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venerdì 15 agosto 2025

IL MANGIATORE DI PIETRE

1714_IL MANGIATORE DI PIETRE , Italia, Svizzera 2018. Regia di Nicola Bellucci 

Il mangiatore di pietre è una sorta di opera prima, in quanto è l’esordio nel cinema di finzione di Nicola Bellucci, in precedenza già montatore, direttore della fotografia e regista di apprezzati documentari. Di per sé questo non deve essere motivo di particolare indulgenza, nei confronti di presunte lacune o difetti del suo film, ma considerato le scelte anche coraggiose di Bellucci, si può sospendere il giudizio su ciò che lascia perplessi, almeno fino ad un’eventuale ulteriore prova del regista toscano, e apprezzare quanto di buono c’è ne Il mangiatore di pietre. Dice, a proposito del suo film, lo stesso Nicola Bellucci: “Sono state le forti sensazioni suscitate in me dalla lettura del romanzo di Davide Longo (autore dell’omonimo libro preso a soggetto, NdA) a convincermi di voler realizzare Il mangiatore di pietre. Nella storia del «mangiatore» si rivelano i lati opachi delle cose, la duplicità dell’agire umano che mi affascina e spaventa, e che da tempo volevo cinematograficamente raccontare, arrischiandomi in un territorio affascinante e pericoloso, quello tra romanzo di formazione e film di genere. Il confine, territorio di mezzo, indeterminato e ambiguo: linea reale, convenzionale o culturale, che separa, sempre, ciò che è altro da sé è il luogo simbolico per eccellenza di questo film». [dal sito del Torino Film Festiva, pagina web https://www.torinofilmfest.org/it/36-torino-film-festival/film/il-mangiatore-di-pietre/36184/, visitata l’ultima volta il 7 agosto 2025]. È proprio il senso di indeterminatezza, di vaghezza, che traspare da Il mangiatore di pietre, l’elemento migliore del film di Bellucci. E quindi hanno probabilmente ragione i recensori che si trovano in rete, un po’ scettici nei confronti della struttura gialla dell’intrigo del racconto, che non sembra effettivamente irresistibile. Ed è vero che, soprattutto dopo la prima parte, con il paesaggio montano, grigio, freddo, molto evocativo, che legittima uno sviluppo più robusto del canovaccio di finzione, ci si ritrova poi per le mani una storia che effettivamente rischia di non decollare mai. 

Ma, forse, anche questa perenne stasi, questa sostanziale attesa per qualcosa che non si traduce in nulla di concreto –le indagini della commissario Sonja (Ursina Lardi), la corruzione del maresciallo Boerio (Leonardo Nigro), il ruolo della malavita e del boss Antonio (Peppe Servillo)– è parte di questa ambientazione sospesa. Un film irrisolto che fa di questo la propria cifra stilistica: è accettabile? Lo si è detto, a questo punto si può sospendere il giudizio su questo aspetto, in fondo non si devono avere per forza tutte le risposte, o almeno non subito. In ogni caso: il film ha certo dei pregi, ad esempio la prestazione di Luigi Lo Cascio nel ruolo di Cesare detto il Francese, il «passeur» protagonista, e del cast nel suo complesso. Ed è interessante anche come il racconto si relazioni a questa attività, il «passeur», sorta di traghettatore oltreconfine di clandestini, professione illegale e certamente discutibile in linea di principio. Sergio (Vincenzo Crea), che ci si improvvisa e alla domanda di Cesare sul perché si impicci in simili affari, risponde con una battuta ad effetto: “qualcuno lo deve pur fare”. Una frase da cinema, detta poi da uno sbarbatello alle prime armi, che suona quindi ulteriormente posticcia. Il traffico di esseri umani è sempre da condannare ma occorre anche mettersi nei panni dei migranti, che hanno esigenze e necessità così disperate e lontane anni luce dai regolamenti sanciti dai confini del nostro mondo. Nel caso specifico, poi, ci sono questi disperati immigrati dall’Africa, nascosti in una baita d’alta montagna, in attesa di essere condotti dal passeur incaricato oltreconfine, in Francia. Il problema è che il contrabbandiere in questione è Fausto (Emiliano Audisio), il figlioccio di Cesare, che è appena stato ucciso e sul suo omicidio verte la trama gialla del film. Intanto, però, i poveri migranti rischiano di morire di fame e di freddo. 

