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lunedì 25 agosto 2025

TOTO' CONTRO I QUATTRO

1719_TOTO' CONTRO I QUATTRO , Italia 1963. Regia di Steno

Classico esempio in cui i troppi ingredienti finiscono per creare un piatto se non insipido, quantomeno non armonico, Totò contro i quattro è un film in cui si fatica a salvare qualcosa. E dire che, come accennato, di elementi degni di attenzione ce ne sono a iosa, a cominciare dal Principe della risata, qua all’apice della carriera. Eppure la sua prestazione è relativamente convincente, al punto che, persino «en travesti», un espediente da cui spesso ha ottenuto passaggi spassosi, non è particolarmente memorabile. Totò, nel film, è il commissario Saracino che comincia la sua giornata vedendosi rubata la sua nuova fiammante Fiat 1100, passaggio che evoca, in qualche modo Accadde al commissariato [Giorgio Simonelli, 1954]. I «Quattro» del titolo, non costituiscono una banda o qualcosa di connesso, ma sono le spalle di singoli episodi che vengono tuttavia presentati in un corpo narrativo unico. Nel dettaglio questi personaggi sono: Peppino De Filippo (è il cavalier Alfredo Fiore), Aldo Fabrizi (è don Amilcare), Erminio Macario (è il colonnello La Matta) e Nino Taranto (è l’ispettore Mastrillo), già protagonista del citato film di Simonelli. A questi si può aggiungere Mario Castellani (è il commendatore Lancelli) sebbene le gag più riuscite siano forse quelle con Ugo D’Alessio (è il brigadiere Di Sabato); un po’ prevedibili ma comunque divertenti quelle con Nino Terzo (è l’agente Pappalardo) e Carlo Delle Piane (è Pecorino, il delinquente). Un cast ricco ma da cui si ricava poco, se non qualche gag tra il piccante e il volgare nel senso che l’umorismo è da caserma. In questo senso, tra l’altro, nel film, curiosamente, latitano le presenze femminili, a meno di non considerare Totò travestito una rappresentante del gentil sesso. A questo proposito, divertente la scenetta nel negozio di biancheria intima femminile mentre sconsolante la conclusione a cui giungono Steno, il regista, e i suoi sceneggiatori Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi per chiudere il film. L’automobile rubata al commissario Saracino è alfine trovata da don Amilcare che convince Pecorino a restituirla e a mettersi sulla retta via. Se non che il mariuolo, incappa nel prete appartato in auto col commissario vestito da donna e equivoca la scena: il prete, che gli ha appena fatto la morale, va coi travestiti. Ce n’è per continuare a fare il ladro. Sic. 





  

sabato 23 agosto 2025

ASFALTO CHE SCOTTA

1718_ASFALTO CHE SCOTTA (Classe tous risques), Francia, Italia 1960. Regia di Claude Sautet

Può sembra un vezzo inutile, se non addirittura una mania fastidiosa, quello di cercare di appiccicare un’etichetta a qualsiasi film; in sostanza è questo che si fa quando si cataloga un’opera in un genere piuttosto che in un altro. Ma c’è una ragione: ovvero che l’appartenenza a generi, o sottogeneri, correnti, filoni, può essere di grande aiuto per comprendere meglio le stesse opere. Non sono limiti, vincoli, ostacoli: sono fonte di aiuto. Ad esempio, il Polar è un genere francese che affonda le sue radici nel Noir americano ed è stato influente, a sua volta, per i Krimi tedeschi, giusto per fare un esempio. Il Noir aveva un pessimismo di fondo giustificato dalla situazione geopolitica in cui vide la luce, con le conseguenze della Grande Depressione se non l’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale, come elementi determinanti. Il Polar si sviluppò solo lievemente in ritardo, ma acquistò piena coscienza di sé successivamente –quando il mondo sembrava essersi sistemato almeno un po’– e tra le opere più rappresentative di questa svolta autonoma, va sicuramente annoverato il capolavoro di Claude Sautet Asfalto che scotta. La solidità di base al film è garantita da un soggetto opera di José Giovanni, anche sceneggiatore insieme a Sautet e a Pascal Jardin, un autore che sarebbe divenuto uno degli artisti più prolifici e versatili del genere. Il titolo originale, Classe tous risques, che fa riferimento alle classi di rischio delle assicurazioni, esplicita che il protagonista, Abel Davos (Lino Ventura, magnifico e monumentale) non ha più alcuna sicurezza, ancora di salvataggio o rete anticaduta. I timori che nel Noir erano incarnati dalle incertezze che si celavano nella giungla metropolitana sono, a questo punto, quasi un rimpianto. Nel Polar, come si evince in modo emblematico nel film del giovane Sautet, non ci sono incertezze, tutto è chiarito sin dall’inizio quando la laconica voce fuori campo ci dice che Abel Davos è un condannato a morte in contumacia. Lino Ventura era un attore formidabile e in Asfalto che scotta, nel suo primo vero ruolo da protagonista, riesce perfettamente ad incarnare la figura solitaria e malinconica, ma fermamente determinata ad andare fino in fondo, che diventerà una delle icone del Polar francese. 

