparizioni secondarie in film minori, l’anno successivo già comincia a
farsi notare seriamente. In I Believe in You, dramma di Basil Dearden e Michael
Relph, un ruolo di grande rilievo le consente di mostrare il proprio talento, confermato
poi dai successivi film britannici girati tra il 1952 e il 1954. Joan si
specializza nel ruolo di ragazza difficile (Cosh Boy, Appuntamento
col destino) o comunque di personalità (L’età della violenza), anche
qualora il suo spazio sullo schermo sia risicato (The square ring), ma dimostra
di essere all’altezza anche in parti più leggere (Come Eva… più di Eva).
Sono passati solo pochi anni dal suo esordio e l’attrice viene ingaggiata come
protagonista per un importante film americano che verrà girato tra l’Italia e l’Egitto.
E’ il 1955 e Joan Collins interpreta la principessa Nellifer ne La Regina
delle Piramidi, film storico mitologico diretto nientemeno che da Howard
Hawks. L’attrice inglese è una protagonista perfida e perfetta e il film, pur
non essendo un capolavoro, non è affatto male eppure il risultato al botteghino
è un fiasco. Se Hawks, dopo una simile batosta, tornerà alla regia soltanto ben
quattro anni dopo, la Collins viene messa subito sotto contratto dalla 20th
Century Fox, il che significava Hollywood in pianta stabile. In quel 1955 l’attrice
recita in altri due film: eppure chissà, forse l’inspiegabile fastidio creato
da La Regina delle Piramidi lascerà una scomoda eredità anche per la
Collins. Quasi una sorta di antipatia, da parte di certa opinione pubblica, che
accompagnerà l’attrice negli anni a venire e che impedirà di veder riconosciuto
in maniera inequivocabile il suo talento.
Perché già nei due film del ’55 l’attrice
inglese sfodera due prestazioni eccellenti, tenendo testa addirittura a Bette Davis
ne Il favorito della Grande Regina e interpretando un ruolo chiave nella
storia moderna degli Stati Uniti, quello di Evelyn Nesbit, ne L’altalena di
Velluto Rosso, sottostimato dramma storico di Richard Fleischer. Quest’ultimo
ruolo forse rafforza, per assurdo, l’idea che l’attrice possa interpretare solo
la cattiva arrivista, una parte che Joan si diverte anche a fare, con una
naturale classe che finisce per mettere in ombra tutte le concorrenti sullo
schermo, come accade in Sesso debole?. Il film è trascurabile, ma
dimostra la capacità dell’attrice di prendere sapientemente in giro anche i
luoghi comuni che ormai le si stanno appiccicando addosso. Tuttavia il film
successivo è un altro lavoro notevole, Fermata per 12 ore: probabilmente
non un capolavoro (per via della modesta regia di Victor Vicas) ma nel
complesso un’opera (tratta da John Steinbeck) in genere colpevolmente
sottovalutata e nella quale spicca proprio l’interpretazione di Joan Collins. Ormai
però una cosa sembra chiara: per una ragione o per l’altra (come un ripensamento
improvviso di Roberto Rossellini) la Collins non riuscirà a sfondare ad
Hollywood nel modo che le compete, a diventare cioè una superstar grazie ad uno
o più capolavori interpretati. Robert Rossen non riesce a rendere
indimenticabile L’isola nel sole, un drammone a tinte forti, di quelli
che furoreggiavano al tempo, perdendo il filo inseguendo improbabili risvolti
gialli della trama. Henry King si è troppo indurito e Bravados, pur
essendo un buon western, finisce per non essere né un classico né
un esponente memorabile delle correnti crepuscolari del genere.
Il
vecchio Leo McCarey aveva ormai smarrito il bandolo della matassa in regia e non
riesce a dare il giusto equilibrio alla commedia Missili in giardino che,
per quanto sia un’opera carina, gli si sgonfia in mano. Il pur bravo Henry
Hathaway spreca l’ennesima occasione della carriera con I sette ladri, valido
prodotto che non riesce a raccogliere quanto potenzialmente aveva in dote. In
questi film Joan Collins recita in modo sontuoso, come una vera diva. I film,
per un motivo o per l’altro, non sono particolarmente memorabili ma non certo
per colpa dell’attrice inglese. Anzi, si può dire che il fatto che vi reciti
Joan Collins renda a posteriori questi film più interessanti; nel vederli si
può comprendere come fossero opere che avrebbero anche potuto diventare capolavori
ma naturalmente non tutte le ciambelle escono col buco. La sfortuna
hollywoodiana di Joan è di non aver mai preso la ciambella giusta. A quel
punto, ormai negli anni sessanta, l’attrice inglese prova a battere nuove
strade: alcune partecipazioni a produzioni televisive e il ritorno in Europa
per qualche film un po’ fuori dagli schemi. In Italia ruba la scena nientemeno
che a Vittorio Gassman ne La congiuntura, film ancora una volta poco
incisivo, poi recita nel pretestuoso Lo stato d’assedio (1969, di Romano
Scavolini), in quello che si può considerare il passaggio minore dell’attrice
fino ad allora.
