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venerdì 18 febbraio 2022

LA VALLE DELL'EDEN

974_LA VALLE DELL'EDEN (East of Even); Stati Uniti, 1955; regia di Elia Kazan.

James Dean, nel 1955, era già apparso non accreditato in una manciata di film, ad esempio è riconoscibilissimo ne Il capitalista (1952, regia di Douglas Sirk), ma è con il suo primo titolo ufficiale La valle dell’Eden ad entrare istantaneamente nella Storia del Cinema. Il ruolo nel film di Elia Kazan, Cal Trask, già rappresenta quello che sarà James Dean al cinema per sempre. Certo, la prematura scomparsa avrà nella sua mitizzazione un peso notevole ma il personaggio che l’attore seppe interpretare in modo mirabile, colse appieno le contraddizioni del suo tempo meglio di molti trattati sociologici. In La valle dell’Eden Dean è un giovane insofferente che, nell’America degli anni 50, fatica a rapportarsi con il padre e la società, una figura analoga a quella di Jim Stark, protagonista del successivo Gioventù bruciata di Nicholas Ray. La valle dell’Eden è tratto da un romanzo di John Steinbeck (East to Eden) ma, rispetto a quel testo, Kazan capisce che il personaggio esplosivo, nella storia, è quello di Cal e vi concentra il fuoco della sua macchina da presa. Per la parte del quale il regista di origine turca avrebbe voluto Marlon Brando ma infine la scelta cadde su Dean e si rivelò più che mai azzeccata. L’attore diede corpo ad un personaggio tribolato, controverso, difficile da approcciare per lo spettatore tradizionale, ma riuscendo ad incarnare perfettamente l’insofferenza giovanile di quel periodo dove le prime istanze giovanili andavano a cozzare contro le rigide regole di quel conformismo borghese tipico della società occidentale. Dean non era soltanto il classico bello e dannato: era un attore vero, aveva lavorato in teatro e studiato all’Actors Studio di New York e quando fu chiamato al suo primo ruolo da protagonista, si calò perfettamente nella parte e arrivò anche ad improvvisare alcune scene di grande effetto. Visto l’importanza di James Dean nella Storia del cinema, affrontare La valle dell’Eden è essenzialmente prendere in esame la figura del ribelle senza motivo impersonata dall’attore ma l’architettura della storia imbastita da Steinbeck, e ripresa da Kazan, è importante. Già il titolo, ma anche il fatto che i nomi della storia abbiano origine biblica (cosa sottolineata esplicitamente), ci dice che ci si riferisce a qualcosa sull’origine della nazione americana, un po’ come l’Eden perduto, insomma. Del resto il padre di Cal (diminutivo che sta per Caleb) si chiama Adam (Raymond Massey), ed è il patriarca di casa Trask, dove Aron (Richard Davalos) è il figlio maggiore. 

La madre sul momento non c’è e l’unica presenza femminile è Abra (Julie Harris), fidanzata di Aron, ma che nel corso della storia andrà inevitabilmente ad innamorarsi di Cal. Adam è un ricco industriale ma al contempo osserva rigorosamente i dettami della Bibbia; Aron ne è il figlio ligio alle consegne che soddisfa appieno le aspettative del padre. Cal appare invece in difficoltà: quello che il giovane non riesce a capire è la necessità di rispettare rigorosamente etica e morale: per lui sarebbe naturale sfruttare la speculazione agricola che l’imminente guerra prospetta così come appare logico sottrarre uno scivolo alla ferrovia per migliorare l’efficienza di carico di un carro dell’azienda paterna. Sono due passaggi in cui si evidenzia il disaccordo tra il padre Adam e il figlio e, a rigor di morale, il padre è pienamente nella ragione. 

Quello che manca, nella storia, è la figura materna: ma, contrariamente a quanto detto da Adam, sua moglie non è morta e Cal è persino riuscito a rintracciarla di nascosto. Kate (Jo Van Fleet, che vincerà un Oscar per questa sua interpretazione) gestisce un locale equivoco al di là delle montagne e si capisce presto come mai Adam abbia preferito cancellarla completamente dalla famiglia, dandola per morta. Il lavoro di Kate, che si avvicina a quello più antico del mondo, è la quintessenza dello spirito imprenditoriale americano, precisamente una delle sue due anime. Il problema è che l’altra è quella bigotta di Adam, ed è proprio l’inconciliabilità di queste due coordinate morali a creare lo scompenso nell’animo di Cal e dei giovani suoi contemporanei. Nel dopoguerra l’America era uscita allo scoperto, ponendosi come centro del mondo (e un titolo di un’opera come La valle dell’Eden non fa che rimarcarlo) ma questa ascesa, questa età dell’oro a stelle e strisce portava alla luce anche qualche scheletro nell’armadio. Non si poteva fare, a livello sociale, come Adam, che aveva spedito (volontariamente o meno) la moglie al di là delle montagne, per poter fingere di dimenticare la propria indole meno nobile. 