Eppure, nel film di Sautet, in principio troviamo che Abel Davos, un personaggio destinato a divenire leggendario per il genere, è sposato e si muove con famiglia al seguito. Con lui, infatti, troviamo la moglie Thérèse (Simone France) e addirittura due figlioletti, oltre al socio Raymond (Stan Krol), gangster come lui. Spostarsi con famiglia appresso, vivendo di rapine spesso anche cruente, non è però cosa semplice; e a lungo andare l’Italia, Paese scelto dai nostri protagonisti per compiere le loro imprese, comincia a divenire poco salubre. Al punto che l’insolito gruppo decide di tornare in Francia, nonostante la condanna a morte che pende sul capo di Davos. A Mentone, dove giungono dopo essersi impadroniti di un motoscafo, succede la tragedia: i gendarmi della frontiera li scoprono e, nello scontro a fuoco, rimangono stesi sulla spiaggia Raymond e l’incolpevole Thérèse. Davos ora non solo è rimasto solo, ma con due bambini al seguito, il che lo rende facilmente rintracciabile. Prima di andare oltre, è opportuno approfondire un piccolo dettaglio per comprendere la natura umana di Davos che, non a caso, di nome di battesimo si chiama Abel, come il primo personaggio assassinato, e non il primo assassino, della Bibbia. Quando lo vediamo in azione, Davos è freddo e determinato; a suo carico sentiamo la polizia attribuirgli alcuni morti durante le sue rapine. Eppure a Milano, nella prima scena, lui e Raymond si limitano a stordire le loro vittime e anche al conducente del motoscafo, dopo averlo scaraventato in acqua, Davos getta un salvagente. In effetti il povero barcaiolo lo troviamo poi sano e salvo insieme alla polizia, sulla spiaggia di Mentone. Non è, quindi, Davos, un sanguinario senza scrupoli; è un criminale che, all’occorrenza uccide senza porsi il problema morale delle sue azioni, perché lo ritiene –sbagliando, sa va san dir– parte della sua professione. Ma Davos ha un suo codice di comportamento e la lealtà agli amici ne è uno dei capisaldi. Ecco, il punto focale di Asfalto che scotta, e di tutto il Polar, probabilmente, è che un codice di comportamento –verrebbe dire d’onore ma si correrebbe il rischio di venir equivocati– comune un po’ a tutti gli individui sia venuto meno con il progredire del capitalismo. Il concetto è: nella società occidentale, quando il capitalismo non aveva ancora corroso completamente l’anima delle persone, perfino i criminali come Abel Davos erano leali e solidali, avevano un codice di comportamento. 

