Translate

venerdì 22 maggio 2020

LA GIUNGLA DEGLI IMPLACABILI

572_LA GIUNGLA DEGLI IMPLACABILI (The Colditz Story); Regno Unito, 1955. Regia di Guy Hamilton.

Tralasciando l’incomprensibile titolo italiano, The Colditz Story di Guy Hamilton è un curioso film di guerra britannico che racconta degli indomabili prigionieri alleati dediti a ripetuti tentativi di fuga da un carcere di guerra tedesco. La prigione in questione è la fortezza di Colditz e li vi vennero reclusi tutti quei prigionieri che avevano già alle spalle un qualche tentativo di fuga dalle carceri naziste, senza per altro farli desistere dal proposito. Per quanto la fortezza abbia l’aspetto lugubre di un castello medioevale e i militari nazisti siano anch’essi poco rassicuranti, il tono generale dell’opera si spinge spessissimo nei toni della commedia, alleggerendo la narrazione ma smorzandone un po’, per la verità, la carica drammatica. Il risultato è certamente particolare e comunque evidentemente ricercato, visto che il regista Guy Hamilton inserisce alcuni leggeri numeri musicali e teatrali a chiarire che l’umorismo di cui è intrisa la pellicola non è involontario. Da ricordare la canzone I belong to Colditz (che rafforza il tono farsesco facendo il verso alla tradizionale I belong to Glasgow) e il numero teatrale d’avanspettacolo Three corney jokes. I tentativi di fuga improbabili, ad esempio infilati in un sacco per la biancheria, ricordano le comiche di Stanlio e Ollio più che un film bellico vero e proprio. E anche i militari del racconto filmico sembrano consapevolmente scherzare nel momento in cui calano dalla finestra un manichino attaccato ad una corda, non si capisce neanche bene se per verificare la fattibilità della via di fuga o direttamente per prendere per i fondelli le guardie. I nazisti non scherzano affatto e provano a chiudere la questione a suon di mitragliatrice, sebbene non ci facciano una gran figura quando, ritratto il manichino dagli inglesi, rimangono con un palmo di naso. Situazione questa che innesca ulteriori provocazioni ai danni degli aguzzini tedeschi che, per la verità, finiscono addirittura per fare la parte delle vittime, se non altro del tipico humor britannico. Un film divertente, quindi, ma a cui manca un po’ di mordente per coinvolgere pienamente.





mercoledì 20 maggio 2020

LA TIGRE E' ANCORA VIVA - SANDOKAN ALLA RISCOSSA

571_LA TIGRE E' ANCORA VIVA - SANDOKAN ALLA RISCOSSA ; Italia, 1978. Regia di Sergio Sollima. 

A poco più di un anno di distanza dalla trasmissione televisiva della sceneggiato Sandokan, il regista Sergio Sollima certa di riproporre, stavolta direttamente per il grande schermo, la ricetta che ha avuto un così grande successo popolare. Diciamo subito che se si vede questo La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa! avendo ancora negli occhi l’originale, non si può non rimanere delusi. Ed è un peccato perché, tutto sommato, questo secondo episodio dell’eroe di Emilio Salgari nell’interpretazione di Kabir Bedi è un film piacevole. Fatica un po’ a carburare ma poi, quando arrivano le scene di battaglia (in questo caso spesso un po’ troppo debitrici agli spaghetti-western), e si rivedono in azione, insieme alla Tigre della Malesia, Yanez de Gomera (Philippe Leroy), Tremal Naik (Kumar Ganesh) e tutti gli altri, forse complice la nostalgia, ci si appassiona anche a questa nuova avventura dei Tigrotti di Mompracem. Operazione nostalgia a parte (carta per altro giocata in modo spudorato e consapevole da Sollima), il regista è nel complesso bravo e riesce a mettere a segno almeno una scena di grande efficacia emotiva: la morte della giovane Mita, uccisa per mano dei Rangers di James Brooks (Adolfo Celi). In ogni caso tutto il finale del film è un crescendo avvincente al quale però manca la stoccata finale: Brooks che se ne va su una barca ammettendo la momentanea sconfitta non ha certo una resa adeguata e nemmeno ce l’ha può avere l’ipotetica storia d’amore tra Sandokan e Jamilah (una Teresa Ann Savoy che non regge nemmeno lontanamente il ricordo della perla di Labuan). 