La capacità affaristica, ben sintetizzata dall’idee speculative di Cal e incarnata dalla professione della madre, era una delle anime americane, forse la più autentica, che il moralismo ferreo delle persone come Adam cercavano invano di negare. E’ questa profonda spaccatura che James Dean seppe cogliere, in La valle dell’Eden in modo anche più onesto rispetto a Gioventù bruciata (che si fa preferire per altri aspetti, per la verità). Cal non ha ragione, quando specula economicamente in un momento tanto delicato come quello dell’entrata in guerra del paese. Del resto, da persona inquieta, è rimasto impermeabile ai rigidi codici morali impartitegli dal padre, tanto che arriva a flirtare con la fidanzata del fratello senza farsi troppi scrupoli. Si dirà, in amore e in guerra niente regole ma vabbè, la fidanzata del fratello… No, dai, Cal è censurabile anche in questo ma, nonostante tutti questi inciampi, la sua figura si staglia comunque nella storia perché ci ricorda che più degli affari (che in effetti a lui non interessano, nello specifico), più della morale, quello che conta è l’amore e, prima ancora di quello per l’anima gemella, conta quello per la propria famiglia, incarnata, nel film, dalla figura paterna. Che per un film che interpreta prima, e forse più di ogni altro, la contestazione giovanile del tempo, è tanta roba.           




Jo Van Fleet


Julie Harris 

giovedì 17 febbraio 2022

I CINQUE DELL'ADAMELLO (repost)

 Repost

540_I CINQUE DELL'ADAMELLO ; Italia 1954. Regia di Pino Mercanti.

Curioso film che racconta di cinque alpini rimasti sepolti sotto una coltre di ghiaccio durante la Prima Guerra Mondiale, I cinque dell’Adamello di Pino Mercanti, riesce, pur con qualche fatica di troppo, a portare a casa un risultato più o meno dignitoso. Non è certo un capolavoro, è evidente, e nemmeno un film di particolare rilievo: ma Mercanti ci mette cura nell’imbastire la sua trama corale e anche se non possiede il ritmo narrativo per appassionare con quello lo spettatore, si aiuta in quel senso con i tanti intermezzi musicali. Le tante canzoni, nel film, più che far pendere il genere della pellicola verso il musical, cercano di alleggerire la narrazione restituendo, nel contempo, l’atmosfera del tempo, e quest’ultima cosa in modo certamente efficace. Possono invece poco per dare più verve al testo, che è anche gravato da alcuni orpelli stucchevoli come i ripetuti stacchi palesemente ridondanti (la bambola punita picchiandola sul lavandino che si dissolve nell’analogo movimento della bacchetta dell’ausiliario nella classe scolastica e via di questo passo). E va anche detto che il tema degli accennati struggenti passaggi musicali di fatto alimenta la vetusta retorica dell’epoca che, nel film, fa più di qualche capolino qua e là. Può essere che, nel 1954, con l’Italia che faticava ad uscire dal dopoguerra, si cercasse di recuperare lo spirito patriottico legato alla Grande Guerra, ma di fatto il ricorso ai temi d’annunziani fa correre più di un rischio al tenore del racconto. E’ un peccato, dal punto di vista cinematografico, perché si tratta di uno stile pesante ed eccessivo, ma non se consideriamo l’opera come una sorta di ‘documento storico’ su un certo modo italiano, retorico ed accorato, di ‘raccontare’ la patria. Questi aspetti, certamente presenti nel film, non lo permeano del tutto, perché la storia corale ha il vantaggio di avere tanti personaggi, in particolar modo i cinque alpini poi finiti sotto ghiaccio che, con la loro carica umana, chi più chi meno, alleggeriscono i toni e rendono anche divertente il racconto. La vicenda narrata è un lungo flashback, incorniciato dalle scene ambientate nei più recenti giorni in cui furono rinvenuti i poveri alpini. 

Tra gli interpreti Fausto Tozzi è Leonida, figlio di uno dei cinque alpini del titolo, un giornalista piuttosto scettico sull’opportunità di andare a recuperare le salme; teme che la retorica popolare e delle istituzioni sia in agguato, non sospettando il tiro mancino che gli riservano gli autori. Proprio mentre commenta con disappunto la preghiera rivolta dai suoi compaesani ai cinque caduti, che sono stati riseppelliti sotto una nuova valanga, il vento gli porta tra i piedi il cappello di uno di loro, che scopre essere quello di suo padre. Passaggio in tutta onestà davvero eccessivo ma, a quel punto, persino tollerabile. Il padre di Leonida, Renato, è l’alpino di idee rivoluzionarie interpretato da Franco Balducci; Mario Colli è Momi, il padre della bambina un po’ capricciosa; Dario Michelis è il d’annunziano Pinin; Walter Santesso è Piero, il ricco che vuole fare l’inventore; Attilio Bossio è Doschei, il contrabbandiere. 

Buone comparse, ma nessuno con il piglio giusto per prendersi sulle spalle la storia e dargli almeno un bello strappo: e così quello che rimane è un lavoro collettivo comunque poco incisivo. Volendo, meglio fanno le ragazze della storia: perlomeno tra loro c’è un’attrice di rango come Nadia Gray, a cui bastano pochi minuti nei panni di Magda, la vedette del varietà, per tratteggiare un personaggio affascinante, probabilmente il migliore del film. Certo, il Phisique du Role l’aiuta, questo è innegabile; ma, che ci volete fare, il cinema è un arte prevalentemente visiva. E poi anche Piera Simoni e Rita Rosa, pur non essendo interpreti particolarmente memorabili, se la cavano in modo dignitoso. Ma certo non sono questi gli elementi che possano salvare I cinque dell’Adamello. Nel complesso il film risulta interessante perché  riporta alla memoria un’idea patriottica diffusa ai tempi della Grande Guerra e che la situazione tragica del secondo dopoguerra aveva certamente disperso. Sul piano prettamente cinematografico, con gli elementi a disposizione, si poteva certamente far meglio, ma tant’è.       


