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domenica 11 maggio 2025

I MIRACOLI ACCADONO ANCORA?

1666_I MIRACOLI ACCADONO ANCORA? . Italia, 1974. Regia di Giuseppe Maria Scotese 

Parlandone con Daniele Aramu nell’intervista pubblicata su Mondorama, Scotese, descrive I miracoli accadono ancora? come un “film di grande successo internazionale”. Per la verità I miracoli accadono ancora? è un’opera semisconosciuta di un autore, purtroppo, già a sua volta poco noto. In effetti, la Produzione, in parte americana, aveva permesso al regista e alla troupe di recarsi per tre mesi nella giungla amazzonica, ciononostante, una certa carenza di mezzi è avvertibile guardando il prodotto finito. I miracoli accadono ancora? è una sorta di docufiction ante litteram, un resoconto filmico avventuroso che raccontava la vera storia di una ragazza sopravvissuta ad un disastro aereo e finita nella foresta amazzonica del Perù. Certo, il fatto di raccontare fatti realmente accaduti era tipico anche dei comuni film storici o biografici, ma l’idea di utilizzare alcune delle persone che storicamente vissero quegli eventi, colloca il lungometraggio un po’ fuori dai soliti canoni. A vederla oggi, la pellicola sembra quasi un Cannibal movie, almeno come ambientazione, tuttavia mancano i passaggi più estremi tipici dei film «antropofagi». La cosa più incredibile –in effetti degna di un Mondo movie se non fosse storicamente accertata– è che Juliane Koepcke (Susan Penhaligon) sia sopravvissuta precipitando dall’altezza di 24.000 piedi, oltre 7000 metri[1]. Trattandosi di un passaggio che aveva del clamoroso e non avendo al contempo un budget adeguato ad una resa scenica che provasse in qualche modo a renderlo plausibile, Scotese optò per una sorta di «surrealismo povero». Si vede Juliane che, ancora al suo sedile del volo di linea, precipita, per sparire poi nella chioma degli alberi della foresta: non un granché, come sequenza, ma neppure pretenziosa. Scampata all’impatto, la ragazza sopravvisse ulteriormente una decina di giorni in mezzo alla foresta amazzonica e, in quello che è il corpo centrale del racconto filmico, Scotese si prende i suoi tempi e riesce a creare la giusta atmosfera, alimentata dalla musica di Marcello Giombini. Tra gli interpreti «di ruolo», da segnalare Paul Muller e Graziella Galvani, nei panni dei genitori di Juliane. Per rispondere alla domanda che è presa come titolo per il film, basti dire che la ragazza verrà infine tratta in salvo. Che forse era una risposta legata anche all’intima indole di Scotese, sempre alle prese con temi un po’ scomodi, ma armato di un ottimismo non certo superficiale. 



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Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE


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mercoledì 7 maggio 2025

PATTUGLIA SOTTOMARINA

1664_PATTUGLIA SOTTOMARINA (Submarine Patrol) . Stati Uniti, 1938. Regia di John Ford