Così questo La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa! deve andare in archivio con un più di un rammarico, il minore dei quali è la delusione dello spettatore. Perché la tiepida accoglienza nelle sale del film, che fa seguito a quel Corsaro Nero che è un altro mezzo fiasco di Sollima girato nella speranza di sfruttare la scia del successo televisivo di Sandokan, ci dà un po’ la cifra della qualità dei produttori nostrani. Se lo sceneggiato televisivo Sandokan è stato un successo senza precedenti, lo si deve non certo al caso o alla fortuna; e nemmeno al soggetto di base, perché il testo salgariano ha subito un trattamento adeguato, che pur senza stravolgerne i temi, li ha resi congeniali al media televisivo. Insomma il risultato è merito proprio della realizzazione tecnica dell’opera: ben quattro anni, con la troupe stanziata per otto mesi nell’estremo oriente, le scenografie, la scelta del cast, la musica, tutto fu studiato e sviluppato alla stregua di un vero e proprio kolossal. 

Questo è il motivo del successo di Sandokan, un’opera dove l’impegno profuso dalla produzione esaltò il talento del regista e degli attori. Ottenuto il meritato riconoscimento, ci si aspetterebbe che si pensi a ripetere la formula, al massimo migliorandola laddove fossero emersi dei limiti. Ma no, perché darsi tanta pena? Il produttore italiano pensa subito a sfruttare quel lavoro il più velocemente possibile, tanto che nell’arco di un anno, escono non uno ma ben due (il secondo Sandokan e Il Corsaro Nero, che vede impegnati Kabir Bedi e Carole André) tentativi di ripetere il successo dello sceneggiato. Ma è possibile in così pochi mesi ripetere un exploit che al contrario aveva richiesto anni? No; e il dramma è che facilmente gli stessi produttori che hanno organizzato tutto ciò, metteranno poi una pietra sopra al genere piratesco con la presunta motivazione che non piace al pubblico.


Teresa Ann Savoy



lunedì 18 maggio 2020

NUDE... SI MUORE

570_NUDE... SI MUORE , Italia 1968Regia di Antonio Margheriti.

Il regista Antonio Margheriti aveva già mostrato ai suoi esordi una buona verve gotica, contribuendo con tre film alla corrente italiana del cinema dell’orrore, il gotico, che furoreggiò nei primissimi anni sessanta. Nel 1968 intuisce forse che si sta facendo strada, nel panorama nazionale, anche un filone meno strettamente horror e più vicino al thriller nel quale preponderava una forte deriva investigativa, tanto che a livello internazionale questo genere verrà in seguito identificato con il termine giallo, ovvero il thriller all’italiana. Sarà Dario Argento ad essere maggiormente riconosciuto come riferimento di questo cinema, sebbene il suo L’uccello dalle piume di cristallo sia del 1970, quando per quasi tutto il decennio precedente in molti avevano già frequentato, nella penisola, queste coordinate cinematografiche. Tra questi anche Antonio Margheriti, con il suo Nude… si muore, un film nel quale l’autore romano interpreta in modo conforme al genere alcuni aspetti ma lascia comunque un’impronta originale. Nei cliché del genere va annoverata la trama gialla con qualche passaggio di sceneggiatura un po’ forzato, in quanto lo scopo primario del thriller all’italiana è sempre sorprendere lo spettatore e per farlo si sacrifica (troppo) spesso la coerenza narrativa. Non che in Nude… si muore ci siano incongruenze scandalose, per la verità; anzi, da questo punto di vista è forse superiore alla qualità media dei prodotti simili del tempo. Al massimo si può rimproverare al regista e agli sceneggiatori l’uso improprio di strumenti come i walkie talkie, al tempo certamente più credibile ma, visto oggi, davvero superficiale. 