Sonia Gray





mercoledì 16 febbraio 2022

SOLDATO SEMPLICE

973_SOLDATO SEMPLICE ; Italia, 2015; regia di Paolo Cevoli.

Il pericolo maggiore per i comici che si cimentino col cinema, dopo aver raggiunto la fama attraverso la televisione, è che si limitino a trasferire sul grande schermo quello che abitualmente fanno per il piccolo. A sorpresa, Paolo Cevoli, che oltre ad interpretare si azzarda anche nel ruolo di regista nel suo Soldato Semplice, sostanzialmente evita questa insidia. Intendiamoci: il suo Gino Montanari, maestro di scuola elementare volontario in prima linea nella Grande Guerra, è un classico personaggio del Paolo Cevoli visto tante volte a Zelig, il programma televisivo. Ma il suo film ha una struttura articolata ed utilizza un linguaggio diversificato, universale, com’è tipico del cinema. Insomma è cinema e non cabaret televisivo filmato e proiettato in una sala cinematografica. E già questo è un punto a suo vantaggio. La storia non è che sia il massimo dal punto di vista adrenalinico, come invece ci si aspetterebbe da un film bellico; ma con un tipo come Cevoli protagonista è anche prevedibile e chiaro sin da subito. Il clima è inevitabilmente comico e anche da questo punto di vista l’artista romagnolo se la cava, strappando qualche risata. Un altro dei rischi incombenti, quando ci sono di mezzo i comici italiani, è il politicamente corretto regionale: quasi tutti i cabarettisti fanno riferimenti alla loro provenienza geografica, essendo il dialetto particolarmente congeniale alle gag umoristiche. Ne consegue un’onnipresente querelle comica sulla situazione mai sanata italiana delle differenze culturali, economiche e sociali tra le varie regioni: l’Italia è tuttora divisa e sulle caratteristiche dell’altro, inteso come il vicino di regione, verte la maggior parte di questi spettacoli. 

Del resto lo stesso Cevoli ostenta un dialetto romagnolo come suo marchio di fabbrica. Il tema della Grande Guerra che, oltre ad una vittoria militare, fu anche uno dei primi eventi che mise a contatto italiani di diverse regioni, è poi un argomento assai pericoloso in questo senso. E rispolverare ad ogni mezza occasione la questione meridionale è stato da sempre uno dei limiti del cinema italiano. Cevoli rischia grosso, per la verità, con lo scugnizzo Aniello Pasquale (Antonio Orefice) che si trova in mezzo ad una pattuglia di nordici. Ma è anche vero che non affrontare il problema sarebbe tradire lo spirito di un film italiano sulla Prima Guerra Mondiale: e lì che si è fatto molto di quel poco che di Italia è stata fatta nel corso della Storia. 

E va riconosciuto che, così come anche in senso particolare all’interno del racconto filmico, il tema meridionale, inevitabile con l’arrivo di Aniello Pasquale, è affrontato da un punto di vista generale senza uscire dal seminato. Nel complesso Cevoli evita anche questo rischio con sobria onestà. Insomma, sembra quasi che l’artista abbia fatto uno slalom tra i difetti del cinema nostrano; in realtà è solo lo scetticismo ormai radicato verso questo tipo di produzioni che ha finito per sensibilizzare lo spettatore in quest’ottica e quindi semmai i limiti sono proprio di chi scrive. Perché Cevoli, in sostanza, va per la sua strada, che oltretutto è una strada con una serie di appoggi sicuri. Ad esempio, lo spunto giallo, su cui verte il passaggio cruciale del film, è ben elaborato, forse in modo schematico, ma ben elaborato. Siamo al fronte, in montagna. Montanari arriva al reparto nel ruolo di addetto all’eliografo, uno strumento in grado di comunicare tramite lampi di luce riflessa. Il tema dello specchio, del riflesso, pervade tutta la storia ed è un’efficace metafora dell’italianità. Infatti gli italiani delle varie regioni sono, tra loro, uguali e contrari, proprio come immagini allo specchio. Così Montanari, con un nome simile, non può che venire dal mare; e il paragone tra mare e montagna, così opposti eppure in fondo simili (almeno stando alle parole del Montanari stesso) è ripetuto spesso. 


Dunque Montanari viene dal mare al contrario degli altri militari che sono tutti montanari (di fatto); a parte Aniello Pasquale, che arriva da Capri, quindi mare. Ma quello di Capri è un mare in un certo senso contrario a quello della riviera romagnola. E uguali, in quanto ufficiali, e contrari, per tutto il resto, sono anche il tenente Mazzoleni (Luca Lionello) e il capitano Vadalà (Massimo De Lorenzo). Quando poi Montanari ha il confronto con il soldato austriaco, scopriamo dalle parole del nemico un doppio legame di natura simile a questi che ci lega ai nostri nemici e che tanto li infastidisce. Qui Cevoli e lo sceneggiatore Alessandro Genovesi lavorano ironicamente di fino: l’austroungarico rivendica infatti per sé e i suoi compatrioti la discendenza dall’Impero Romano. 