E qui subentra la coscienza di Sergio che, a differenza di quanto consigliatogli da Cesare, non chiama i carabinieri ma cerca di salvare questi poveri disgraziati, arrivando anche a rubare, per far loro qualcosa da mangiare. Evidentemente c’è la necessità di ribadire, da parte degli autori, che non è possibile restare dentro i confini della Legge. Diego chiede aiuto a Cesare, che conosce a menadito i passi alpini per farla in barba alle autorità di frontiera, ma il Francese non ne vuole sapere, è appena uscito di galera, era stato beccato ma non aveva tradito i suoi complici, e ora si trova coinvolto in un’altra bega, l’omicidio di Fausto, e tanto gli basta. La vicenda ha altri protagonisti, importanti per la soluzione del giallo, ma quello che conta è che poi, alla fin fine, Cesare darà retta a Sergio. Perché? Ma perché certi lavori qualcuno deve pur farli, che domande. È una motivazione sufficiente? Mah, difficile dirlo. C’è sempre qualcosa di sfuggente, ne Il mangiatore di pietre, come ad esempio nella scenografia, tanto che sembra un film ambientato negli anni 80 se non fosse per l’unica nota stonata rappresentata dagli smartphone. E, forse, è proprio in questa direzione che va cercata la soluzione al quesito che Cesare sottopone alla commissario sul perché la poliziotta non risponda mai al suo cellulare. La donna alla fine risponde al suo smartphone e il presunto mistero si squaglia come neve al sole. Un po’ come una vicenda che racconta di onore, forse malriposto, ma anche di altruismo e di coraggio, che poi si scopre abbia il suo centro in una banale questione di corna. Ma questa è la storia di un «passeur», una storia di confine. 





Ursina Lardi 





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giovedì 31 luglio 2025

ADDIO MIA BELLA SIGNORA

1706_ADDIO MIA BELLA SIGNORA , Italia 1954. Regia di Fernando Cerchio

Il titolo del film del bravo Fernando Cerchio Addio mia bella signora, riecheggia la famosa canzone risorgimentale Addio mia bella addio (1848, di Carlo Alberto Bosi) che, in effetti, nella pellicola viene intonata un paio di volte. Il racconto filmico è, infatti, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale e i temi patriottici erano quindi pertinenti; una scelta condivisibile, visto che, al cinema, non c’è niente di meglio della musica per creare la giusta atmosfera. Per altro quello di Cerchio è un melodramma, di quelli tosti degli anni cinquanta, e quindi, ecco che ancora più importante del pezzo patriottico citato è la canzone Addio mia bella signora (a volte indicata come Addio signora, in questo caso cantata da Giacomo Rondinella stando ai titoli di testa del film o da Elio Mauro secondo il sito IMDb). La questione della canzone non è secondaria in quanto il pezzo divenne celeberrimo (riproposto, tra gli altri, nel corso degli anni da Gino Tajoli e da Claudio Villa) e nel film è usato magistralmente da Cerchio come effetto trainante. Sulle struggenti note della canzone melodica, le scene romantiche tra Cristina (un’elegante Alba Arnova) e Guido (Armando Francioli) sono girate con stile calligrafico impeccabile dal regista, quasi un videoclip dal sapore impressionista, ma il nocciolo della questione è altrove. Cristina, infatti, è già sposata con il colonnello Riccardo Salluzzo (un monumentale Gino Cervi), uomo decisamente più attempato della giovane moglie. La Grande Guerra è scoppiata e il colonnello è partito per il fronte; a badare alla lussuosa magione è rimasto il suo attendente Giuseppe (un altrettanto monumentale Nino Pavese) troppo anziano per svolgere il suo ruolo in prima linea. Guido aveva adocchiato Cristina prima che questa si sposasse ma aveva dovuto desistere di fronte al matrimonio della ragazza. Ora però, col marito assente, complice alcune amicizie comuni (tra cui val la pena citare Marco interpretato da un già pimpante Franco Fabrizi), il giovanotto poteva tornare a fare il cascamorto con la giovane sposa. Qui c’è un passaggio cruciale nell’economia della disputa morale che scaturirà dalla torbida storia (del resto si tratta di un melò strappalacrime): Clara (Laura Gore) invita Cristina ad una festa in onore dei volontari universitari quando il colonnello non è ancora partito per la guerra. Alla festa la ragazza incontra nuovamente Guido che subito coglie al volo l’occasione per corteggiarla; ben sapendo che questa è una donna sposata. 