Eccellente esempio di film bellico di matrice avventurosa, Pattuglia sottomarina è un film che veniva ricordato con affetto dal suo autore, il grande John Ford. E con ragione: il lungometraggio è divertente e appassionante ed è sorretto anche da una insistita traccia sentimentale. In pratica le tre principali componenti della narrazione, azione, amore e ironia, coabitano in modo sapientemente bilanciato. Ma non nel senso che hanno tutte la stessa valenza o minutaggio a disposizione: ognuna ha uno sviluppo consono alle proprie caratteristiche, come è normale attendersi da un eccezionale narratore quale era Ford. La quota avventurosa, ad esempio, non è affatto presente in modo costante e, per molta parte del lungometraggio, sembra quasi latitare. Il cacciasommergibili al centro del racconto è, infatti, parecchio male in arnese e non è deputato ad azioni di grande rilievo bellico. Ma, nel momento cruciale, quando ci sarà da dare la caccia all’Old Man 26, un sommergibile tedesco, sia la vecchia imbarcazione che la pellicola sapranno farsi valere anche in questo ambito. Siamo nella Prima Guerra Mondiale e al centro della scena c’è Perry Towsend III (Richard Greene), un ricco e viziato rampollo di buona famiglia che viene raccomandato per essere arruolato in marina in qualità di Ingegnere Capo, pur non avendo apparentemente alcuna qualifica nello specifico. Nonostante sia il classico figlio di papà, Perry non è affatto antipatico, (qui si vede l’immensa bravura narrativa di Ford) e quando si innamora di Susan (la bellissima Nancy Kelly) sembra la classica storia d’amore hollywoodiana. E, in effetti, è così; ma Ford allunga sapientemente il brodo frapponendo tra i due il padre di lei, il capitano Leeds (George Bancroft) che non vuole che sua figlia si leghi a quello che crede uno smidollato rampollo raccomandato. La storia sentimentale è quindi tenuta costantemente in sospeso, seppure sia chiaro che abbia un destino scontato: ma, per una ragione o per l’altra, il fatidico giorno del ‘si’ davanti all’altare è sempre rimandato. Il regista gioca consapevolmente su questo fatto, appoggiandosi alla onnipresente sottotraccia umoristica che è la vera colonna vertebrale del film. La scena del matrimonio a Brindisi, dove si ritrovano sia la nave del capitano Leeds, con Susan a bordo, che il cacciasommergibili del tenente Drake (Preston Foster), che ha in forza Perry, è da film comico anche in virtù di Luigi (Herny Armetta), una vera macchietta che ironizza bonariamente sui luoghi comuni degli italiani. Per cui, riassumendo: l’azione rimane latente fino al momento cruciale mentre la traccia amorosa è costantemente tenuta in sospeso, in compenso quella ironica o comica spadroneggia, per un risultato assai gradevole e divertente. Il cast pullula infatti di interpreti adeguati ai vari siparietti che si aprono a bordo della nave (a suo modo) protagonista: Slim Summerville, Jack Pennick, J. Farrell MacDonald, Ward Bond, John Carradine e Elisha Cook Jr. erano tutti volti noti che sapevano come stare davanti alla macchina da presa. John Ford, che era stato in marina, nutriva un grande affetto per i ragazzi che erano arruolati sulle navi e si divertì molto a tributare loro questo Pattuglia sottomarina. Stando alle sue parole (Il cinema secondo John Ford, Peter Bogdanovic, 1990 Pratiche Editore) le scenette comiche vennero improvvisate man mano che la matassa dell’intreccio narrativo si dipanava. Un film semplice, sia nel concepimento che nella realizzazione che nella fruizione; e che, nella sua semplicità, rasenta la perfezione. 




Nancy Kelly



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venerdì 21 marzo 2025

IL RICHIAMO DEL LUPO

1640_IL RICHIAMO DEL LUPO . Italia, Spagna, 1975. Regia di Gianfranco Baldanello

Lo specialista in spaghetti-western di serie B, Gianfranco Baldanello si inserisce nella scia aperta da Lucio Fulci con Zanna Bianca [Zanna Bianca, Lucio Fulci, 1973], per tentare di dare la versione cinematografica italiana de Il richiamo della foresta, altro grande romanzo di Jack London. Azzardarsi infatti a dire che Il richiamo del lupo sia la versione su grande schermo del libro del mitico scrittore americano vorrebbe dire affossare sin da subito le ambizioni del film di Baldanello. Che, se preso come film nel suo complesso, è probabilmente da bocciare, per tutta una serie di grossolanità imperdonabili che bastano, e avanzano, come base critica senza scomodare i paragoni con il capolavoro di London. Anche perché la trama de Il richiamo del lupo pesca un po’ a casaccio tra l’intera opera letteraria dello scrittore, perlomeno quella ambientata nel grande nord americano, senza attenersi ad un testo preciso. Certo, il cane si chiama Buck, proprio come il personaggio principale de Il richiamo della foresta, e anche il finale del film di Baldanello si rifà al libro, con il pastore tedesco protagonista che decide di tornare insieme ai lupi e alla vita selvaggia. Ma questi aspetti rientrano pienamente nella libertà di un adattamento che non ha necessariamente l’obbligo di rispettare alla lettera la fonte di ispirazione. I limiti de Il richiamo del lupo sono quelli classici dei western all’italiana di basso livello –superficialità e pressapochismo diffusi in ogni ambito–amplificati dal fatto che il film è dichiaratamente rivolto ad un pubblico di giovanissimi. In questo senso possono essere un elemento chiave i pellerossa che si vedono in scena, soprattutto nella prima parte del film: hanno un ruolo cruciale e tragico, aggrediscono e uccidono, ma, nonostante questo, non incutono particolare timore. 

