800_LA ZONA MORTA (The Death Zone). Stati Uniti; 1983. Regia di David Cronenberg.

Videodrome
aveva rappresentato per David Cronenberg un punto di svolta cruciale: il
canadese era riuscito ad esprimere al meglio la sua poetica, la sua sensibilità
cinematografica e, da buon cineasta, più che il meritato riposo gli sembrò
congeniale rilassarsi mettendosi al lavoro per una volta su un soggetto di
qualcun altro. Particolare non trascurabile, l’opera in questione era un
romanzo, La zona morta, appunto, nientemeno che di Stephen King,
l’acclamato re dell’horror letterario. Qui occorre fare alcune precisazioni: la
prima delle quali è che arrivare ad una sceneggiatura non fu così scontato,
nonostante la prosa di King in genere sembri già un trattamento
cinematografico. Anzi, in questo caso, lo scrittore statunitense, messo al
lavoro sul suo stesso romanzo, confezionò un adattamento ritenuto dalla
produzione particolarmente scarso. Dopo una manciata di tentativi, venne scelta
la stesura di Jeffrey Boam che lavorò con buona sintonia insieme al regista,
soprattutto considerando che Cronenberg era abituato a scriversi in prima
persona le sceneggiature. Un altro aspetto da tenere presente è che al tempo
era ancora lecito pensare che Stephen King fosse un autore ideale per il
cinema; dopo l’eccellente Carrie, lo sguardo di Satana (1976, di Brian
De Palma) c’era stato il capolavoro di Stanley Kubrick, Shining (1980),
che peraltro lo stesso King non aveva affatto apprezzato. Opere minori come Le
notti di Salem (1979, di Tobe Hooper), Creepshow (1982, di George A.
Romero) e Cujo (1983, di Lewis Teague) non avevano ancora cristallizzato
l’impressione che, senza la prosa suadente del re del terrore a sostenerli, i
soggetti kinghiani rischiavano di sgonfiarsi nelle mani di registi troppo
ordinari od ossequiosi.

Queste premesse non devono essere considerate
secondarie perché sono indispensabili per inquadrare al meglio il lavoro di
Cronenberg ne La zona morta, oltre ad aiutarci a capire perché a suo
tempo il film non sembrò troppo convincente (nonostante sia da sempre ritenuto
uno dei migliori adattamenti di King per lo schermo). L’impressione era che
l’autore canadese si fosse come contenuto: la storia mancava infatti di scene
scabrose, sessualmente spinte o particolarmente terrorizzanti. Era un horror,
d’accordo, ma nemmeno tanto impressionante. Eppure un senso di disagio,
perfettamente nelle corde di Cronenberg, rimane nello spettatore alla fine
della visione del film: ed è proprio questo che rende La zona morta un
lavoro che si inserisce con armonia nella filmografia del canadese. L’autore nato
a Toronto arriva a questo risultato senza negare o contraddire la poetica di
King che ha, per la verità, una sensibilità diversa, ma quasi sublimandola.

Lo
scrittore del Maine è un narratore d’eccezione, è davvero il Big Mac
della letteratura: e chi non si mangerebbe un panino con doppio hamburger da
McDonald? Un paragone che invece non calzerebbe in nessun modo per Cronenberg,
autore di culto ma anche di nicchia quasi per definizione. E’ chiaro che
l’approccio di King è facilmente condivisibile e comprensibile istantaneamente
da molti, diversamente non si spiegherebbe il suo successo in un campo come
l’horror letterario, non sempre considerato lettura comune ai più. Non a caso,
volendo vedere, il suo protagonista in La zona morta si chiama John Smith,
nome simbolicamente comune negli States, nel film interpretato con efficacia da
Christopher Walken. Quello che capita a Johnny, ovvero finire in coma per
cinque anni e acquistare facoltà paranormali, potrebbe capitare a chiunque,
sembra suggerire lo scrittore nato a Portland. E’ lo stesso meccanismo con cui
in genere il cinema mette in campo l’eroe americano: un uomo qualunque che
assurge a ruolo di eroe in condizioni eccezionali. Ed è, anche questo, un
approccio che facilita, appunto, l’immedesimazione del lettore o dello
spettatore nel personaggio. Il punto nevralgico della storia è rappresentato
dalla responsabilità che deriva dal potere paranormale con cui si ritrova a
convivere il protagonista. Essendo un racconto horror (o fantastico), lo scopo del
soggetto de La zona morta è estremizzare alcuni elementi basilari della
natura umana per renderli più facilmente comprensibili.


