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sabato 24 aprile 2021

LA LANCIA CHE UCCIDE

802_LA LANCIA CHE UCCIDE (Broken Lance). Stati Uniti1954. Regia di Edward Dmytryk. 

Sia il titolo italiano La lancia che uccide che quello originale Broken Lance, più attinente, lasciano facilmente intendere che quello di Edward Dmytryk è un western.  Siamo a metà degli anni cinquanta, in piena epoca classica del genere ma le inquietudini del regista di origini ucraine trapelano anche in una struttura, quella del western di quegli anni, solitamente ben codificata. Dmytryk non è John Ford o Anthony Mann, questo no, ma la sua mano quando è calda non è quieta né ordinaria. La vicenda raccontata in La lancia che uccide si ambienta sul finire dell’epopea del Far West e già in questo dettaglio si può cogliere l’anticipo sui tempi dell’autore americano. I temi della storia non sono perciò legati alla conquista ma piuttosto quelli introdotti dalla normalizzazione di una fase storica tanto turbolenta quanto avvincente come quella della frontiera. C’è infatti la questione dell’eredità del grande ranch costruito quando il terreno era libero; c’è lo scontro dell’attività prettamente western come l’allevamento di bestiame con le emergenti attività industriali. C’è il problema dell’integrazione dei pochi pellerossa superstiti alla guerra di conquista e c’è anche il problema dei frutti di quelle sporadiche unioni tra i nativi e i primi colonizzatori. Temi forti, temi importanti, che Dmytryk padroneggia da par suo, alimentando la vicenda con una storia d’amore tra il meticcio Joe Deveraux (Robert Wagner) e Barbara, la deliziosa figlia del Governatore (una bellissima Jean Peters), in aggiunta ad una serie di difficoltà di rapporti famigliari in seno alla famiglia Deveraux. E, volendo vedere, questi argomenti sono più inerenti alla società americana degli anni ’50 che all’epopea western. Il regista americano fa però un ottimo lavoro così che il suo messaggio arrivi forte e chiaro mantenendo al contempo coerenza stilistica col genere dell’opera filmica. Il razzismo, i problemi legati alla struttura famigliare con figli di prime e seconde mogli e relative rivalità tra loro, le dispute sulla eredità o la stessa educazione dei figli: Dmytriyk racconta queste cose che erano il nervo scoperto nella società americana del boom del dopoguerra. In questo suo lavoro è ben coadiuvato da uno strepitoso cast: oltre a Wagner e alla Peters, la pellicola si avvale di un grande Spencer Tracy (Deveraux senior), un solido Richard Widmark (il primogenito) e una credibile Katy Jurado (la “senora” Deveraux, una pellerossa presa in seconde nozze dal Signor Deveraux). Il western classico, nelle mani di chi conosceva il mestiere, dava sempre frutti eccellenti.







Jean Peters







Katy Jurado

giovedì 22 aprile 2021

LA STRADA SCARLATTA

801_LA STRADA SCARLATTA (Scarlet Street). Stati Uniti1945. Regia di Fritz Lang.

L’anno successivo a La donna del ritratto, Fritz Lang riunisce ancora Edward G. Robinson, Joan Bennett e Dan Duryea per un nuovo capolavoro, La strada scarlatta. Stavolta Lang abbandona la vena ironica che aveva a tratti accompagnato il precedente lavoro per un approccio più cinico: il povero Christopher Cross, il personaggio interpretato da Robinson, si trova coinvolto in una situazione drammatica che lo porterà alla rovina. Lang evita infatti di alleggerire l’incubo che ha costruito intorno al suo protagonista, come aveva fatto nel precedente film, anche perché tutto il racconto è imbastito per mettere Cross nella tragica condizione con cui il film lo congeda nel finale. A differenza del professor Wanley de La donna del ritratto, il nuovo personaggio di Robinson non si macchia di un delitto attenuato dalla legittima difesa; e, fatto simbolicamente più grave, non uccide un amante geloso ma la donna che ama. Uccide, in sostanza, l’amore. L’aspetto simbolico ne La strada scarlatta è, se è possibile, ancora più evidente che nel precedente film; qui non c’è nemmeno la giustificazione narrativa di trovarsi in un sogno, la vicenda appare quasi astratta eppure gli snodi della trama sono perlomeno realistici, per quanto assai poco credibili. Tuttavia il simbolismo permea tutta quanta l’opera: esempi in tal senso sono le scene in esterni, perlopiù notturne o che rivelino comunque la natura artefatta del set allestito negli stabilimenti della Universal, e l’arredamento dell’appartamento affittato per Kitty (Joan Bennett), ricco di decori geometrici e figure astratte. 