Poi, certamente quello tra Cristina e il colonnello non era un matrimonio di cuore, diciamo così, e la ragazza non era felicemente innamorata del marito; ma la scorrettezza di Guido, il suo tempismo opportunista, rimane evidente. Anche perché, pur proclamandosi volontario universitario, mentre il colonnello è in prima linea il giovane si guarda bene dall’arruolarsi e pensa a fare la bella vita con Cristina e gli amici. La situazione di idillio temporaneo, in quanto è evidente che prima o poi lo spasso finirà, è interrotta da un colpo di scena: dal fronte arriva la notizia che il colonnello è morto. Cristina, dimostrando un certo spessore morale, è turbata dai suoi sentimenti, dalla sua irrefrenabile gioia che sovrasta il pur timido dispiacere per la morte di un marito che, seppur sia sempre stato buono nei suoi confronti, non ha mai amato. Di ben altra pasta è fatto Guido che invece minimizza gli scrupoli e la sprona ad un deciso cambio di passo, ora che è libera dai precedenti vincoli. Per festeggiare il natale e la decisione di sposarsi, niente di meglio che andare in campagna con gli amici: quando giunge un’altra notizia dal fronte, che ribalta nuovamente la situazione. Il colonnello non è morto, è tornato mutilato agli arti inferiori. Cristina, sentendosi colpevole, rivede i suoi programmi ma Guido non molla e minaccia di rivelare al marito della loro tresca se non ci penserà la ragazza a chiarire la questione. Il torbido drammone è ben strutturato con i giusti incastri narrativi e il colonnello arriva a conoscere la verità e gioca d’anticipo mettendo sotto muto ricatto morale la moglie, in una situazione che si fa sempre più tesa. Guido scalpita, Cristina è insofferente, il colonnello istiga sornione: notevole la condotta in regia di Cerchio. Poi, quando la tensione arriva all’acme, è il vecchio militare a fare un passo indietro. Mentre Guido si è finalmente deciso ad arruolarsi pur di smuovere Cristina dal suo stallo, e la ragazza ormai ha ceduto, il colonnello medita il suicidio per farsi da parte. Giuseppe, figura sempre presente e incaricata di facilitare gli snodi della trama, se ne accorge per tempo e avverte Cristina. La donna, vedendo che l’anziano marito è pronto a togliersi la vita pur di non ostacolarne la felicità, decide di dare corpo alle parole della canzone che dà il titolo al film, lasciando Guido ad attenderla inutilmente al solito appuntamento. Il melodramma, genere che spesso ha una forte matrice morale, è quindi compiuto: i personaggi, in un modo o nell’altro, finiscono per fare il proprio dovere. Il colonnello ha lasciato le gambe, per compierlo; Cristina rinuncia all’amore, per rispettare il suo legame col marito. E Guido, sebbene è legittimo dubitare del suo reale intento, partirà con i bersaglieri. Poco male; sentito o meno che sia, dovrà farlo di corsa.    




Alba Arnova 



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martedì 3 giugno 2025

BUTTERFLY VISION

1678_BUTTERFLY VISION (Bachennya metelyka), Croazia, Repubblica Ceca, Svezia, Ucraina 2023. Regia di Maksym Nakonechnyi

