1717_MONTE CARLO , Stati Uniti 1986. Regia di Anthony Page

Il buon
riscontro in termini di audience della miniserie Peccati confermò il
momento d’oro di Joan Collins, con il successo di Dynasty e la
popolarità di Alexis Colby che non accennavano a cedere di un millimetro. La
CBS, la rete che aveva già prodotto Peccati, voleva battere il ferro
finché caldo e imbastì un’altra miniserie abbastanza «glamour» per sfruttare al meglio la verve della
Collins, che si era ormai eretta a icona degli anni Ottanta. Stando al sito The
Joan Collins Archive [sito web, joancollinsarchive.blogspot.com,
pagina web https://joancollinsarchive.blogspot.com/search?q=monte+carlo,
visitato l’ultima volta il 9 aprile 2025],
in realtà, non è che l’attrice avesse poi tutta questa fretta, vuoi per evitare
di sovraesporsi mediaticamente, vuoi per non rischiare di realizzare un lavoro
poco curato. Nonostante il budget di 9 milioni di dollari [almeno
stando al The New York Times, pagina web https://www.nytimes.com/1986/11/07/arts/cbs-offers-monte-carlo-starring-joan-collins.html,
visitata l’ultima volta il 9 aprile 2025]
e le opportune modifiche apportate al romanzo omonimo di Stephen Shephard, su
cui si basa il soggetto, alla resa dei conti Monte Carlo finisce per confermare
i timori dell’attrice inglese. Intendiamoci: se lo si prende come sorta di
capsula del tempo per fare un salto negli Eighties, caratteristica che
condivide con Sins, Dynasty e altri prodotti simili, allora
quello di Anthony Page può essere considerato un piacevole diversivo. C’è una
robusta storia di intrighi e spionaggio, ambientata nel neutrale Principato di
Monaco durante la Seconda Guerra Mondiale, qualche buona scena d’azione, l’attacco
dei caccia sulla spiaggia durante un party mondano e alcuni passaggi in
montaggio alternato che alimentano adeguatamente la suspense. Poi,
naturalmente, ci sono gli interpreti tra cui spicca, ça va sans dir, Joan –53
anni di bellezza– nei panni della cantante russa Katrina Petrovna; sebbene si
debbano ricordare almeno Malcolm McDowell (è l’irlandese Christopher Quinn), George
Hamilton (è lo scrittore americano Harry Price, che avrà una storia d’amore con
la Petrova) e Peter Vaughan (è Pabst, il cattivone tedesco della Gestapo). La
Petrovna è una agente segreto al soldo degli inglesi: sullo schermo, una spia
russa in terra francese –o quasi, trattandosi di Montecarlo– rievoca
inevitabilmente la Ninotchka del maestro Lubitsch [Ninotchka, Ernst
Lubitsch, 1939] interpretata dalla Garbo. Peraltro, è inutile ricordare che il
rimando più evidente in materia, per quel che riguarda la Diva svedese è,
naturalmente, il ruolo di spia fatale per antonomasia, Mata Hari [Mata
Hari, George Fitzmaurice, 1931]. La Collins, sempre stando al citato The Joan
Collins Archive, disse tuttavia di ispirarsi a Marlene Dietrich, effettivamente
protagonista di un film dallo stesso titolo della miniserie tv di Page [Montecarlo,
Samuel A. Taylor, 1957] oltre che adorabile agente segreto in Disonorata
[Dishonored, Josef von Sternberg, 1931]. Ed è proprio in questo ambito
che Monte Carlo, fondando tutte le sue fortune sulla figura di Joan
Collins, non riesce a vincere la sua scommessa. Come accennato, Monte Carlo
non è infatti un capolavoro del piccolo schermo ma, per la precisione, nemmeno
un prodotto orribile, noioso o inutile: il problema è altrove. Ma se questo «problema»
risiede nella performance della protagonista dell’opera, questo non significa
necessariamente che la Collins ci faccia una pessima figura. Joan è ancora
bellissima, si muove con disinvoltura nei dorati ambienti monegaschi sfoggiando
una serie sterminata di abiti diversi tra loro, vezzo narcisistico dell’attrice
ma, al contempo, volendo, anche plausibili nell’ottica di soddisfare le
esigenze narrative dell’avventuroso copione. Tuttavia, quello che non convince
è il tentativo di innestare il pacchiano glamour anni 80, qui al suo vertice
assoluto, con lo stile elegante e sospeso dell’epoca. Ad essere onesti, quando
la serie venne trasmessa negli Stati Uniti, ci fu chi non guardò troppo per il
sottile, valga per tutti i severi censori del film il critico John J. O’Connor
del The New York Times che definì il film “sciocco”. [The
New York Times, pagina web
https://www.nytimes.com/1986/11/07/arts/cbs-offers-monte-carlo-starring-joan-collins.html,
visitata l’ultima volta il 9 aprile 2025].
Perfino più tranciante il giudizio di O’Connor su Joan Collins: “Miss Collins (…)
sembra aver finalmente raggiunto la fase della carriera in cui sembra
totalmente irreale. È una fotografia aerografata che cammina. La star è
convinta che i suoi fan vogliano solo avventure romantiche e belle persone in
abiti splendidi. Potrebbe avere ragione.

Mentre alle attrici che la circondano
non è mai permesso di sembrare più che decisamente scialbe, lei naviga
attraverso
Monte Carlo in più di tre dozzine di cambi di costume,
fermandosi di tanto in tanto per aggiornare la trama. I produttori esecutivi di
questo esercizio di vanità sono Miss Collins e Peter Holm, suo marito”. [
Ibidem]. Critica assai severa che
potrebbe anche essere veritiera, se non completamente, almeno in parte; è
evidente che l’attrice inglese abbia avuto un ruolo significativo nella
confezione formale dell’opera, essendone la star e la coproduttrice, e che si
sia lasciata condizionare dal successo finalmente ottenuto grazie a Dynasty.
Tuttavia, in sé, Monte Carlo potrebbe anche andare, se non fosse che,
per soggetto, ambientazione e, soprattutto, palesi rimandi alle dive
dell’epoca, cerchi un confronto che poi non riesce assolutamente a reggere. La
questione non è se Joan Collins sia o non sia un’attrice del calibro della
Dietrich o della Garbo; anzi, si può dire che, almeno nel proprio ambito, l’interprete
inglese abbia guadagnato sul campo i galloni per stare nella medesima Hall of
Fame delle due citate illustri colleghe. Quello che non convince è che Joan,
pur avendo interpretato numerose figure di donna –dalla ragazzaccia dei primi
crime movie, alla donna emancipata ma cinica e disillusa dei film dei Settanta–
sembra essersi incagliata nel ruolo di Alexis. E se Mrs. Colby è perfettamente
funzionale negli scandali sensazionalistici di Dynasty, non lo è nel
modo più assoluto in quello che è da sempre rappresentato come il rarefatto
mondo delle ambigue e fatali spie. Quelle donne bellissime avevano spesso
qualche elemento androgino –a cominciare proprio dalle evocate Garbo e Dietrich–
che alimentava la sensazione di inquietudine e indeterminatezza di ruoli, del
resto basilare per trame ricche di personaggi che facevano il doppio quando non
il triplo gioco, che lasciava campo ad allusioni esplicite o implicite ad ogni
livello. L’esatto opposto della poetica opulente degli Eighties, in cui
l’importante era mostrarsi e apparire, e di cui “le tre dozzine di cambi di
costume” di cui scrive O’Connor non sono che un esemplare manifesto. 

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