Il capitalismo, nel nome dell’interesse privato di ciascuno, manderà a quel paese questo codice, e con essa l’idea stessa di collettività nel senso umano del termine. In Asfalto che scotta vediamo come i vecchi amici di Davos, ex membri della banda che hanno pesanti debiti nei suoi confronti, siano nel tempo profondamente cambiati. Nel momento in cui, queste persone, hanno fatto fortuna e hanno raggiunto una posizione rispettabile, assumono il tipico comportamento degli uomini d’affari e badano unicamente al loro interesse. La critica al sistema borghese è resa ulteriormente evidente dal fatto che sia Raoul Fargier (Claude Cherval) che Henri Vintran, detto Riton (Michel Ardan), i due amici storici di Davos, siano sposati e quindi la famiglia, istituzione borghese per eccellenza, viene esplicitamente messa sotto accusa. L’unico dei membri della vecchia banda che mostrerà un minimo di solidarietà è Petit Jeannot (Philippe March), guarda caso senza compagnia femminile e inguaiato con la Legge. Davos, tradito dai suoi amici, si vendica pesantemente e, in uno scontro a fuoco, elimina Fargier; ma quando legge che la moglie di questi è morta di crepacuore vedendo il cadavere del marito, decide di fermarsi. Nel suo averne abbastanza di tutte quelle morti collaterali possiamo vederci una forma di redenzione dell’eroe; o forse no, perché Davos non è pentito di aver freddato l’ex amico, ma solo di causare vittime estranee alle sue azioni. In fondo l’uomo rimane fedele al suo codice che non era quello di un ammazzasette; in ogni caso, alla Legge non basta e il ritorno della laconica voce fuori campo ci informa che il protagonista del film finirà giustiziato. Più che triste, Asfalto che scotta, almeno per quel che riguarda il personaggio di Lino Ventura, è senza speranza. Tuttavia, nella vicenda si inserisce, dopo oltre mezz’ora, Jean-Paul Belmondo nel ruolo di Erik Stark. Questi, semplicemente in qualità di amico di Raymond, il compare di Davos morto nella sparatoria sulla spiaggia di Mentone, decide di aiutare il fuggiasco sopravvissuto. Stark confessa a Liliane (una folgorante Sandra Milo), una ragazza incontrata sulla strada per Parigi, di essere un ladro. In effetti non lo vediamo impegnato in azioni cruente, seppure si spenda per aiutare il criminale Davos e i suoi due bambini. A lui, José Giovanni e Claude Sautet riservano un lieto fine insieme a Liliane: Stark non è uno stinco di santo ma a suo modo è onesto e sincero. Insomma, ha un suo codice d’onore e a quello si appellano gli autori per conservare almeno un’ultima speranza per il futuro. Il Polar è, in effetti, solo agli inizi.  





Sandra Milo 




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giovedì 21 agosto 2025

MONTE CARLO (1986)