Dopo circa un’ora di film, Lilya (Rita Burkovska), la protagonista di Butterfly vision, in mimetica da guerra, arriva a Troitska Ploshcha, un’area aperta nei pressi dello Stadio Olimpico di Kyiv. Lo spiazzo è caratterizzato da una serie di linee convergenti verso il centro, un disegno geometrico formato dalle mattonelle della pavimentazione. Dall’alto, la piazza sembra quasi una sorta di mirino: e, in effetti, è stata colpita con una bomba proprio al centro, proprio al crocevia delle linee. Nella loro opera distruttrice, gli aggressori non si sono peraltro limitati a questo sberleffo quasi umoristico, come si può vedere dando una rapida occhiata in giro: palazzi ed edifici, stadio olimpico compreso, portano i pesantissimi segni dei bombardamenti.  È una delle «visioni della farfalla» a cui si riferisce il titolo, e la farfalla in questione è naturalmente Lilya che, infatti, sotto le armi aveva il nome di Butterfly, farfalla, appunto. Queste visioni apocalittiche sono legate, naturalmente, allo stato di guerra del paese, ma, in modo più specifico, alla diretta esperienza avuta dalla ragazza, durante il suo servizio nell’esercito, in qualità di ufficiale nella ricognizione aerea militare. Lilya, nel Donbas, è stata catturata dai separatisti, tenuta incarcerata una decina di mesi e poi rilasciata nell’ambito di uno scambio di prigionieri: durante la detenzione è stata torturata e stuprata. I controlli medici a cui viene sottoposta dopo la liberazione stabiliscono che è rimasta incinta. Il marito, Tokha (Valivots Liubomyr), non accetterà mai la cosa, che la stessa donna, ovviamente, non è che riesca a gestire con disinvoltura. L’ipotesi di un aborto è presa in considerazione, ma non è una cosa che si possa decidere così, a cuor leggero.  Il che non rende certo felice il marito, un veterano ora aggregato ad una milizia ultranazionalista le cui operazioni non sono del tutto edificanti: in un raid contro un campo rom, ci scappa un morto tra gli inermi civili. Tokha, insieme ai suoi degni colleghi, è sottoposto a processo ma viene rilasciato quando si scopre che sua moglie, l’eroina appena rilasciata dopo una lunga prigionia, è incinta. Uno youtuber filorusso insinua però qualcosa a proposito di questa gravidanza e Tokha non regge oltre, mettendo tragicamente fine alla sua vita. Intanto, Lilya, pur tra mille travagli, ha infine partorito una bambina, ma decide di non tenerla e la lascia in affido ad una famiglia. Poi si reca allo Stadio Olimpico di Kyiv: le linee della vicina piazza convergono verso il punto centrale, intonse, e li vi si uniscono. Si uniscono esattamente come potevano essere unite la sua vita, quella di suo marito e quella dei loro ipotetici figli. La sua visione, la Butterfly vision, è stata davvero profetica, la guerra ha distrutto la sua famiglia: lei all’estero, il marito morto suicida, la figlia in adozione. 

La paura maggiore, negli ucraini, è quella di venire letteralmente cancellati dall’aggressione russa, e il film di Maksym Nakonechnyi è un valido esempio di questo diffuso timore. La famiglia della protagonista è smembrata, sparpagliata, disonorata, anche chi sopravvive è costretto ad emigrare, come Lilya e sua madre; e la piccola bambina è adottata da una coppia –che parla in inglese, il che lascia supporre non si tratti nemmeno di ucraini– che spera comunque di andarsene all’estero a breve. Nel complesso Butterfly vision è un film che propone alcuni temi importanti con un’estetica poco formale, al punto che spesso sembra di essere di fronte ad un documentario o uno degli ibridi con cui il cinema ucraino sta proponendo spesso la guerra russo-ucraina. Formati diversi, come la scena del citato youtuber o le immagini viste dalla soggettiva di un drone di ricognizione, si alternano al normale flusso video; ma anche le immagini tradizionali, sono prese senza le tipiche attenzioni della regia, proprio come capita in un filmino amatoriale. Le visuali dall’alto sono spesso accostate a quelle dell’ecografie, un rimando al tema portante del racconto; queste «visioni della farfalla» sono introdotte da veloci disturbi del flusso video, definiti in genere «glitch», a significare la distorsione della realtà per far spazio appunto a flash di disparate fonti, come anche il subconscio o i traumatici ricordi della protagonista. L’idea di utilizzare il glitch come strumento di montaggio, rimanda direttamente a This rain will never stop [This rain will never stop, Alina Gorlova, 2020] di cui Nakonechnyi era stato produttore. Il regista è un progressista convinto e nel film si può osservare la sua ferma denuncia a quei fenomeni effettivamente presenti in Ucraina, con la destra radicale intollerante nei confronti di minoranze etniche quali Rom o di altro tipo, come omosessuali, lesbiche e transgender. Eppure è grazie a lui, oltre che alla co-sceneggiatrice Iryna Tsilyk – apprezzata regista di The Earth is blue as an orange [The Earth is blue as an orange, Iryna Tsilyk, 2020]– se abbiamo uno sguardo sulla questione dell’aborto meno arroccato su posizioni pregiudiziali di quanto siamo abituati a vedere. Nel racconto del film, non è ben chiaro quale sia l’orientamento politico di Lilya: è un militare, certo, ma si occupa di ricognizioni aeree, il che, simbolicamente, potrebbe essere inteso come la caratteristica di chi cerca di guardare meglio, per farsi un’opinione. C’è un accenno al Maidan, le proteste note come Euromaidan, che avevano, tra le altre correnti che le animarono, una forza progressista nel senso che diamo noi in occidente al termine; inoltre, la ragazza si mostra sconvolta quando scopre che il marito e i suoi camerati hanno ammazzato un civile nell’incursione al campo rom. Più semplice inquadrare Tokha, che fa volontariamente parte di una milizia squadrista di evidente matrice fascista e ultranazionalista. Eppure, tra i due, è proprio l’uomo a reagire più negativamente alla notizia che la moglie sia rimasta incinta in seguito allo stupro da parte dei secessionisti, e a caldeggiare l’aborto. Per essere onesti, la posizione di Lilya nel merito non è così definita, del resto si tratta di una persona fortemente traumatizzata e le sue reazioni o decisioni sono quindi influenzate da questo stato. O, forse, è proprio la sua visionarietà, a permetterle di avere uno sguardo di insieme che rivela tutti gli aspetti della questione, rendendo una decisione simile davvero dolorosa, almeno da un punto di vista etico e morale; in ogni caso impossibile da prendere per partito preso. Questo quadro è, in concreto, l’opposto di quello a cui siamo abituati ad ascoltare, nel dogmatico racconto della nostra élite culturale: qui il reazionario è favorevole all’aborto, mentre la persona di prospettive più ampie si pone almeno qualche dubbio. Ma, forse, in questa considerazione c’è almeno un errore: d’accordo su come siano inquadrati i conservatori, ma sono davvero persone aperte al dubbio, al confronto, i cosiddetti progressisti? Anche quando si toccano i loro insindacabili dogmi?   