Gli italiani sarebbero solo sudditi e non eredi di stirpe imperiale: parenti sì, se non uguali quantomeno simili, dunque. Ma in ogni caso da sottomettere in quanto di indole opposta alla loro nobile origine. A parte la fondatezza del discorso storico, che sorprende in un film italiano, qui viene fornito l’indizio per intuire il tranello organizzato dagli austroungarici. Prima di dileguarsi il militare austriaco si lascia scappare l’informazione che il suo esercito intende arroccarsi sulla cima vicina per avere una posizione di vantaggio nella successiva battaglia. Ma sul momento Montanari non sembra darsene molta pena. Poi riceve un messaggio con l’eliografo: sursum corda. Letteralmente in alto i cuori, in latino. Ma perché usare il latino? Forse per non farsi capire dagli austriaci? 

Ma, come abbiamo visto, sono proprio loro gli eredi dell’Impero Romano, di cui il latino era la lingua parlata. E quindi il messaggio è un tranello austriaco che invita gli italiani a salire in cima alla montagna. In effetti Montanari, dopo tutto il tempo che è al fronte, non ha ancora capito da che parte stia, il nemico; e si sbaglia immancabilmente sempre nelle tante gag che dissemina nella storia. Il messaggio con l’eliografo non arriva quindi dalle retrovie ma dalla sponda nemica della valle ed è quindi una trappola. Montanari scopre l’intrigo troppo tardi: i commilitoni sono già in viaggio verso la cima che è stata minata e esploderà al momento opportuno (dal punto di vista austriaco della vicenda). Se il soldato semplice Montanari non è con loro è perché ha ottenuto una licenza per via della morte della madre. E poi probabilmente avrebbe cercato di scantonare la missione anche senza quella scusa. 

Altro che volontario, Montanari è un dichiarato non interventista: di più, è il manifesto ambulante contro un certo spirito patriottico, quello del trittico Dio-Stato-Famiglia. E’ ateo, e quindi contro Dio. Non solo è scapolo, ma è un impenitente puttaniere che, in quei tempi, ha approfittato dell’assenza degli uomini del paese per andare a letto con le loro mogli. Non è quindi certo un valido esempio di uomo di famiglia. Fa il maestro elementare ma disprezza il libro Cuore di Edmondo De Amicis, vero e proprio vangelo dell’italianità più pura e sincera, tanto che lo fa volare dalla finestra dell’aula della scuola. E proprio quella è la goccia che fa traboccare il vaso e che induce il preside a radiarlo dalla Scuola Italiana a meno che non vada a servire, volontario, quella patria tanto disprezzata. Ora è il momento di mettere in pratica le sue idee disfattiste: può tornarsene a casa, in licenza, lasciando i compagni di reparto andare sulla cima del monte, incontro alla morte, oppure… Ovviamente Montanari saprà cogliere l’occasione di riscatto con uno moto d’orgoglio degno di un eroe hollywoodiano: grazie al suo impacciato ma tempestivo intervento la pattuglia è salva. Il sacrificio della vista che il militare perde nell’azione non deve ingannare: come si capisce dall’ultima scena, ora Montanari ci vede meglio di prima.  

lunedì 14 febbraio 2022

LA MONTAGNA CHE ESPLODE

972_LA MONTAGNA CHE ESPLODE ; Italia, 2006; regia di Marco Rosi.

Docufiction particolarmente efficace, La montagna che esplode, diretta da Marco Rosi, ricostruisce la Guerra di Mine per la conquista del Monte Lagazuoi. In seguito alla dichiarazione di guerra italiana all’Impero Austroungarico, le truppe di Francesco Giuseppe avevano preferito arretrare per attestarsi sulle creste dolomitiche, in modo da poter controllare dall’alto il nemico. Gli italiani erano così penetrati nel territorio imperiale ma, una volta arrivati alle postazioni militari austriache, non avevano avuto possibilità di smuoverle da quelle roccaforti naturali. Nella zona di Cortina, la postazione in cima al Monte Lagazuoi era stata a lungo inespugnabile: poi, gli alpini, con una manovra ardita, erano riusciti ad inserirsi in una feritoia orizzontale situata a mezza costa della montagna, in quella che diverrà nota come Cengia Martini. La nuova postazione italiana ruppe il totale predominio austriaco nella guerra di posizione, che vedeva gli imperiali chiaramente favoriti; la cengia era una vera spina nel fianco del fronte nemico. La posizione era strategica perché posta a metà di un costone di roccia e, quindi, permetteva agli italiani di ripararsi nelle gallerie interne quando erano sotto il fuoco nemico, per ritornare in postazione una volta finito l’attacco. Gli austriaci, che continuavano ad occupare la cresta sopra la cengia, mantenevano una posizione di vantaggio, ma non ne avevano più, per così dire, l’esclusiva. Per eliminare la postazione nemica, decisero quindi di ricorrere all’uso di mine, facendo franare sopra gli italiani la pietra della montagna. Il tentativo non andò a buon fine e fu ripetuto, ma senza grandi risultati nemmeno questa seconda volta. 