Di più: i quadri dipinti da Cross hanno elementi fortemente simbolici e una certa stilizzazione è riscontrabile anche nella definizione dei personaggi della storia. Cross è il tipico uomo mite vessato dalla moglie che si innamora di una ragazza bellissima e molto più giovane di lui; Bellegambe Kitty è sostanzialmente una bambola, buona ad approfittarsi dell’ingenuità del protagonista della storia ma incapace anche solo di comprendere che il suo amato Johnny (Dan Duryea) è solo un povero mentecatto. Eppure, con questi tre personaggi molto stereotipati, caratteristica che accompagna anche le comparse, come Adele (Rosalind Ivan), acida moglie di Cross, Lang riesce a confezionare una storia molto efficace. Certo, funzionale a ciò è la sua proverbiale verve narrativa, la capacità di orchestrare le immagini in modo sontuoso: insomma, la superba abilità registica. Del resto l’autore di origine austriaca ha il suo daffare, perché deve portare la storia esattamente dove vuole che arrivi e, per farlo, c’è da sbrogliare in modo comprensibile e plausibile l’incastro narrativo che vede i quadri di Cross passare da oggetti di nessun valore tenuti nascosti ad opere d’arte riconosciute dai galleristi e critici più in voga. Ad occuparsi di ciò è essenzialmente il personaggio di Johnny, nel tentativo di far luce su una serie di equivoci involontariamente sorti tra Cross e Kitty: per il mascalzone bisogna approfondire se davvero l’attempato corteggiatore è un pittore quotato, cosa di cui si è incautamente convinta Bellegambe. Non sia mai che la coppia, in costante necessità di denaro per fare la bella vita, perda tempo con uno squattrinato qualunque. Gli snodi del racconto porteranno Kitty a firmare i quadri, spacciandoli per sue opere; un dettaglio che Cross, quando se ne accorge, accetta per amore della ragazza. 


Nonostante l’intreccio principale sia sostanzialmente privo di ironia, se non nei pasticci che combina Johnny con i quadri, Lang non vi rinuncia completamente. Naturalmente il personaggio di Cross, quando è alle prese con Kitty, è troppo patetico per reggere un registro umoristico; ne uscirebbe eccessivamente umiliato dallo spettatore e Lang riserva questo trattamento al suo protagonista prevalentemente da parte della donna che ama nel momento clou, motivando così la sua assassina reazione. Ma, prima di questo duro passaggio, Cross ha il tempo di vendicarsi e liberarsi dal giogo della moglie quando le spedisce a casa in piena notte il primo marito, rifattosi vivo quando era dato per morto da anni. 

Homer (Charles Kemper), il presunto defunto, si era presentato a Cross chiedendo un riscatto per non tornare dalla comune moglie; e dire che Adele lo rimpiangeva rinfacciando al suo nuovo consorte quanto fosse felice nel suo primo matrimonio.  Homer, lungi dall’essere quel pezzo d’uomo venerato dall’ex moglie, sembra soltanto un mariuolo, coinvolto in loschi traffici nonostante fosse un detective, che si crede troppo furbo e finisce beffato addirittura da Cross che nella storia non passa certo per un tipo poi così sveglio. E’ un momento umoristico e precede il passaggio cruciale che, peraltro, si connota sempre in chiave ironica per la feroce presa in giro di Kitty nei confronti di Cross. Come detto l’uomo si è ora liberato dalla moglie (dal momento che è tornato in vita il primo marito, il suo legame con Adele si è infatti annullato), e si precipita da Kitty per chiederle di sposarlo. 