Ma non per colpa delle sue capacità artistiche: la conferma che
il talento della Collins non si è per nulla appannato arriva da Il caso Trafford
(1972, di Ralph Thomas), nel quale l’attrice riesce a coniugare al femminile
un genere, la fantascienza, tipicamente maschile. In effetti Il caso
Trafford, buon film ma nemmeno stavolta un capolavoro, può però essere
preso a sorta di manifesto dell’importanza di Joan Collins nella storia del
cinema: l’attrice inglese fu quella che meglio di ogni altra riuscì a ritagliarsi
un suo spazio originale e personale in una società maschilista come quella del
cinema senza perdere la propria femminilità. Questo la pose in contrasto con le
idee maschiliste (ad esempio, quelle del produttore che voleva una sua gentilezza
da divano in cambio di ruoli significativi) come anche con il pensiero mainstream
femminista, che rifiutava l’iconografia classica della donna che invece la
Collins interpretava sontuosamente. Ovviamente una bella donna che pretende la
stessa libertà di pensiero ed azione di un uomo del ventesimo secolo non poteva
che passare per una poco di buono e, in sostanza, fu quello che, almeno per
quel che riguarda la vita sullo schermo, capiterà proprio alla Collins.
Intanto l’attrice divenne un habitué del cinema horror britannico, interpretando
una manciata di film generalmente godibili ma che certo non la rilanciavano
come star di prima grandezza. Sia chiaro, sempre meglio de Il richiamo del
lupo, disastro italospagnolo in celluloide ad opera di Gianfranco
Baldanello e punto più basso della carriera della londinese. Che, diversamente,
da parte sua ritiene il di poco successivo L’impero delle termiti giganti
(1977) come suo momento più negativo ma la bella Joan si sbaglia. Il film di
fantascienza di Bert I. Gordon ha sì una deriva trash ma è godibile e poi proprio
la Collins sciorina una super prestazione tanto che fu la prima volta che una
giuria ufficiale la prese in considerazione per un riconoscimento (nomination al
Saturn Awards, come miglior protagonista in un film di fantascienza).
Insomma, a 45 anni Joan Collins era tutt’altro che bollita e con l’accoppiata The
stud- Lo stallone (1978) e The Bitch (1979) poteva finalmente
raccogliere il meritato successo. Che fu clamoroso ma, in fin dei conti, non della
portata che le spettava, essendo il suo ruolo ancora in anticipo sui tempi: fu
solo con gli ottanta, e con l’approdo ad Alexis Colby, che il grande pubblico,
e giocoforza almeno parte della critica, si accorse di quanto fosse acuta la
Collins come attrice. Di quanto fosse critico, da un punto di vista sociale, il
suo sguardo, il suo indagare attraverso quello che era il suo lavoro, l’interpretazione
attoriale.
Joan Collins non è una grande star per via della magnetica bellezza,
del suo charme irresistibile o della sua autoironia. Joan Collins è una grande
star, forse addirittura la più grande, perché ha cominciato a dirci già dagli
anni cinquanta, attraverso molti dei suoi personaggi, quello che sarebbe
successo negli anni 80, quel passaggio epocale che ha cambiato la nostra vita.
Certo, da una parte la personalità dell’attrice era illuminante, e quello che
rivendicava, attraverso i ruoli interpretati, era sacrosanto. Le donne dovevano
avere gli stessi diritti degli uomini, anche in quegli ambiti più delicati,
come quello sessuale. Ma, nei suoi personaggi, la Collins metteva sempre una
volontà di giocarsela senza favoritismi, senza quote rosa che l’aiutassero,
perché le donne non solo dovevano avere gli stessi diritti degli uomini ma erano
in grado di guadagnarseli, quei diritti, proprio come avrebbero fatto gli
uomini. Il personaggio tipico della Collins non accampa alibi: cerca di giocarsela
alla pari, al massimo può picchiare sotto la cintura ma non chiede agevolazioni.
Questo approccio, che era proprio della personalità dell’attrice e permeava i
suoi personaggi, è quello che purtroppo è mancato quasi completamente nella società.
Si è preferito una narrativa diversa, prevalentemente se non del tutto infondata, che ci ha
raccontato (e ci racconta) per decenni di quanto il mondo sarebbe stato migliore
se a governarlo fossero le donne. Dimenticandosi, o facendo finta di
dimenticarsi, che l’uomo è un mammifero e la figura largamente più
influente nella vita di ciascun individuo della razza umana sulla faccia della
terra è la propria madre, una donna. Se esistono uomini violenti è perché sono
stati educati alla violenza e molto probabilmente la persona che ha giocato il
ruolo preponderante nell’educazione di quell'uomo (sì, anche se è un uomo violento),
è sua madre. Non è certo un discorso che tende a criminalizzare le donne, per
carità, certamente va considerato anche il ruolo spesso latitante per non dire assente della figura paterna, in seno alla famiglia. Ma, rispetto alla opinione diffusa, forse occorre cercare una più attendibile distribuzione delle responsabilità che hanno generato la
situazione sociale che conosciamo, certamente con un risultato differente da quello che hanno cercato
(riuscendoci) di far passare molte donne (spalleggiate da uomini di presunte idee
progressiste), dalla rivoluzione sessantottina in poi. Quelle stesse donne
che, anni dopo, si sono appassionate alle gesta di Alexis Colby in Dinasty,
una donna spregevole che aveva, per loro, una sorta di ruolo catartico. Una
donna affascinante, certo, ma da guardare facendo finta di non riconoscercisi,
per poter continuare a vivere nell’ipocrisia dell’imperante politicamente
corretto in salsa rosa.