In sostanza, più che pericolosi guerrieri, sembrano invitati ad una festa di carnevale in maschera, il che lascia intendere che sia stata una scelta stilistica in linea con il target della pellicola. E, se questo in parte può rendere comprensibile una simile sciatteria, il fatto che si possa pensare ai ragazzi come spettatori tanto ingenui, quando si era ormai a metà degli anni 70, rappresenta bene la miopia degli autori del film. In ogni caso, gli spettacolari scenari (Messico e Spagna le location) e la musica classicheggiante in ambito western (Stelvio Cipriani), sorreggono la prima parte del racconto: insieme al loro cane Buck, Jim (Fernando E. Romero), un ragazzino di una decina d’anni, e sua sorella Mary (Elisabetta Virgili), rimasti orfani in mezzo alle montagne innevate dello Yukon ai tempi della corsa all’oro, stanno cercando di andare a Dawson. L’incontro con i fratelli John (Manuel de Blas) e Hank Mckenzie (Remo De Angelis), permette loro di arrivare sani e salvi nella cittadina di frontiera. Qui entrano in gioco gli assi del cast: Jack Palance è William Bates, padre e padrone del paese, e Joan Collins è Sofia Kendall, una cantante da saloon. Da questo punto in poi Il richiamo del lupo è un tipico spaghetti-western dove i buoni –i ragazzini, il cane e il sopravvissuto dei McKenzie, John– si oppongono alla prepotenza di Bates. Sofia, che lavora in un locale di proprietà di Bates, si schiera con i nuovi venuti, intessendo una relazione con l’aitante John. Palanche recita con sufficienza che, tuttavia, non guasta nemmeno troppo, visto che per una canaglia del calibro del suo personaggio, i rivali d’occasione dovevano sembrare poca cosa. Benissimo la Collins che, visto il ruolo, può cambiare abito ad ogni passaggio narrativo sfoderando la proverbiale eleganza scenica. Se tra i pizzi dei vestiti da ballerina è perfettamente calata nel contesto, appare fuori luogo la raffinata pelliccia che indossa quando si avventura alla ricerca di John tra le nevi delle montagne. In ogni caso, le immagini che la vedono sullo schermo, a partire dalla sua entrata in scena con la camicia in pizzo bianco, sono ciò che rende almeno un minimo degno di nota Il richiamo del lupo.  