1717_MONTE CARLO , Stati Uniti 1986. Regia di Anthony Page 

Il buon riscontro in termini di audience della miniserie Peccati confermò il momento d’oro di Joan Collins, con il successo di Dynasty e la popolarità di Alexis Colby che non accennavano a cedere di un millimetro. La CBS, la rete che aveva già prodotto Peccati, voleva battere il ferro finché caldo e imbastì un’altra miniserie abbastanza «glamour» per sfruttare al meglio la verve della Collins, che si era ormai eretta a icona degli anni Ottanta. Stando al sito The Joan Collins Archive [sito web, joancollinsarchive.blogspot.com, pagina web https://joancollinsarchive.blogspot.com/search?q=monte+carlo, visitato l’ultima volta il 9 aprile 2025], in realtà, non è che l’attrice avesse poi tutta questa fretta, vuoi per evitare di sovraesporsi mediaticamente, vuoi per non rischiare di realizzare un lavoro poco curato. Nonostante il budget di 9 milioni di dollari [almeno stando al The New York Times, pagina web https://www.nytimes.com/1986/11/07/arts/cbs-offers-monte-carlo-starring-joan-collins.html, visitata l’ultima volta il 9 aprile 2025] e le opportune modifiche apportate al romanzo omonimo di Stephen Shephard, su cui si basa il soggetto, alla resa dei conti Monte Carlo finisce per confermare i timori dell’attrice inglese. Intendiamoci: se lo si prende come sorta di capsula del tempo per fare un salto negli Eighties, caratteristica che condivide con Sins, Dynasty e altri prodotti simili, allora quello di Anthony Page può essere considerato un piacevole diversivo. C’è una robusta storia di intrighi e spionaggio, ambientata nel neutrale Principato di Monaco durante la Seconda Guerra Mondiale, qualche buona scena d’azione, l’attacco dei caccia sulla spiaggia durante un party mondano e alcuni passaggi in montaggio alternato che alimentano adeguatamente la suspense. Poi, naturalmente, ci sono gli interpreti tra cui spicca, ça va sans dir, Joan –53 anni di bellezza– nei panni della cantante russa Katrina Petrovna; sebbene si debbano ricordare almeno Malcolm McDowell (è l’irlandese Christopher Quinn), George Hamilton (è lo scrittore americano Harry Price, che avrà una storia d’amore con la Petrova) e Peter Vaughan (è Pabst, il cattivone tedesco della Gestapo). La Petrovna è una agente segreto al soldo degli inglesi: sullo schermo, una spia russa in terra francese –o quasi, trattandosi di Montecarlo– rievoca inevitabilmente la Ninotchka del maestro Lubitsch [Ninotchka, Ernst Lubitsch, 1939] interpretata dalla Garbo. Peraltro, è inutile ricordare che il rimando più evidente in materia, per quel che riguarda la Diva svedese è, naturalmente, il ruolo di spia fatale per antonomasia, Mata Hari [Mata Hari, George Fitzmaurice, 1931]. La Collins, sempre stando al citato The Joan Collins Archive, disse tuttavia di ispirarsi a Marlene Dietrich, effettivamente protagonista di un film dallo stesso titolo della miniserie tv di Page [Montecarlo, Samuel A. Taylor, 1957] oltre che adorabile agente segreto in Disonorata [Dishonored, Josef von Sternberg, 1931]. Ed è proprio in questo ambito che Monte Carlo, fondando tutte le sue fortune sulla figura di Joan Collins, non riesce a vincere la sua scommessa. Come accennato, Monte Carlo non è infatti un capolavoro del piccolo schermo ma, per la precisione, nemmeno un prodotto orribile, noioso o inutile: il problema è altrove. Ma se questo «problema» risiede nella performance della protagonista dell’opera, questo non significa necessariamente che la Collins ci faccia una pessima figura. Joan è ancora bellissima, si muove con disinvoltura nei dorati ambienti monegaschi sfoggiando una serie sterminata di abiti diversi tra loro, vezzo narcisistico dell’attrice ma, al contempo, volendo, anche plausibili nell’ottica di soddisfare le esigenze narrative dell’avventuroso copione. Tuttavia, quello che non convince è il tentativo di innestare il pacchiano glamour anni 80, qui al suo vertice assoluto, con lo stile elegante e sospeso dell’epoca. Ad essere onesti, quando la serie venne trasmessa negli Stati Uniti, ci fu chi non guardò troppo per il sottile, valga per tutti i severi censori del film il critico John J. O’Connor del The New York Times che definì il film “sciocco”. [The New York Times, pagina web https://www.nytimes.com/1986/11/07/arts/cbs-offers-monte-carlo-starring-joan-collins.html, visitata l’ultima volta il 9 aprile 2025]. Perfino più tranciante il giudizio di O’Connor su Joan Collins: “Miss Collins (…) sembra aver finalmente raggiunto la fase della carriera in cui sembra totalmente irreale. È una fotografia aerografata che cammina. La star è convinta che i suoi fan vogliano solo avventure romantiche e belle persone in abiti splendidi. Potrebbe avere ragione. 