    LA STUDENTESSA E L'ORSO è uno studio sulla guerra russo-ucraina attraverso il cinema. 



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domenica 11 maggio 2025

I MIRACOLI ACCADONO ANCORA?

1666_I MIRACOLI ACCADONO ANCORA? . Italia, 1974. Regia di Giuseppe Maria Scotese 

Parlandone con Daniele Aramu nell’intervista pubblicata su Mondorama, Scotese, descrive I miracoli accadono ancora? come un “film di grande successo internazionale”. Per la verità I miracoli accadono ancora? è un’opera semisconosciuta di un autore, purtroppo, già a sua volta poco noto. In effetti, la Produzione, in parte americana, aveva permesso al regista e alla troupe di recarsi per tre mesi nella giungla amazzonica, ciononostante, una certa carenza di mezzi è avvertibile guardando il prodotto finito. I miracoli accadono ancora? è una sorta di docufiction ante litteram, un resoconto filmico avventuroso che raccontava la vera storia di una ragazza sopravvissuta ad un disastro aereo e finita nella foresta amazzonica del Perù. Certo, il fatto di raccontare fatti realmente accaduti era tipico anche dei comuni film storici o biografici, ma l’idea di utilizzare alcune delle persone che storicamente vissero quegli eventi, colloca il lungometraggio un po’ fuori dai soliti canoni. A vederla oggi, la pellicola sembra quasi un Cannibal movie, almeno come ambientazione, tuttavia mancano i passaggi più estremi tipici dei film «antropofagi». La cosa più incredibile –in effetti degna di un Mondo movie se non fosse storicamente accertata– è che Juliane Koepcke (Susan Penhaligon) sia sopravvissuta precipitando dall’altezza di 24.000 piedi, oltre 7000 metri[1]. Trattandosi di un passaggio che aveva del clamoroso e non avendo al contempo un budget adeguato ad una resa scenica che provasse in qualche modo a renderlo plausibile, Scotese optò per una sorta di «surrealismo povero». Si vede Juliane che, ancora al suo sedile del volo di linea, precipita, per sparire poi nella chioma degli alberi della foresta: non un granché, come sequenza, ma neppure pretenziosa. Scampata all’impatto, la ragazza sopravvisse ulteriormente una decina di giorni in mezzo alla foresta amazzonica e, in quello che è il corpo centrale del racconto filmico, Scotese si prende i suoi tempi e riesce a creare la giusta atmosfera, alimentata dalla musica di Marcello Giombini. Tra gli interpreti «di ruolo», da segnalare Paul Muller e Graziella Galvani, nei panni dei genitori di Juliane. Per rispondere alla domanda che è presa come titolo per il film, basti dire che la ragazza verrà infine tratta in salvo. Che forse era una risposta legata anche all’intima indole di Scotese, sempre alle prese con temi un po’ scomodi, ma armato di un ottimismo non certo superficiale. 