Joan Collins 


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mercoledì 5 febbraio 2025

LA LIGNE D'OMBRE

1618_LA LIGNE D'OMBRE . Francia1973. Regia di Georges Franju

Tre anni dopo L’amante del prete tratto da Emile Zola, George Franju prende in mano un testo di Jospeh Conrad per il suo nuovo lungometraggio. Quello in progetto è un lavoro televisivo dal budget assai modesto, dal momento che la carriera cinematografia del regista bretone è ormai segnata. Rimasto escluso dalla Nouvelle Vague, la nuova corrente che ha infiammato nel decennio precedente il cinema francese, Franju avrebbe meritato ben altra considerazione dai produttori ma nel 1973 si deve accontentare di lavorare per la televisione. La ligne d’ombre è un racconto di formazione, se vogliamo così dire, nel quale Conrad racconta del primo incarico di un giovane capitano. Il viaggio si rivela particolarmente duro, l’equipaggio subisce un’epidemia di febbre tropicali e il vascello rimane in preda a lungo della bonaccia, tanto che riaffiora il timore che la maledizione del vecchio capitano stia sortendo i suoi effetti. Al termine di questo calvario, il protagonista potrà ben dire di aver superato la propria linea d’ombra e di essere pronto per affrontare nuove sfide stavolta in modo più preparato. La necessità di Franju di rivolgersi a testi già pronti risultava dalla sua dichiarata incapacità di raccontare: il bretone era un regista di visioni e le storie erano pretesti per poter dare forma sullo schermo alla propria immaginazione in proposito. La prosa di Conrad, per quanto questi fosse uno scrittore moderno, è particolarmente difficile da adattare per lo schermo, in quanto verte su personaggi di grande spessore interiore e quindi non semplici da rappresentare. Nell’originale, il nome del capitano protagonista è omesso, tanto che viene naturale interpretare il testo come autobiografico identificandolo con Conrad; nell’adattamento di Franju prende invece il nome di Marlow (Jean Babilée) ha significare invece un distinguo tra chi narra e chi agisce nel racconto. Ma non è soltanto questa l’unica modifica che il regista bretone introduce, smentendo in parte la sua stessa affermazione di non essere in grado di inventare racconti. Tra le novità rispetto al racconto, nel film di Franju troviamo gli ambigui fratelli Jacobus, Alfred e Ernest (interpretati dal medesimo attore, Kurt Grosskurth), il commercio delle patate e, soprattutto, la figlia di Alfred, Alice (Jaqueline Parent). Nonostante il nome potesse al massimo rimandare al noto romanzo di Lewis Carroll (Alice nel paese delle meraviglie) la ragazza è protagonista di un inserto sognante che ricorda Cenerentola, evocata esplicitamente nella scena della scarpetta dove il feticismo latente di Franju fa di nuovo la sua comparsa. La fiaba di Perrault è tra l’altro citata nel discorso di commiato del capitano Mearlow che si appresta a salpare, mentre saluta il capitano Gilles (Tino Carraro, inappuntabile come suo solito). L’offerta irrinunciabile di Gilles, attraverso la quale Mearlow si ritrova in un batter d’occhio capitano d’una nave, è paragonata alla carrozza che magicamente appare dinnanzi a Cenerentola. A volte si è faticato a comprendere la definizione che venne data al cinema di Franju, realismo fantastico, e qui possiamo averne un bell’esempio. Le premesse sono di fantasia – quale armatore affiderebbe una nave per un viaggio così impegnativo ad un inesperto capitano? – ma la successiva realizzazione è particolarmente realistica, con il cigolio perpetuo del veliero che non ci abbandona mai. Inoltre, non soddisfatto del fantasma del capitano morto, quello evocato dal racconto dal secondo di Mearlow, Burns (Roger Blin), che aveva maledetto la nave, introduce quello di Alice. Il mazzo di fiori del giardino dei Jacobus è innaffiato con cura dal cuoco Ransome (Luis Masson) e rievoca costantemente la breve storia sentimentale tra il capitano Mearlow e Alice. Il cuoco si prende così la briga di incarnare la presenza positiva all’opposto del secondo Burns, che in qualche passaggio rievoca addirittura il Nosferatu di Murnau, tanto da spaventare gli ispettori che salgono a bordo quando la nave arriva a destinazione. Del resto appare evidente che, a livello narrativo, Burns avesse messo gli occhi sul posto di capitano, poi soffiatogli d’improvviso da Mearlow: ancora un bel accostamento tra il realistico senso di invidia e gelosia professionale, e il fantastico, nel richiamo alla maledizione del vecchio capitano unita ad un aspetto poco rassicurante del secondo. E’ comunque Burns a chiudere in un certo senso la questione, svincolando la nave, e di conseguenza il suo capitano, da queste ombre che vi aleggiano sopra. Burns prima getta in mare la custodia del violino del vecchio capitano, e con lei la presunta nefasta influenza di questi; poi, per chiudere il conto, butta nell’acqua del porto anche i fiori di Alice, del resto ormai appassiti. Il capitano, il suo capitano, è ora davvero pronto per un nuovo viaggio: le linee d’ombra sono ormai alle sue spalle. E se quella del vecchio capitano, ereditata direttamente dal romanzo di Conrad, può interpretare la paura di affrontare la vita, quella di Alice, introdotta da Franju, riguarda la sfera sentimentale. L’idealizzazione dell’amore – l’eccessivo rilievo dato ad un breve incontro, la cui effimera consistenza è ben simboleggiata dal mazzo di fiori recisi destinati ad appassire – è un’altra ombra da cui ci dobbiamo liberare. 



Al cinema di Georges Franju Quandolacittàdorme ha dedicato ENIGMA FRANJU - IL CINEMA DI GEORGES FRANJU 




domenica 25 agosto 2024

BUTCH CASSIDY

1535_BUTCH CASSIDY (Butch Cassidy and the Sundance Kid) . Stati Uniti 1969; Regia di George Roy Hill.