Mentre alle attrici che la circondano non è mai permesso di sembrare più che decisamente scialbe, lei naviga attraverso Monte Carlo in più di tre dozzine di cambi di costume, fermandosi di tanto in tanto per aggiornare la trama. I produttori esecutivi di questo esercizio di vanità sono Miss Collins e Peter Holm, suo marito”. [Ibidem]. Critica assai severa che potrebbe anche essere veritiera, se non completamente, almeno in parte; è evidente che l’attrice inglese abbia avuto un ruolo significativo nella confezione formale dell’opera, essendone la star e la coproduttrice, e che si sia lasciata condizionare dal successo finalmente ottenuto grazie a Dynasty. Tuttavia, in sé, Monte Carlo potrebbe anche andare, se non fosse che, per soggetto, ambientazione e, soprattutto, palesi rimandi alle dive dell’epoca, cerchi un confronto che poi non riesce assolutamente a reggere. La questione non è se Joan Collins sia o non sia un’attrice del calibro della Dietrich o della Garbo; anzi, si può dire che, almeno nel proprio ambito, l’interprete inglese abbia guadagnato sul campo i galloni per stare nella medesima Hall of Fame delle due citate illustri colleghe. Quello che non convince è che Joan, pur avendo interpretato numerose figure di donna –dalla ragazzaccia dei primi crime movie, alla donna emancipata ma cinica e disillusa dei film dei Settanta– sembra essersi incagliata nel ruolo di Alexis. E se Mrs. Colby è perfettamente funzionale negli scandali sensazionalistici di Dynasty, non lo è nel modo più assoluto in quello che è da sempre rappresentato come il rarefatto mondo delle ambigue e fatali spie. Quelle donne bellissime avevano spesso qualche elemento androgino –a cominciare proprio dalle evocate Garbo e Dietrich– che alimentava la sensazione di inquietudine e indeterminatezza di ruoli, del resto basilare per trame ricche di personaggi che facevano il doppio quando non il triplo gioco, che lasciava campo ad allusioni esplicite o implicite ad ogni livello. L’esatto opposto della poetica opulente degli Eighties, in cui l’importante era mostrarsi e apparire, e di cui “le tre dozzine di cambi di costume” di cui scrive O’Connor non sono che un esemplare manifesto. 



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martedì 19 agosto 2025

L'ASSASSINO ABITA AL 21

1716_L'ASSASSINO ABITA AL 21 (L'assassin habite... au 21), Francia 1942. Regia di Henri-Georges Clouzot

Dopo le prime sceneggiature, Henri-Georges Clouzot aveva assaporato molto precocemente il gusto della direzione cinematografica, seppure unicamente per tre rifacimenti di film tedeschi destinati al mercato francese. In effetti Clouzot aveva affinato l’arte registica presso lo Studio Babelsberg di Potsdam e nella Germania del tempo aveva avuto modo di apprezzare il cinema di F. W. Murnau e Fritz Lang. I tre filmetti che risalgono ai primi degli anni 30 sono commediole che poco sembrano avere a che fare con la poetica che il regista francese manifesterà nel corso della carriera. Tuttavia, quando Clouzot comincerà a lavorare seriamente nell’ambito cinematografico, ai tempi dell’occupazione nazista di Parigi, per i romanzi da adattare per la Continental Films troviamo quelli di Stanislav-André Steeman, che possono fungere da sorta di ponte tra le prime esperienze «leggere» del regista e i temi che davvero gli staranno a cuore. Inizialmente Clouzot firmò solo la sceneggiatura, adattando il racconto I sei morti dello scrittore belga, per il film L’ultimo dei Sei [Le dernier des six, Georges Lacombe, 1941] ma per il successivo romanzo di Steeman, oltre alla scrittura, ottenne anche la prima vera regia: L’assassino abita al 21 [L’assassin habite… au 21, Henri-Georges Clouzot, 1942]. Se il primo è un interessante giallo reso piccante dai numeri di varietà, L’assassino abita al 21 prova un connubio più impegnativo con la stessa coppia di protagonisti che si muove in bilico tra commedia brillante e thriller. Al centro del racconto ci sono, infatti, l’ispettore Wenceslas Wens (Pierre Fresnay) e la sua compagna, la cantante e soubrette Mila Malou (Suzy Delair), personaggi già visti nel citato L’ultimo dei Sei. Purtroppo, nessuno dei due ha le caratteristiche per reggere la scena per un ruolo tanto delicato: si tratterebbe di essere credibili in un contesto serio, l’indagine poliziesca, tenendo sempre un occhio al piano leggero, sul modello del film L’Uomo ombra [The Thin Man, W. S. Van Dyke 1934]. 