La replica italiana fu, al contrario, molto efficace soprattutto grazie alla portata della mina predisposta dai sudditi di Vittorio Emanuele III. Il racconto filmico di Rosi, che alterna in modo dosato diverse tipologie di immagini, risulta chiaro e particolarmente avvincente. La trama è strettamente legata alla cronologia degli avvenimenti ma è sostenuta dalle missive dei tre protagonisti realmente vissuti che sono presi a campione di tutte le persone coinvolte nelle drammatiche vicende. A dar loro corpo, tre interpreti che animano la ricostruzione filmica: Valentino Pagliei (Luigi Panicali, soldato italiano), Claudio Gianesin (Hans Berger, il suo corrispettivo austriaco) e Veronika Valentin (Carolina Dimai, donna ampezzana). Le immagini di repertorio alimentano il grado di credibilità delle parole del narratore, al quale vengono in soccorso anche le splendide scene tratte da Montagne in fiamme, capolavoro di Luis Trenker e Karl Hartl del 1931, perfino migliori di quelle storiche per evocare la tragica atmosfera della situazione. Meno nostalgiche, ma certamente utili alla comprensione, le ricostruzioni in Computer Grafica dei tunnel che italiani e austriaci scavarono nel ventre della povera montagna. Stefano Illing, ingegnere e storico appassionato, prova a convincerci che la guerra di mine sulle Dolomiti fu la dimostrazione dell’ingegno umano, visto che le condizioni ambientali misero a dura prova i contendenti bellici. Ha certamente ragione Illing, perché la guerra è da sempre il più potente acceleratore dell’attività umana. Inoltre, i due eserciti si trovarono a combattere in un contesto inedito, visto che mai si erano combattuto battaglie simili in cima alle montagne, e in simili condizioni proibitive, in primis per il freddo e per la fame: tutto vero. Come è anche vero che il fascino della guerra, e della Grande Guerra in particolare, è magnetico, praticamente irresistibile. Ma che furono sostanzialmente energie mal riposte è sempre meglio ricordarlo. Vedi mai. 


sabato 12 febbraio 2022

LA MONTAGNA SILENZIOSA

971_LA MONTAGNA SILENZIOSA (Der Stille Berg); Austria, Italia, Stati Uniti, 2014; regia di Ernst Gossner

Lungometraggio un pelo troppo delirante che rispolvera il filone dei bergfilm di matrice bellica in voga tra le due guerre mondiali, La montagna silenziosa può essere affiancato a Standschütze Bruggler (1936, di Werner Klingler) ma certo non al notevole Montagne in fiamme (1931, di Luis Trenker e Karl Hartl) e nemmeno al valido Le scarpe al sole (1935, di Marco Elter). Dimostrando una malsana coerenza, il film di Ernst Gosser, uscito cent’anni dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, non si limita infatti ad una rievocazione degli eventi, inseguita anche tramite l’uso di una fotografia che forse prova a dare l’idea di certe immagini in bianco e nero colorate a posteriori. Nel qual caso l’esperimento non risulta molto efficace: figurativamente l’opera di Goesser è infatti molto deludente. Laddove il lavoro del regista funziona in modo del tutto sorprendente è nel riportarci al clima fazioso e ostile dell’epoca, in modo talmente convinto che La montagna silenziosa può essere appunto equiparato al citato Standschütze Bruggler, film relegato nell’oblio a causa della smaccata propaganda pangermanica che lo permea. Ma quello di Klingler era un prodotto della Germania nazista; l’opera di Gosser vede invece la luce in quell’Unione Europea che nacque anche con il preciso scopo di sanare quelle ruggini tra gli stati che avevano contribuito nella Storia a provocare le continue guerre tra cui quelle mondiali. Questa svolta storica ha in sostanza funzionato e, in campo cinematografico, opere meramente propagandistiche se ne sono poi viste raramente. La montagna silenziosa, con la sua prospettiva di parte, ci riporta invece indietro nel tempo. 

A dirla tutta, chi ha fatto il militare negli alpini nella zona dell’Alto Adige sa che un problema esisteva e forse esiste e non se lo sono immaginato Gosser e i suoi collaboratori. Ma questa è un’aggravante: sotto la bandiera dell’Unione Europea che, in sostanza, unisce i territori al di qua e al di là del Brennero, si poteva (anzi, si doveva) affrontare il tema senza acredine, senza rancore, senza faziosità. Ascoltare le ragioni dei tirolesi del sud finiti all’epoca sotto il Regno d’Italia sarebbe stato interessante; forse più per gli italiani che non per gli stessi abitanti di lingua tedesca della zona o per gli austriaci. Ma vedere un racconto filmico infarcito di luoghi comuni e romanzato alla bisogna in modo tanto puerile, può provocare sentimenti opposti che è meglio lasciare invece da parte. 