Sui titoli di testa scorrono immagini color seppia, quando una didascalia ci avverte che “i fatti narrati in questo film sono quasi tutti veri”. «Quasi». Il racconto filmico comincia e siamo ancora in una sorta di bianco e nero: e quello che vediamo di credibile ha ben poco. Va bene che Sundance Kid (Robert Redford) sarà stato anche rapido con la pistola, però quello che combina al giocatore che gli chiede se era davvero veloce nel tirare, beh, va subito ad alimentare il dubbio che quel «quasi» della didascalia sia stato una dichiarazione strategica. Finita la scena della partita a carte, i due protagonisti – insieme a Sundance Kid c’è naturalmente Butch Cassidy (Paul Newman) – lasciano il saloon e il film, poco a poco, vira sul «colore». Una scelta stilistica assai singolare, ma forse si tratta del modo in cui il regista vuole comunicare l’intenzione di smarcarsi dalla ricostruzione storica conosciuta – già abbastanza romanzata di per sé – per raccontarci una sua versione. Per farlo si affida ad una coppia di attori di prim’ordine – Paul Newman e Robert Redford, ça va sans dire tra l’altro in particolare stato di grazia, che ben presto ci lasciano capire che il film è tutto tranne che una ricostruzione, anche solo «quasi» realistica. Pur se il genere della pellicola è certamente il western, il tono è quello di una ballata – nel senso di un’opera più scanzonata – sorretta dalla simpatia dei due protagonisti, banditi da operetta che non vogliono rassegnarsi alla fine dell’epopea del far west. Il film uscì nel 1969 e gli echi rivoluzionari del tempo permeano la storia, che però si mantiene leggera, tutt’al più malinconica ma certamente non militante. La confezione è di gran lusso: alcune scene, quella della bicicletta o l’ossessivo inseguimento della posse, sono notevoli; il finale, poi, è di grande impatto e il fermo immagine finale è un capolavoro. In sostanza il film vive di alcuni momenti topici, mentre i frizzanti dialoghi e la simpatia dei protagonisti amalgamano il tutto. 

Anche il commento sonoro rafforza questa idea: la canzone Raindrops Keep Fallin' on My Head è formidabile, sebbene suoni un po’ estranea al resto della pellicola. L’uso della bicicletta, Butch che indossa una bombetta, il tipo di bellezza di Etta (Katharine Ross), la musica, insomma tutta quanta la messa in scena, sembra anni luce da un qualsiasi western, anche il più revisionista o crepuscolare. Ed è proprio questo essere fuori luogo, proprio anche del film nel suo complesso, ad essere in sintonia con le figure dei protagonisti, eroi ormai superati che non si vogliono arrendere alla fine della propria epoca: in definitiva è questo lo spirito della pellicola. In questo senso l’operazione di George Roy Hill potrebbe sembrare curiosa: il film a prima vista può sembrare permeato del disagio giovanile sessantottino, ma i due protagonisti sono inadeguati in quanto legati a vecchi sistemi di vita, per cui è un disagio di natura non solo diversa, ma addirittura opposta a quello militante. Non è quindi politico il rifiuto verso la società, da parte di Butch e Kid, ma semplice voglia di libertà, rifiuto di ogni tipo di vincolo o responsabilità, come ben evidenziato dalla proposta dei due allo sceriffo: condono di ogni pena in cambio dell’arruolamento in guerra contro la Spagna. La bellezza del film consiste anche nella sua consapevolezza: l’insofferenza, l’incapacità dei protagonisti è mostrata sempre senza speranza, senza vie di salvezza. Simbolicamente, Kid e Etta non vanno mai verso la composizione di un nucleo famigliare – che al cinema, vedi il tipico «lieto fine» romantico, indica una luce prospettica ottimista – perché Butch rimane sempre nei paraggi come forza potenzialmente in grado di scombinare il rapporto. Nel finale, la ragazza abbandona il duo per tornarsene a casa, non prima di aver preannunciato la tragica fine dei suoi amici. La composizione all’apparenza poco armonica dell’opera – con le foto seppiate che ritornano durante il viaggio in Bolivia, ad esempio, rendendo l’aspetto formale del film poco omogeneo – è quindi funzionale ad una storia che mostra il disagio dei due protagonisti, personaggi fuori tempo e fuori luogo che non sanno dove andare e non seguono una direzione precisa. 
Un film leggero, poco impegnato, dunque? Anche. Ma, forse, in piena rivoluzione sessantottina, il Butch Cassidy di George Roy Hill fu la dimostrazione che si poteva uscire dagli schemi del conformismo borghese, senza necessariamente finire inglobati in quelli della contestazione.  