Purtroppo, se Fresnay perde in modo netto il confronto con William Powell, molto peggio fa la Delair paragonata ad una diva come Myrna Loy. La Loy era, anche solo con la sua magnetica presenza, un valore aggiunto alla pellicola, l’attrice francese, al contrario, è una fonte continua di disturbo tanto per le indagini del personaggio del compagno, quanto per lo spettatore. Suzy Delair, probabilmente, neanche aveva la presenza scenica per reggere il ruolo di protagonista e in una situazione delicata come quella di una commedia sofisticata intinta nel giallo, naufraga completamente e mette a rischio l’intera operazione. Per fortuna, nonostante sia alla prima vera e propria regia in autonomia, Clouzot ha già la mano caldissima, su entrambi i versanti, e L’assassino abita al 21 è, in definitiva, più che piacevole. Nell’ambito dell’indagine sulle gesta del terribile monsieur Durand, si intravvede subito la capacità del regista francese di gestire la suspense e gli intrighi gialli, con un colpo di scena finale che risulta inaspettato, ben congeniato e abilmente messo in scena, al punto da sorprendere ancora oggi. Ma il film risulta totalmente spiazzante sul piano dei brillanti dialoghi, a tratti davvero audaci e piccanti, oltre che divertenti al limite dello spassoso. L’unico problema del film, come detto, è rappresentato dall’invadente presenza della Delair, tanto petulante quanto sostanzialmente priva di talento, che si fa ricordare per essere probabilmente la prima donna immortalata dal cinema a schiacciare i punti neri al compagno. A ciascuno i propri meriti.






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domenica 17 agosto 2025

L'ULTIMO DEI SEI

1715_L'ULTIMO DEI SEI (Le Dernier des Six), Francia 1941. Regia di Georges Lacombe

Tratto dal romanzo Le dernier des six di Stanislas-André Steeman e sceneggiato da Henri-Georges Clouzot, L’ultimo dei Sei è un intrigante noir con venature più leggere, diretto da George Lacombe. Il soggetto di Steeman si basa su uno spunto giallo astuto, del resto lo scrittore belga era un vero specialista, e Clouzot, nella sceneggiatura, ne valorizza ulteriormente il testo. Il tono del racconto non è del tutto omogeneo, nonostante l’argomento pesante sia ben rappresentato dal bianco e nero della pellicola, e ci sono delle incursioni di altro tenore che alleggeriscono l’atmosfera. Il protagonista, il commissario Wensceslas Voroboevitch detto Monsieur Wens (Pierre Fresnay), duetta con la compagna Mila Milou (Suzy Delair) portando saltuariamente il film nell’ambito della commedia brillante, per quanto nessuno dei due abbia il carisma necessario ad una simile operazione. Anche perché il corpo del racconto è piuttosto angosciante con il gruppo di amici, i «Sei» a cui si riferisce il titolo, che saranno presi di mira da un misterioso killer. L’incipit è sin da subito utile per capire la sottigliezza del racconto: vediamo questo gruppo di cinque amici in attesa del sesto, di ritorno evidentemente da un evento importante, importante per tutti loro. Dalla tensione emotiva diffusa, dal taglio del narrato, dal contesto ambientale, sembra di essere al cospetto di una gang malavitosa: in realtà sono tutti in attesa di quella che si rivelerà essere una cospicua vincita al gioco che li rende immediatamente ricchi. Forse per una solidarietà che nasce nella fortuna comune, una curiosa forma di assicurazione reciproca, gli amici scelgono di vincolare le loro sorti economiche a vicenda. Decidono quindi di separarsi dandosi appuntamento di lì a cinque anni, per fare il punto della situazione dei rispettivi investimenti. Si tratta, per la verità, di un passaggio narrativo un po’ contorto, ma nel complesso l’attenzione dello spettatore è ben distratta dalla tensione della scena, dai rimandi alle atmosfere noir e dalla sorpresa per la natura dell’attesa, una banale vincita e non qualcosa di illecito. 