Nel film, ovviamente, gli italiani vengono chiamati welsch (pronunciato walsci o qualcosa di simile) termine fortemente dispregiativo che, nel suo essere politicamente scorretto, è una delle poche cose interessanti dell’opera oltre che preoccupante indice del grado di tolleranza forse ancora diffuso da quelle parti. Naturalmente è sottolineata più volte la natura infida dei welsch: clamoroso, per gli austriaci, il tradimento italiano della Triplice Alleanza che viene fortemente ribadito ma, sottilmente, è un traditore anche uno dei protagonisti, il militare Angelo Calzolari (Giulio Cristini). Il soldato, in disaccordo con il proprio comandante che vuol far saltare la montagna presidiata dagli austriaci, rinnega infatti il suo esercito avvisando il nemico delle intenzioni dei propri superiori. A conferma che c’è malizia anche in questa presunta luce positiva in cui è descritto il militare (in fondo si oppone ad un’aggressione tanto violenta alla montagna), il nostro verrà fucilato come infiltrato dagli austriaci: traditore da un lato e spia dall’altro è il bilancio finale per questo personaggio. Certo, in primo piano c’è la storia d’amore tra il protagonista Andreas Gruber (William Moseley), tirolese, e Francesca Calzolari (Eugenia Costantini), italiana purosangue, anche se traspare quasi una sorpresa, dallo stesso racconto, che la cosa possa accadere: più che un tentativo di avvicinare la parti, la relazione sembra l’eccezione che conferma la regola. Lo stesso matrimonio tra Angelo, welsch, ovviamente, ed Elisabeth Gruber (Emily Cox), tirolese, è interrotto dalla dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria: la foto mossa e rovinata della cerimonia, simboleggia come il conflitto abbia di fatto interrotto questa unione. In sostanza: se c’era una possibilità per sanare il conflitto tra i tirolesi e gli ospiti indesiderati, questa è stata vanificata dal tradimento italiano legato alla dichiarazione di guerra. Ma si diceva della montagna che gli italiani faranno saltare, un affronto alla Natura che perfino un welsch come Angelo interpreta come sacrilego e che lo spinge a tradire il suo popolo. 

Ne La montagna silenziosa ci sono dei rimandi storici, quelli utili alla causa di Gosser, e questo è il più evidente: storicamente, in effetti, gli italiani si daranno un gran d’affare nella guerra di mine (famosissima è quella che fece saltare la sommità del Col di Lana, ad esempio) ma fu un’attività bellica condivisa da entrambi gli schieramenti. Se poi si vuole sindacare ulteriormente, la guerra di mine fu iniziata dagli austriaci sul Lagazuoi Piccolo, il giorno di capodanno del 1916. E prima dell’esordio italiano in questa particolare guerra di montagna, che avvenne col botto nella citata mina del Col di Lana, ci fu un’altra esplosione provocata dagli austriaci. E’ chiaro che la guerra di mine era un pesante oltraggio alla natura delle montagne, che però subirono in modo massiccio tutte le fasi della guerra ad esempio quella di artiglieria in cui gli stessi austriaci non si risparmiarono. Ancora una volta il film travisa i fatti raccontando di uno scempio, la distruzione di un monumento naturale, che non fu della portata mostrata dalle immagini in quanto, se è vero che si aprirono devastanti crateri o vennero create gigantesche frane, non venne sostanzialmente abbattuta un’intera montagna. Naturalmente le licenze poetiche ci stanno, al cinema, peccato che in La montagna silenziosa siano tutte utili a forzare la prospettiva del racconto in modo fazioso. 

Ma c’è, nell’intenzione degli autori, probabilmente il tentativo di far passare i tirolesi come sorta di pellerossa delle dolomiti: la montagna, a cui in fondo è dedicato il film sin dal titolo, è da loro rispettata mentre gli italiani, pur di conquistarla, sono disposti a farla saltare. Significative, in tal senso, le parole del capitano Karl Gruber (Harald Windisch), padre di Andreas e Elisabeth nonché ufficiale austriaco. Sulla cima della montagna, informato dal genero Angelo dell’intenzione degli italiani di farla saltare, afferma che quello è un bel posto per morire, un’uscita che riecheggia la famosa frase attribuita a Cavallo Pazzo, leader storico dei Sioux, “oggi è un buon giorno per morire”. Sotto questo aspetto si può leggere il rinnovo del tentativo di fare dei bergfilm, i film di montagna di lingua tedesca, l’equivalente dei western americani: nel caso, con film della qualità di La montagna silenziosa, sarà dura. Nel passaggio narrativo specifico, ci si può chiedere, naturalmente, perché diamine Karl non se la sia data a gambe, una volta avvisato: non poteva, perché l’arrivo dei mitici Cacciatori di Montagna della Fanteria Bavarese, accolti come divinità dai tirolesi, aveva anche il suo lato oscuro. Con i tedeschi in squadra, in ossequio al loro tipico e rigoroso rispetto per gli ordini, nessuno lasciava il suo posto, anche a costo di rimetterci la pelle. Pur se stereotipata, la figura del luogotenente Sven Kornatz (Werner Daehn) è intrisa di muta ammirazione, nel suo rimanere al fianco del capitano Gruber e ai suoi uomini ad attendere la morte ostentando indifferenza. 