Al suo arrivo la trova tra le braccia di Johnny e già lo vediamo vacillare; ma non demorde e si fa avanti con la sua proposta. Davanti alla sua insistenza, la ragazza non regge più la finzione e spiattella in faccia al pover’uomo quanto in realtà lo disprezzi, ridicolizzandolo crudelmente. Anche un tipo all’apparenza mite come Cross ha il suo limite e, a quel punto, il punteruolo del ghiaccio che l’uomo si trova casualmente in mano si rivela davvero poco opportuno. Va detto che il protagonista aveva già dimostrato di possedere, sebbene in forma latente e inconsapevole, una deriva in qualche modo violenta quando, vedendo un bellimbusto picchiare brutalmente una giovane, era intervenuto riuscendo a salvare la ragazza mettendo fuori combattimento il giovanotto. 

Si era all’inizio del film, al passaggio che innescava la vicenda e, naturalmente, i due erano Kitty e Johnny, quest’ultimo avvezzo a prendere a sberle la ragazza che, a suo dire, non trovava questa abitudine poi un grosso problema. Ora la ragazza era però morta e sul punteruolo del ghiaccio, preso da Johnny proprio per brindare con lo champagne insieme a Kitty, c’erano ovviamente le impronte del manesco giovane. Il quadro indiziario generale non sembrava dare scampo a Johnny che si trovava al centro di una complicata situazione fatta di inganni e equivoci, per uscire dalla quale, e poter avere qualche chance di cavarsela, doveva dimostrare che Kitty non era l’autrice dei quadri. Ma Cross, interrogato in proposito, negava di essere in grado di dipingere, condannando di fatto Johnny alla pena di morte. Condannando un innocente. La forza di Lang, il suo rigore morale, tocca in La strada scarlatta uno dei suoi vertici: il complesso castello narrativo serve unicamente per arrivare alla situazione finale. Il protagonista, una persona mite e rispettabile, si rende colpevole di un delitto, da un certo punto di vista comprensibile ma senza alcuna seria attenuante morale e, per farla franca, sostanzialmente incolpa un deprecabile individuo che però, nella circostanza, è innocente. Il risultato di ciò è una condanna ancor più grave che viene inflitta dalla propria coscienza allo stesso Cross: il rimorso lo perseguiterà implacabile, senza dargli scampo. Chiamato a deporre rifiutò di dire la verità mandando alla sedia elettrica un innocente. Forse per sfuggire al rimorso, vaga senza meta come un qualunque barbone. Nel suo peregrinare può perfino capitagli di ascoltare che le sue opere ora valgono migliaia di dollari.
Sembra una beffa ma è solo l'ombra del prezzo della viltà.






Joan Bennett









martedì 20 aprile 2021

LA ZONA MORTA

800_LA ZONA MORTA (The Death Zone). Stati Uniti1983. Regia di David Cronenberg.  

Videodrome aveva rappresentato per David Cronenberg un punto di svolta cruciale: il canadese era riuscito ad esprimere al meglio la sua poetica, la sua sensibilità cinematografica e, da buon cineasta, più che il meritato riposo gli sembrò congeniale rilassarsi mettendosi al lavoro per una volta su un soggetto di qualcun altro. Particolare non trascurabile, l’opera in questione era un romanzo, La zona morta, appunto, nientemeno che di Stephen King, l’acclamato re dell’horror letterario. Qui occorre fare alcune precisazioni: la prima delle quali è che arrivare ad una sceneggiatura non fu così scontato, nonostante la prosa di King in genere sembri già un trattamento cinematografico. Anzi, in questo caso, lo scrittore statunitense, messo al lavoro sul suo stesso romanzo, confezionò un adattamento ritenuto dalla produzione particolarmente scarso. Dopo una manciata di tentativi, venne scelta la stesura di Jeffrey Boam che lavorò con buona sintonia insieme al regista, soprattutto considerando che Cronenberg era abituato a scriversi in prima persona le sceneggiature. Un altro aspetto da tenere presente è che al tempo era ancora lecito pensare che Stephen King fosse un autore ideale per il cinema; dopo l’eccellente Carrie, lo sguardo di Satana (1976, di Brian De Palma) c’era stato il capolavoro di Stanley Kubrick, Shining (1980), che peraltro lo stesso King non aveva affatto apprezzato. Opere minori come Le notti di Salem (1979, di Tobe Hooper), Creepshow (1982, di George A. Romero) e Cujo (1983, di Lewis Teague) non avevano ancora cristallizzato l’impressione che, senza la prosa suadente del re del terrore a sostenerli, i soggetti kinghiani rischiavano di sgonfiarsi nelle mani di registi troppo ordinari od ossequiosi. 