Sempre in tema col genere è anche l’ambientazione nel collegio femminile e le allusioni pruriginose, sebbene anche da questo punto di vista Margheriti si contenga e non ecceda con scene volgari o gratuite: volendo vedere, lo spettatore attratto dalla idea maliziosa di una vicenda in un istituto che pullula di giovani ragazze, verrà piuttosto deluso. La storia non è certamente troppo originale ma ha un buon colpo di scena nel finale, ben preparato sin dalle prime scene in cui compare la signora Clay (Ludmila Lvova), il cui doppiaggio ne anticipa la natura ambigua


L’aspetto più particolare è che Margheriti, pur avendo una spiccata vena horror (e in qualche scena si intuisce) opta per virare l’opera in un’ottica pop che davvero fatica a coesistere con il genere thriller della storia. Già la canzone Nightmare (cantata da Rose Brennan) ricorda la musichetta della colonna sonora del Batman della serie televisiva, che era certamente uno dei punti di riferimento visivo alla cultura pop degli anni sessanta. Tutta la prestazione recitativa di Sally Smith (Jill) è spumeggiante e frizzante, tipicamente pop, e la sua presenza è un aggancio anche alla serie cinematografica di James Bond, sia per l’uso delle radioline per spiare come procedono le indagini, sia perché pare che il padre della ragazza sia un agente segreto. I film con Sean Connery erano un altro rifermento alla cultura popolare tipicamente british degli anni sessanta e, se nella versione italiana di Nude… si muore il padre di Jill è l’Agente segreto 009, in quella americana è esplicitamente lo 007 dei film di James Bond. Anche la musica della colonna sonora, e non solo la citata Nightmare, ha numerosi passaggi allegri e spensierati il che rende, nel complesso l’insieme del film piuttosto eterogeneo, visto che in altri momenti l’atmosfera diventa più tesa. 

Valida, in questo, la presenza di Luciano Pigozzi, il ‘Peter Lorre italiano’, che nel film è il giardiniere; mentre di routine le prestazioni di Mark Damon e Michael Rennie. Tra le tante ragazze, da ricordare Eleonora Brown (Lucille), in un ruolo importante, mentre Malisa Longo (al suo esordio) e Silvia Dionisio rimangono più sfumate. E comunque nessuna di loro riesce a contendere la scena a Sally Smith, a cui mancheranno anche dieci centimetri buoni di altezza, ma sono pienamente compensati da bellezza, classe e spumeggiante verve.         




Eleonora Brown




Sylvia Dioniso


Sally Smith








sabato 16 maggio 2020

NOI SIAMO LE COLONNE

569_NOI SIAMO LE COLONNE (A chump at Oxford), Stati Uniti 1940Regia di Alfred J. Goulding.

Un film praticamente diviso in due parti, con la prima ambientata in America e la seconda nientemeno che ad Oxford, nella famosa università. Nel complesso, la prima parte, più convenzionale, funziona meglio in chiave umoristica: esilaranti le scene in cui i nostri sono al servizio come domestici nel corso di un ricevimento. Divertente anche il passaggio in cui trovando impiego da spazzini, sventano in modo fortuito una rapina e si guadagnano, come ricompensa, il viaggio ad Oxford. Nell’Università britannica i nostri sono subito bersaglio delle prese in giro degli studenti veterani e, in questo ambito, lo scherzo del labirinto è abbastanza valido. Naturalmente, mentre Ollio si sobbarca il lavoro faticoso, Stanlio troverà in modo sorprendentemente agevole l’uscita, sebbene poi gestisca la cosa a modo suo. In effetti Stanlio ribadisce, in modo ancora più palese e evidente del solito, il suo ruolo di leader nella coppia quando, colpito alla testa, si immedesima nei panni di un nobilotto locale e prende a maltrattare il povero partner. Nel finale un quanto mai opportuno e ulteriore colpo in testa riporta Stanlio alla sua reale personalità, certamente più simpatica di quella dell’altezzoso aristocratico. Nell’insieme un piacevole lungometraggio.





giovedì 14 maggio 2020

MARIA DI SCOZIA

568_MARIA DI SCOZIA (Mary of Scotland), Stati Uniti 1936Regia di John Ford (e Lesle Goodwins n.a.).