Katharine Ross 




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sabato 29 giugno 2024

LA GUARDIA NERA

1505_LA GUARDIA NERA (The Black Watch). Stati Uniti 1929; Regia di John Ford.

Stando a quanto disse John Ford, il film La Guardia Nera venne modificato dopo che il regista aveva abbandonato la produzione. Sempre secondo l’autore, vennero aggiunte delle scene d’amore tra la bellissima Myrna Loy (la divina Yasmani) e il Capitano King (Victor McLaglen); scene che Ford giudicò inutili, lunghe e orribili (“mi venne da vomitare quando le vidi” per citare le parole con cui concluse il suo commento a riguardo). Ora, quelle che probabilmente sono le scene in questione, effettivamente non funzionano: la Loy è meno affascinante del solito (ma non dal punto di vista estetico, laddove è stupenda), mentre McLaglen è decisamente ingessato. Il punto è che, nonostante l’enorme stima verso il gigante del cinema che era John Ford, va detto che il produttore Winfield Sheehan probabilmente non aveva tutti i torti: la storia de La Guardia Nera era troppo scarna. Poi, d’accordo l’attore Lumsden Hare, che nel film interpreta il colonnello della Guardia Nera, era a malapena un attore e non certo un regista, e affidargli la direzione delle scene aggiuntive non fece che peggiorare le cose. Ma è un dato certo che La Guardia Nera è un film tuttora troppo esiguo come sostanza. Ford lascia il segno, è chiaro, e in ogni caso anche Myrna Loy è assolutamente memorabile; già McLaglen appare a disagio in una trama in cui dovrebbe far ricorso ad un carisma da star che, purtroppo per lui, non ha mai avuto. Tra i motivi di interesse del film vanno certamente ricordati i passaggi musicali a cui, evidentemente, Ford, alle prime armi col sonoro, non vedeva l’ora di ricorrere. In effetti, in rapporto alla durata del film e soprattutto all’intreccio, appaiono perfino eccessivi: nel tempo il regista riuscirà a dosare meglio l’apporto della musica, soprattutto nell’ambito dei suoi film imperniati sui corpi militari. Naturalmente l’ironia, presente anche se non in dosi non così massicce, è anche stavolta un altro elemento tipico di Ford, in questo caso impersonata principalmente nel combattente musulmano che chiede perdono ad Allah per la violenza che ha commesso immancabilmente appena prima di commetterne un’altra. C’è un po’ di mancanza del cosiddetto politicamente corretto, è evidente, e la schiettezza del regista americano è un’altra freccia all’arco del film, si veda come esempio la scena finale in cui i nostri si piazzano con le mitragliatrici contro l’avanzare dei ribelli armati unicamente di spade. Vero è che il capitano King riesce addirittura a convincere la guida dei rivoltosi, la divina Yasmani, ad ordinare la resa, per evitare inutili spargimenti di sangue. Ma qui c’è un’altra pennellata di pragmatico realismo di Ford, nella reazione dei mussulmani ribelli che, a fronte di un ordine che per una volta non li sproni alla guerra, decidono addirittura di eliminare quella che fino ad allora era stata trattata da loro come una vera dea. Molto evocativa la scena del successivo attacco dei bellicosi insorti tra i fasci di luci a moltiplicarne le ombre; un espediente tecnico dovuto, sempre secondo Ford, alla carenza di comparse, che dà luogo ad una raffinata rappresentazione. Più ordinarie le scene degli scozzesi impegnati nelle Fiandre; anzi, si potrebbe anche ritenerle sotto ad uno standard accettabile anche per l’epoca. Insomma, non ci siamo eppure qualcosa da salvare c’è, ne La Guardia Nera. Myrna Loy e tutto il suo esotico fascino in primis.








Mirna Loy 






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