Queste premesse non devono essere considerate secondarie perché sono indispensabili per inquadrare al meglio il lavoro di Cronenberg ne La zona morta, oltre ad aiutarci a capire perché a suo tempo il film non sembrò troppo convincente (nonostante sia da sempre ritenuto uno dei migliori adattamenti di King per lo schermo). L’impressione era che l’autore canadese si fosse come contenuto: la storia mancava infatti di scene scabrose, sessualmente spinte o particolarmente terrorizzanti. Era un horror, d’accordo, ma nemmeno tanto impressionante. Eppure un senso di disagio, perfettamente nelle corde di Cronenberg, rimane nello spettatore alla fine della visione del film: ed è proprio questo che rende La zona morta un lavoro che si inserisce con armonia nella filmografia del canadese. L’autore nato a Toronto arriva a questo risultato senza negare o contraddire la poetica di King che ha, per la verità, una sensibilità diversa, ma quasi sublimandola. 

Lo scrittore del Maine è un narratore d’eccezione, è davvero il Big Mac della letteratura: e chi non si mangerebbe un panino con doppio hamburger da McDonald? Un paragone che invece non calzerebbe in nessun modo per Cronenberg, autore di culto ma anche di nicchia quasi per definizione. E’ chiaro che l’approccio di King è facilmente condivisibile e comprensibile istantaneamente da molti, diversamente non si spiegherebbe il suo successo in un campo come l’horror letterario, non sempre considerato lettura comune ai più. Non a caso, volendo vedere, il suo protagonista in La zona morta si chiama John Smith, nome simbolicamente comune negli States, nel film interpretato con efficacia da Christopher Walken. Quello che capita a Johnny, ovvero finire in coma per cinque anni e acquistare facoltà paranormali, potrebbe capitare a chiunque, sembra suggerire lo scrittore nato a Portland. E’ lo stesso meccanismo con cui in genere il cinema mette in campo l’eroe americano: un uomo qualunque che assurge a ruolo di eroe in condizioni eccezionali. Ed è, anche questo, un approccio che facilita, appunto, l’immedesimazione del lettore o dello spettatore nel personaggio. Il punto nevralgico della storia è rappresentato dalla responsabilità che deriva dal potere paranormale con cui si ritrova a convivere il protagonista. Essendo un racconto horror (o fantastico), lo scopo del soggetto de La zona morta è estremizzare alcuni elementi basilari della natura umana per renderli più facilmente comprensibili. 


Le capacità dell’individuo, da cui derivano le responsabilità nel gestirle, vengono quindi amplificate, mettendo il soggetto di fronte ad un problema maggiore rispetto a quanto può capitare nella vita quotidiana di ognuno. Il tema della responsabilità dell’individuo è così ulteriormente spinto al suo eccesso dalla trama, quando Johnny si ritrova a dover decidere se intervenire violentemente nel corso della Storia, per evitare un futuro tragico all’umanità. Stringendo la mano all’esuberante e demagogo politico Greg Stillson (nel film Martin Sheen), candidato al Senato degli Stati Uniti, il nostro scopre infatti che questi rappresenta un concreto pericolo per il suo paese e per il mondo intero. Il racconto mette Johnny di fronte ad un atroce dilemma: come fare per fermare Stillson, non avendo prove credibili a supporto delle sue, peraltro purtroppo attendibili, visioni? L’unica soluzione pare quella di eliminare il candidato senatore; il finale avrà un esito diverso da quello previsto ma Johnny raggiungerà comunque il suo scopo. Rimangono però alcuni dubbi circa la scelta estrema del protagonista, che prende la decisione di uccidere un uomo in base alle sue visioni oltre che ad un calcolo matematico che giustifica il suo operato: meglio che muoia una canaglia piuttosto che milioni di innocenti.