Ma La montagna silenziosa è un film pieno zeppo di stereotipi: se gli austriaci sono furbi nel senso intelligente della parola (l’accensione dei tanti falò per ingannare il nemico sul loro effettivo numero), gli italiani sono rappresentati, probabilmente in un’accezione del termine ancora diffusa in Austria (se no come si spiega che opere del genere siano prodotte e distribuite?), dall’ufficiale Quinzano (Corrado Invernizzi). Il Quinzano è un folle esaltato che sembra godere nel mandare al massacro i propri soldati e non esita a farli mitragliare se non si dànno una mossa; ascolta e canta l’opera ad alto volume mentre cena con tavola imbandita sulla linea del fronte e partorisce idee folli come quella di far saltare l’intera montagna dove sono arroccati gli austriaci. Peraltro va riconosciuto che, nella sua rozza stilizzazione, la sua figura decisamente sopra le righe è forse la migliore dell’intero film. Tra gli interpreti c’è, anche se fa male al cuore dirlo, anche Claudia Cardinale, in un cameo forse inserito per cercare di smorzare l’evidente sentimento anti-italiano che permea tutta quanta la storia. Purtroppo, a parte il ruolo insignificante all’interno di un film di scarsissimo rilievo, anche di suo la Cardinale non ci fa una gran figura. Oltre al richiamo tricolore che una diva come Claudia forniva al film, gli autori provano a stemperare l’opera con una cornice narrativa onirica che potrebbe lasciar intendere che quello a cui assistiamo è un brutto sogno oppure che la guerra sia un incubo. Forse, ma sarebbe sorprendente, il militare italiano che avanza col bollitore del tè sognato dal protagonista, vorrebbe richiamare il famoso MacGuffin di Hitchockiana memoria: la valigia il cui contenuto non era importante ma che serviva da pretesto per imbastire una storia. Peccato che, stavolta, la metafora non funziona in modo pretestuoso ma, semmai, rappresenta concretamente il significato del film. La rozza teiera che il milite italico porta avanti è, infatti, vuota.


Claudia Cardinale


Eugenia Costantini 

giovedì 10 febbraio 2022

STANDSCHUTZE BRUGGLER

970_STANDSCHUTZE BRUGGLER ; Germania, 1936; regia di Werner Klingler. 

In genere liquidato sbrigativamente per la sua evidente vena pangermanica, Standschütze Bruggler è in effetti un film da prendere con le molle. Da un certo punto di vista va detto che la faziosità di cui Werner Klinger intinge la sua opera non è poi molto diversa o maggiore a tanti altri film dell’epoca prodotti in altri paesi. Tuttavia in questo caso i timori sono legittimamente legati al fatto che il film fu un tipico prodotto della Germania nazista e, quindi, i temi propagandistici non sono solo potenzialmente mezzi per una mistificazione della realtà ma quello di Klinger fu di fatto uno di questi strumenti. Si tratta di una fama che forse si fonda anche sull’eco del soggetto all’origine, opera di Anton Bossi-Fedrigotti, che è intriso non solo di una onesta, considerato l’epoca, partigianeria. Bossi-Fedrigotti, nella sua prosa, sfruttava infatti strumentalmente la naturale mancanza di coesione delle truppe austroungariche, assemblate con uomini provenienti da ogni angolo dell’impero, paragonandola all’abnegazione dell’aiuto tedesco nel momento topico della guerra, per dimostrare la maggior fedeltà alla patria del soldato di stirpe germanica. Il che aveva un fondamento storico, ovviamente: un suddito di Guglielmo II poteva facilmente comprendere che, per la sua prosperità in Germania, era preferibile che l’Austria vincesse la sua porzione di guerra con l’Italia. Più arduo immaginare un rumeno o uno slavo che abitasse uno dei tanti domini dell’impero, scorgere negli interessi austriaci nel conflitto un tangibile vantaggio personale. 

Questa visione delle cose, questo discernere tra tedeschi e gli altri popoli che abitavano l’area dell’Europa centrale, fu ritenuto utile dai nazisti per alimentare la propaganda di una necessità di un’espansione germanica su quei territori. Una politica in cui opere come Standschütze Bruggler, libro o film, divenivano supporto storico per legittimare l’operazione. E, siccome non si parla di ipotesi ma di eventi che poi si sono tragicamente concretizzati, è comprensibile la ritrosia con cui viene in genere considerato il film di Kingler che, come detto, dell’opera in questo senso più esplicita di Bossi-Fedrigotti era la versione su schermo. Per altro Standschütze Bruggler ha anche qualche elemento di curiosità. Non tanto il romanticismo scialbo per cui il protagonista, Toni Bruggler (Ludwig Kerscher), giovane seminarista, rifiuta l’esenzione in quanto studente di religione, per unirsi alle Standschütze, (queste sì interessanti per il loro essere milizie particolari che il Tirolo poteva affiancare all’esercito imperiale). Ferito da un cecchino italiano, durante la convalescenza, conosce Frau Hella von Tuff (Lola Chlud), una baronessa che istilla nel giovane ulteriori dubbi sulla sua vocazione. Combattuto tra la sua precedente scelta di vestire l’abito talare e le nuove suggestioni, sia militari che sentimentali, Toni sullo schermo si limita a fare per bene e con valore il suo dovere di soldato, lasciando blandamente intuire la traccia amorosa. Se questa sponda è infatti trattata in modo platonico dal film, dal punto di vista militare la prepotente presenza delle montagne è l’elemento di gran lunga più evocativo del film. Standschütze Bruggler si inserisce, infatti, nella corrente cinematografica dei bergfilm, i film ambientati in montagna, particolarmente florido tra le due guerre in Germania. Pare che i tedeschi intendessero il bergfilm in modo epico, allo stesso modo in cui farà Hollywood col western, e, tra le varie ambientazioni temporali, la Grande Guerra rappresentava uno degli scenari ideali. Un po’ come per Montagne in fiamme (1931) sebbene quello Luis Trenker e Karl Hartl sia opera di ben altro livello rispetto a questo Standschütze Bruggler.




martedì 8 febbraio 2022

LE SCARPE AL SOLE

969_LE SCARPE AL SOLE ; Italia, 1935; regia di Marco Elter.