Atipico nella carriera di John Ford (ma del resto pare ci mise mano anche il regista Leslie Goodwins), Maria di Scozia è un film storico biografico nel quale la RKO Radio Pictures profuse un ingente sforzo produttivo. Il set del castello dove è ambientata perlopiù la vicenda venne ricostruito in studio su uno spazio enorme e grandissima cura fu prestata ai vestiti, agli accessori, agli arredi, alle scenografie. Per quanto questo lavoro di ricostruzione immane sia riconoscibile sullo schermo, una certa impressione di rappresentazione teatrale, o comunque artificiosa, rimane ma non è certo un limite dell’opera. Anche perché ben si sposa con lo stile classico e debitore all’espressionismo europeo con cui Ford illumina le sue scene, stilizzando in questo modo tutto quanto il racconto. La storia di Maria di Scozia sarebbe anche interessante, con gli intrighi di potere tra la regina degli Stuart e la cugina Elisabetta I d’Inghilterra, ma Ford non sembra coinvolgersi e coinvolgerci più di tanto. Quindi, se figurativamente il film ha passaggi notevoli, come quelli del processo nel finale, la trama procede un po’ a fatica e non sempre è semplice comprendere i giochi di potere che coinvolgono gli esponenti della nobiltà scozzese. Ma del resto pare che lo stesso regista definì la questione in modo sbrigativo come “una vicenda di gangster come tante altre; come quando le gang di Chicago si scannano per il mercato nero della birra”. E’ vero che Ford non era sempre attendibile, nelle sue dichiarazioni a volte eccessivamente provocatorie o anticonvenzionali, ma più che altro questo suo atteggiamento sembra lasciar intendere una scarsa sintonia col materiale trattato dal suo film. 

Che la lotta per il potere è simile in ogni contesto e in ogni epoca è innegabile, ma la Storia è fatta anche dalla capacità di quei personaggi capaci quasi di ergersi al di sopra della loro semplice natura umana. Se la Stuarda un personaggio del genere lo sia stata, è difficile da dirsi per lo spettatore comune e francamente impossibile vedendo il film di Ford. Quella interpretata da Katherine Hepburn (ancora giovane e fresca) è un’eroina al centro di un complotto mentre è indecisa tra la passione e la ragion di stato, ma a cui manca un po’ di nerbo, di forza, anche se può sembrare strano vista la riconosciuta verve dell’attrice. Purtroppo non basta, per avere un’interpretazione memorabile, una grande capacità attoriale in un contesto sontuosamente ricostruito e ottimamente illuminato: serve almeno un po’ di passione, e quella in Maria di Scozia purtroppo latita. Nel cast vanno ricordati Frederich March (è il conte di Bothwell), e John Carradine (David Rizzo). Moroni Olsen poi è un istrionico John Knox che, non fosse passato alla Storia come lo sciagurato distruttore di opere d’arte oltre che religiose che è stato, potrebbe essere anche una nota di colore. 





Katharine Hepburn






martedì 12 maggio 2020

I COMPAGNI

567_I COMPAGNI , Italia, Francia, Jugoslavia 1963Regia di Mario Monicelli.

Capolavoro di Mario Monicelli, I compagni è un dramma storico, fortemente venato di politica, ma che non rinuncia al lato umoristico tanto caro al maestro riconosciuto della commedia all’italiana. Il titolo è certamente indicativo di una certa matrice politica, ma l’ambientazione storica di fine Ottocento smorza l’eventuale sponda polemica riferita all’attualità. In realtà forse nemmeno molto, se consideriamo che poi il film non ha avuto il successo che, vedendolo oggi, avrebbe meritato: può essere che un titolo così schierato abbia nociuto all’opera, risultando poco appetibile a chi non è di idee di sinistra. Nel caso sarebbe un peccato: quale che siano le idee politiche dello spettatore, l’ambientazione all’inizio della rivoluzione industriale italiana legittima le istanze dei lavoratori mostrati dal film di Monicelli, e la loro richiesta di lavorare “solo” 13 ore non può che apparire oggi largamente condivisibile a chiunque. E’ legittimo pensare che, viste le ardue condizioni dei lavoratori mostrate (perfettamente credibili), l’idea che fosse necessario qualcosa di simile ad un sindacato che desse almeno un minimo di tutela ai dipendenti della fabbrica, sia difficilmente contestabile anche da chi è di sponda politica opposta. Monicelli ha un approccio curioso al tema, perché il professor Sinigaglia (Marcello Mastroianni), l’ideologo che prende il comando teorico della protesta operaia, interviene a pellicola già ben inoltrata e mantiene un atteggiamento che, pur in una buona coerenza delle proprie convinzioni, ogni tanto sembra avere qualche deriva opportunistica. Pur se apprezzabile la verve un po’ surrealista di Mastroianni, non è però il suo personaggio, che galleggia nelle vicende raccontate senza sentirle direttamente sulla propria pelle, ad essere l’elemento più convincente del film. 