Ma, come detto, questa è solo l’introduzione: il corpo del racconto verte sulla progressiva eliminazione dei vari componenti del gruppo che, passati i fatidici cinque anni, stanno ricongiungendosi come si erano accordati di fare. Il primo omicidio sembra una mezza fatalità, con la notizia che Namotte (Raymond Segard) sia stato gettato in fondo al mare durante il viaggio in nave verso il fatidico appuntamento che certo è angosciante, ma non dà più di tanto adito ad ulteriori preoccupazioni. Ma le cose cambiano quando la morte colpisce inesorabilmente Gernicot (Lucien Nat) quindi Tignol (Jean Tissier) e in seguito Gribbe (Georges Rollins) lasciando in vita per il finale i soli Senterre (André Luguet) e Perlonjour (Jean Chevrier). Ormai è chiaro: l’assassino è uno dei Sei che vuole eliminare gli altri cinque per tenere per sé tutto il bottino. Da un punto di vista logico narrativo, i due superstiti devono quindi spartirsi i ruoli di ultima vittima e omicida e oltretutto la loro contrapposizione è enfatizzata dalla rivalità amorosa per la bella Lolita (Michèle Alfa) e dalla differente condizione economica. A questo punto subentra un colpo di scena tutto sommato difficilmente prevedibile, che scombina le carte in tavola sorprendendo lo spettatore tenuto col fiato sospeso fino ad allora. L’ultimo dei Sei è, infatti, un film con una buona tensione, numeri di varietà che interrompono la trama misteriosa a parte: pare, tra l’altro, che il regista Georges Lacombe, si rifiutò di girare un’ulteriore scena in un musical-hall, finendo in disaccordo con lo studio di produzione, la Film Continental. Chissà, forse fu a causa di questa rottura contrattuale che il successivo «noir con venature leggere» tratto da Stanislas-André Steeman verrà affidato alla regia di Henri-Georges Clouzot. 




Michèle Alfa



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venerdì 15 agosto 2025

IL MANGIATORE DI PIETRE

1714_IL MANGIATORE DI PIETRE , Italia, Svizzera 2018. Regia di Nicola Bellucci 

Il mangiatore di pietre è una sorta di opera prima, in quanto è l’esordio nel cinema di finzione di Nicola Bellucci, in precedenza già montatore, direttore della fotografia e regista di apprezzati documentari. Di per sé questo non deve essere motivo di particolare indulgenza, nei confronti di presunte lacune o difetti del suo film, ma considerato le scelte anche coraggiose di Bellucci, si può sospendere il giudizio su ciò che lascia perplessi, almeno fino ad un’eventuale ulteriore prova del regista toscano, e apprezzare quanto di buono c’è ne Il mangiatore di pietre. Dice, a proposito del suo film, lo stesso Nicola Bellucci: “Sono state le forti sensazioni suscitate in me dalla lettura del romanzo di Davide Longo (autore dell’omonimo libro preso a soggetto, NdA) a convincermi di voler realizzare Il mangiatore di pietre. Nella storia del «mangiatore» si rivelano i lati opachi delle cose, la duplicità dell’agire umano che mi affascina e spaventa, e che da tempo volevo cinematograficamente raccontare, arrischiandomi in un territorio affascinante e pericoloso, quello tra romanzo di formazione e film di genere. Il confine, territorio di mezzo, indeterminato e ambiguo: linea reale, convenzionale o culturale, che separa, sempre, ciò che è altro da sé è il luogo simbolico per eccellenza di questo film». [dal sito del Torino Film Festiva, pagina web https://www.torinofilmfest.org/it/36-torino-film-festival/film/il-mangiatore-di-pietre/36184/, visitata l’ultima volta il 7 agosto 2025]. È proprio il senso di indeterminatezza, di vaghezza, che traspare da Il mangiatore di pietre, l’elemento migliore del film di Bellucci. E quindi hanno probabilmente ragione i recensori che si trovano in rete, un po’ scettici nei confronti della struttura gialla dell’intrigo del racconto, che non sembra effettivamente irresistibile. Ed è vero che, soprattutto dopo la prima parte, con il paesaggio montano, grigio, freddo, molto evocativo, che legittima uno sviluppo più robusto del canovaccio di finzione, ci si ritrova poi per le mani una storia che effettivamente rischia di non decollare mai. 