Le capacità
dell’individuo, da cui derivano le responsabilità nel gestirle, vengono quindi
amplificate, mettendo il soggetto di fronte ad un problema maggiore rispetto a
quanto può capitare nella vita quotidiana di ognuno. Il tema della
responsabilità dell’individuo è così ulteriormente spinto al suo eccesso dalla trama,
quando Johnny si ritrova a dover decidere se intervenire violentemente nel
corso della Storia, per evitare un futuro tragico all’umanità. Stringendo la
mano all’esuberante e demagogo politico Greg Stillson (nel film Martin Sheen),
candidato al Senato degli Stati Uniti, il nostro scopre infatti che
questi rappresenta un concreto pericolo per il suo paese e per il mondo intero.
Il racconto mette Johnny di fronte ad un atroce dilemma: come fare per fermare
Stillson, non avendo prove credibili a supporto delle sue, peraltro purtroppo
attendibili, visioni? L’unica soluzione pare quella di eliminare il candidato senatore; il finale avrà un esito diverso da quello previsto ma Johnny raggiungerà comunque il suo scopo. Rimangono però alcuni dubbi circa la scelta estrema del protagonista, che prende la decisione di uccidere un uomo in base alle sue visioni oltre che ad un calcolo matematico che giustifica il suo operato: meglio che muoia una canaglia piuttosto che milioni di innocenti.
Ma è
davvero una scelta così condivisibile? King, con alcune pennellate della sua
storia, prova a convincerci di sì. Tra queste, le principali sono il sacrificio
di Johnny, che assume una valenza quasi cristologica (si sacrifica per il bene
dell’umanità) e l’atteggiamento vile di Stillson che si fa scudo di un bambino
quando si vede minacciato dagli spari; a cui va aggiunta la verve narrativa
dello scrittore che opera in tal senso. In fondo, King è un autore, si potrebbe
dire,
conservatore (usando il termine senza accezioni negative) o
tradizionale: l’eroe deve fare l’eroe, a costo di assumersi responsabilità
scomode. Cronenberg non contraddice questa impostazione ma, rafforzandola,
acuendola, finisce per metterla in dubbio. Le visioni di Johnny sono rese dalla
regia in modo molto personale e intenso, tanto che viene spontaneo pensare che
siano una sua interpretazione della realtà, più che la realtà stessa. Certo, i
risvolti della storia confermano che corrispondono al vero; del resto
Cronenberg non vuole dire che Johnny non abbia il suo potere, anzi. Quello che Cronenberg
sembra voler mettere in dubbio, senza di fatto farlo, è che il media-Johnny
sia necessariamente sempre l’oracolo della verità. Erano gli anni 80 e in quel
tempo si affermava la convinzione che una cosa fosse vera perché era mostrata
in Tv (oggi accade lo stesso con internet) e cos’è il protagonista di La
zona morta se non una sorta di canale in grado di proiettare la
visione al di là del tempo e dello spazio? Insomma, per certi versi ricorda
molto il media televisivo, con le sue dirette, le sue differite, le sue
previsioni, provenienti da qualunque angolo del globo e da qualunque tempo. Ma,
per quanto le sue facoltà non siano messe in discussione dai passaggi della
trama, Cronenberg ricorre all’etica per ricordare che nessuna presunzione di
verità (attendibile o meno) può rendere moralmente accettabile un gesto
immorale. Neppure se il protagonista è infallibile, se è John Smith, il tipico
eroe americano, e se a raccontarne le gesta è il re della letteratura a stelle
e strisce. Brooke Adams