Si, d’accordo, è ricercato e si mette nei guai per cause che non lo riguardano in prima persona, non è infatti un operaio della fabbrica; ma è bravo a squagliarsi al momento buono, ad imboscarsi, a trovare l’aiuto di Niobe, la prostituta (Anne Girardot), che gli concede addirittura una notte nel suo letto. No, la forza del racconto è nella fotografia di Giuseppe Rotundo, un bianco e nero invecchiato che ci riporta ai primi tempi del neorealismo; e anche nella cura con cui è descritta la vita quotidiana della fabbrica, mostrata come in un documentario d’epoca. Ma soprattutto nella galleria di personaggi: Bernard Blier è Martinetti, un leader operaio pacato, spesso deciso soltanto nelle riunioni coi colleghi, mentre fortemente intimidito alla presenza dei superiori; 


Folco Lulli è Pautasso, una sorta di don Peppone (quello della saga di Don Camillo di Julien Duvivier), focoso e irascibile, ma anche valoroso;  Elvira Tonelli è Cesarina, un donnone che sa farsi forza più di molti uomini quando c’è da parlare coi padroni; Renato Salvatori è Raoul, bastiancontrario e sempre polemico, ma di quelli su cui si può contare nei momenti importanti; il mitico Giampiero Albertini è Porro, il classico tipo che sta un po’ in disparte, ma è fondamentale nel dare tridimensionalità al gruppo e quindi credibilità al racconto; a Kenneth Kove bastano poi pochi istanti per tratteggiare un padrone vecchio stampo, dispotico e con una sorta di sadismo educato, tipicamente piemontese, come raramente se ne sono visti. Ma ci sono anche i due fratellini che sembrano quelli de Il Posto (di Ermanno Olmi 1961), soltanto molto più giovani, oltre ad una ventenne Raffaella Carrà, in un cast che Monicelli sfrutta mirabilmente per rendere un’opera corale anche da questo punto di vista, sottolineando ulteriormente il tema collettivo del racconto. 

Con personaggi di questo tipo, a cui si uniscono anche macchiette come il bergamasco (Pippo Starnazza) e il siciliano, tipici characters da barzelletta, sulla base di una sceneggiatura alla quale cooperano, oltre al regista, i bravi Age & Scarpelli, il film fila via sparato sorretto da una serie di gag che si alternano a momenti realistici di dura vita operaia o ad autentici passaggi tragici più che drammatici. Anche considerato che tutta quanta la vicenda prende il via da un tremendo infortunio sul lavoro, i colpi di scena traumatici della morte di Pautasso ma soprattutto, nel finale, del fratello maggiore dei due ragazzini, sono mazzate tremende che Monicelli riesce comunque a gestire con perizia e senza scadere nel pietismo di bassa lega. E il finale, con il fratello più piccolo, non più che un bambinetto, che stoicamente prende il posto del maggiore in fabbrica, ci rassicura sul destino dell’Italia, almeno nella sua anima industriale del nord. Perlomeno sul piano produttivo; per le tutele dei lavoratori, per il momento si deve soprassedere. Ma ce n’è di michette da riempire: meglio darsi da fare. 



   
Anne Girardot





Raffaella Carrà