Ma, forse, anche questa perenne stasi, questa sostanziale attesa per qualcosa che non si traduce in nulla di concreto –le indagini della commissario Sonja (Ursina Lardi), la corruzione del maresciallo Boerio (Leonardo Nigro), il ruolo della malavita e del boss Antonio (Peppe Servillo)– è parte di questa ambientazione sospesa. Un film irrisolto che fa di questo la propria cifra stilistica: è accettabile? Lo si è detto, a questo punto si può sospendere il giudizio su questo aspetto, in fondo non si devono avere per forza tutte le risposte, o almeno non subito. In ogni caso: il film ha certo dei pregi, ad esempio la prestazione di Luigi Lo Cascio nel ruolo di Cesare detto il Francese, il «passeur» protagonista, e del cast nel suo complesso. Ed è interessante anche come il racconto si relazioni a questa attività, il «passeur», sorta di traghettatore oltreconfine di clandestini, professione illegale e certamente discutibile in linea di principio. Sergio (Vincenzo Crea), che ci si improvvisa e alla domanda di Cesare sul perché si impicci in simili affari, risponde con una battuta ad effetto: “qualcuno lo deve pur fare”. Una frase da cinema, detta poi da uno sbarbatello alle prime armi, che suona quindi ulteriormente posticcia. Il traffico di esseri umani è sempre da condannare ma occorre anche mettersi nei panni dei migranti, che hanno esigenze e necessità così disperate e lontane anni luce dai regolamenti sanciti dai confini del nostro mondo. Nel caso specifico, poi, ci sono questi disperati immigrati dall’Africa, nascosti in una baita d’alta montagna, in attesa di essere condotti dal passeur incaricato oltreconfine, in Francia. Il problema è che il contrabbandiere in questione è Fausto (Emiliano Audisio), il figlioccio di Cesare, che è appena stato ucciso e sul suo omicidio verte la trama gialla del film. Intanto, però, i poveri migranti rischiano di morire di fame e di freddo. 

E qui subentra la coscienza di Sergio che, a differenza di quanto consigliatogli da Cesare, non chiama i carabinieri ma cerca di salvare questi poveri disgraziati, arrivando anche a rubare, per far loro qualcosa da mangiare. Evidentemente c’è la necessità di ribadire, da parte degli autori, che non è possibile restare dentro i confini della Legge. Diego chiede aiuto a Cesare, che conosce a menadito i passi alpini per farla in barba alle autorità di frontiera, ma il Francese non ne vuole sapere, è appena uscito di galera, era stato beccato ma non aveva tradito i suoi complici, e ora si trova coinvolto in un’altra bega, l’omicidio di Fausto, e tanto gli basta. La vicenda ha altri protagonisti, importanti per la soluzione del giallo, ma quello che conta è che poi, alla fin fine, Cesare darà retta a Sergio. Perché? Ma perché certi lavori qualcuno deve pur farli, che domande. È una motivazione sufficiente? Mah, difficile dirlo. C’è sempre qualcosa di sfuggente, ne Il mangiatore di pietre, come ad esempio nella scenografia, tanto che sembra un film ambientato negli anni 80 se non fosse per l’unica nota stonata rappresentata dagli smartphone. E, forse, è proprio in questa direzione che va cercata la soluzione al quesito che Cesare sottopone alla commissario sul perché la poliziotta non risponda mai al suo cellulare. La donna alla fine risponde al suo smartphone e il presunto mistero si squaglia come neve al sole. Un po’ come una vicenda che racconta di onore, forse malriposto, ma anche di altruismo e di coraggio, che poi si scopre abbia il suo centro in una banale questione di corna. Ma questa è la storia di un «passeur», una storia di confine. 





Ursina Lardi 





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