Ma è davvero una scelta così condivisibile? King, con alcune pennellate della sua storia, prova a convincerci di sì. Tra queste, le principali sono il sacrificio di Johnny, che assume una valenza quasi cristologica (si sacrifica per il bene dell’umanità) e l’atteggiamento vile di Stillson che si fa scudo di un bambino quando si vede minacciato dagli spari; a cui va aggiunta la verve narrativa dello scrittore che opera in tal senso. In fondo, King è un autore, si potrebbe dire, conservatore (usando il termine senza accezioni negative) o tradizionale: l’eroe deve fare l’eroe, a costo di assumersi responsabilità scomode. Cronenberg non contraddice questa impostazione ma, rafforzandola, acuendola, finisce per metterla in dubbio. Le visioni di Johnny sono rese dalla regia in modo molto personale e intenso, tanto che viene spontaneo pensare che siano una sua interpretazione della realtà, più che la realtà stessa. Certo, i risvolti della storia confermano che corrispondono al vero; del resto Cronenberg non vuole dire che Johnny non abbia il suo potere, anzi. Quello che Cronenberg sembra voler mettere in dubbio, senza di fatto farlo, è che il media-Johnny sia necessariamente sempre l’oracolo della verità. Erano gli anni 80 e in quel tempo si affermava la convinzione che una cosa fosse vera perché era mostrata in Tv (oggi accade lo stesso con internet) e cos’è il protagonista di La zona morta se non una sorta di canale in grado di proiettare la visione al di là del tempo e dello spazio? Insomma, per certi versi ricorda molto il media televisivo, con le sue dirette, le sue differite, le sue previsioni, provenienti da qualunque angolo del globo e da qualunque tempo. Ma, per quanto le sue facoltà non siano messe in discussione dai passaggi della trama, Cronenberg ricorre all’etica per ricordare che nessuna presunzione di verità (attendibile o meno) può rendere moralmente accettabile un gesto immorale. Neppure se il protagonista è infallibile, se è John Smith, il tipico eroe americano, e se a raccontarne le gesta è il re della letteratura a stelle e strisce. 



Brooke Adams


domenica 18 aprile 2021

LA LEGGE DEL SIGNORE

799_LA LEGGE DEL SIGNORE (Friendly Persuasion). Stati Uniti1956. Regia di William Wyler.   

Il film La legge del Signore di William Wyler è tratto dal libro di Jessamyn West The friendly persuasion, che significa persuasione amichevole, che poi è anche quella che opera il regista (e chissà, forse anche lo scrittore) per convincere lo spettatore a seguire le vicende di una famiglia di quaccheri ai tempi della Guerra Civile Americana. Perché le gesta dei Birdwell, la famiglia quacchera appunto, sono tra le meno appassionanti e avvincenti che si possano trovare a quei tempi in America: per via della loro confessione, il nostro simpatico nucleo famigliare è contrario alla violenza (e quindi alla guerra), alla musica, al ballo, alle competizioni, insomma non si tratta certo di tipi troppo interessanti. Ci pensano però Wyler (e West prima di lui) a imbastire una sorta di commedia, con spunti di cinema ora comico, (il piccolo Azaria alle prese con Samantha, l’oca della fattoria), ora sentimentale (la figlia Martha/Phyllis Love e la sua storia con l’aitante ufficiale unionista Gard/Peter Mark Richman), e anche avventuroso quando Giosuè (un giovane Anthony Perkins) decide di infrangere i precetti della confessione quacchera per arruolarsi nella Guardia Civile a difesa del paese a fronte dell’imminente invasione Confederata. A far da sfondo a questi differenti momenti che tengono sempre viva l’attenzione dello spettatore, la continua opera di persuasione dell’uomo di casa, Giona Birdwell (un divertito Gary Cooper) che cerca di moderare l’integerrima abnegazione della moglie Eliza (un’impeccabilmente bella Dorothy McGuire) ministro della religione quacchera e devota osservante dei suoi precetti. Wyler è bravissimo perché tiene il passo e molto spesso riesce a strappare una sonora risata allo spettatore, nonostante il plot narrativo sia forse eccessivamente dispersivo otre che, come detto, non proprio stimolante di suo.



Dorothy McGuire



Phyllis Love