“Nel gergo degli alpini mettere le scarpe al sole significa morire in combattimento”. Con queste parole Paolo Monelli presentava il suo Le scarpe al sole, libro da cui è tratto l'omonimo film del 1935 di Marco Elter. Quello del Monelli era una sorta di diario di guerra e la mano in regia di Elter ne sottolinea l’autenticità alla base con una deriva quasi documentaristica: con lente panoramiche mostra gli spettacolari panorami dolomitici teatro della Grande Guerra e anche quando deve entrare nelle vicende private dei vari personaggi, lo fa sempre con discrezione. Sebbene la coralità della messa in scena, la mancanza di un vero protagonista, ricorda la scuola cinematografica francese, in Le scarpe al sole sono evidenti i debiti verso il Bergfilm, il cinema di montagna tedesco. Sarà che gli elementi in gioco non è che siano poi molti, l’aspra montagna, le trincee arroccate, la crudezza degli scontri, con la prima a giocare un ruolo di vero protagonista, ma si può anche riconoscere qualche similitudine con Montagne in fiamme (1931, regia di Trenker e Hartl) uno dei testi di riferimento nel sottogenere che spopolò in Germania tra le due guerre. In ogni caso, si tratta di parentela legittima all’interno della medesima corrente cinematografica. Il tema romantico, tipico dell’epoca, è testimoniato dalle due coppie di personaggi: Tony (Carlo Lodovici) è fidanzato con Maria (Nelly Corradi) mentre Cesco (Giorgio Covi) è da poco sposato con Anna (Isa Pola). Il film, in effetti, si apre proprio con il banchetto nuziale di Anna e Cesco mentre, dopo le tante peripezie belliche, il sarto che prende le misure per un elegante gilet nero a Tony, sotto lo sguardo innamorato di Maria, sembra chiudere il cerchio con l’imminente matrimonio della coppia di fidanzati. In sostanza si può leggere la speranza (poi andata vana) che la guerra che aveva infuocato l’Italia fosse solo una parentesi all’interno di una vita da dedicare con maggior impegno alle questioni romantiche. Ma, come detto, questa è più che altro una sorta di cornice, al film vero e proprio, che si concentra maggiormente sulle citate fasi belliche. Non manca qualche scappatoia sentimentale anche durante il corpo del racconto, ad esempio nelle licenze o quando Tony viene ferito ma ad alleggerire il tema bellico è più che altro la vena ironica ben interpretata dall’attempato Bepo (Camillo Pilotto). 


Il vecio si imbosca prontamente in cucina, dove si darà da fare con qualche gag umoristica ma, nel momento decisivo, farà con onore la sua parte fino in fondo. Proprio il suo sacrificio evidenzia la messa in scena simbolica di Elter: Bepo, nel tentativo di rigettare una bomba a mano nemica, rimane ucciso sulla cima del monte su cui i nostri erano arroccati. La grande croce posta sulla vetta viene danneggiata dallo scoppio in uno dei bracci orizzontali e, in questo modo, riprende la figura del povero Bepo, morto e mutilato in modo simile e in quella stessa circostanza. Il sacrificio del personaggio più umano, il simpaticone della truppa e padre di famiglia, è un duro colpo per l’ottimismo che tutto sommato pervade il film. Ma dimostra ulteriormente la profondità del lavoro di Elter. Al quale, indubbiamente, manca un po’ di ritmo, per potersi dire effettivamente davvero godibile allo spettatore odierno. Eppure il raffinato simbolismo, ad esempio con gli uomini reclutati nelle valli dolomitiche che si uniscono man mano alla truppa e mostrati con un montaggio alternato ai torrenti di montagna che confluiscono nel fiume, tiene sempre desta l’attenzione. Le scene delle battaglie sui monti, le scalate, gli agguatti, gli assalti con gli sci, le furibonde lotte, i bombardamenti: tutto il corredo bellico è di prim’ordine. Eppure il passaggio più bello e divertente è una scena di pace, con le donne del paese che lavano i panni al ruscello. Anna, la ragazza che si è sposata con Cesco ad inizio film, non sta dandosi da fare col bucato come le altre matrone accanto a lei e, guardando alcuni bambini che fanno il girotondo, esclama, “mi sento tanto stanca!” Al che, le tre donne si interrompono dallo strofinare all’unisono e la guardano sorprese, visto che, come detto, non sembrava affatto affannarsi troppo. Sul successivo primo piano di Anna, la voce di una altra paesana risolve il passaggio: “quando si sta tanto mal l’è un maschio!”
Quando il cinema italiano era capace di raccontare. 




Isa Pola 


Nelly Corradi