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mercoledì 23 aprile 2025

L'AGGUATO DEI SOTTOMARINI

1657_L'AGGUATO DEI SOTTOMARINI (Suicide Fleet). Stati Uniti, 1931. Regia di Albert S. Rogell

Negli anni ’30 del secolo scorso c’erano negli Stati Uniti una serie di forze che animavano contemporaneamente l’umore sociale: il paese era uscito vincitore dalla Grande Guerra, sia dal punto di vista bellico che sotto l’aspetto morale, avendo deciso le sorti del conflitto con il proprio provvidenziale intervento. Per tutto il decennio successivo alla guerra, i ruggenti anni Venti, gli americani se l’erano sostanzialmente spassata; ma nel 1931, anno di uscita de L’agguato dei sottomarini, ci si trovava ancora sbalzati nel pieno della Grande Depressione. Da una parte c’era quindi la voglia di affermare la propria leadership mondiale, e di continuare ad assaporare il benessere raggiunto e goduto a lungo, d’altra bisognava fare i conti con una situazione non certo rosea. Tutto questo si può tirare in ballo per provare a comprendere com’è che possa venire in mente, ad Hollywood, di organizzare un film come il citato L’agguato dei sottomarini. Il lungometraggio di Albert S. Rogell prevede infatti l’impiego di sommergibili, navi da guerra e velieri in gran quantità per quella che è, in fin dei conti, una commedia, seppur con una serie di differenti venature che la percorrono. Quasi che, in una tale situazione di emergenza sociale, si ricorra perfino alle forze militari e quindi istituzionali della nazione, per finanziare o comunque avere il pieno appoggio e dare man forte e fiducia anche al cinema nel tentativo di far ripartire moralmente il paese. Si diceva della struttura curiosa del film, che è una commedia ma con un corredo di scene di azioni belliche sul mare di prim’ordine. Innanzitutto, anche perché è la traccia con cui attacca la pellicola, c’è un’importante trama sentimentale con una giovanissima ma già superlativa Ginger Rogers, nei panni di Sally, che tiene il centro di una contesa romantica in quel di Coney Island. I tre pretendenti sono l’aitante Baltimore (Billy Boyd), e la coppia di spalle Dutch (Robert Armstrong) e Skeets (James Gleason) che servono, in questo ambito, ad ostacolare il primo nel suo tentativo di conquistare Sally. Presto i componenti del nostro terzetto, proprio per guadagnare prestigio agli occhi della ragazza, si arruolano in marina, visto che gli Stati Uniti si sono uniti alla bagarre nella Prima Guerra Mondiale. In modo un po’ brusco, a questo punto, la traccia sentimentale è lasciata da parte mentre vi è uno sfoggio quasi documentaristico dell’attività di una nave da guerra di inizio secolo. 

La trama bellica vede gli americani scoprire che un veliero battente bandiera norvegese è in realtà una nave tedesca che funge da supporto ai sommergibili: scoperto l’inganno gli alleati tenderanno una trappola ai nemici a cui si ispira appunto il titolo italiano. Notevole, come detto, il dispiego di imbarcazioni per la realizzazione del film: in totale la marina americana mise a disposizione una decina di navi da guerra, mentre dei due velieri, USS Indiana e l’USS Bohemia, quest’ultima venne addirittura affondata nella battaglia finale dai tre sottomarini americani che interpretavano gli U-Boot tedeschi. Le scene delle battaglie navali sono di notevole efficacia, infatti, perché furono realizzate in modo fin troppo realistico: per cominciare, l’incendio che l’equipaggio tedesco, camuffato da norvegese, appicca sul veliero per distruggere le prove e i codici segreti di criptografia, sul set sfuggì al controllo e dovette intervenire la USS Noa, un cacciatorpediniere della Marina, per spegnere le fiamme. Nel racconto filmico gli americani, una volta che il veliero norvegese si era autoaffondato, camuffano a loro volta una loro vecchia imbarcazione per trarre in inganno i sommergibili nemici. Naturalmente a bordo della nave finiscono i nostri tre personaggi, con Baltimore, sottoufficiale di bordo sulla USS Destroyer, a cui viene affidato il comando della spedizione. Il roboante finale arriva dopo una buona sequenza pregna di suspense, con un primo incontro tra il veliero ora condotto dagli americani su cui salgono i capitani di ben due sommergibili tedeschi, l’U-170 e l’U-165. Ad interpretare il ruolo del capitano del veliero, non è Baltimora ma Dutch, che se la cava col tedesco: sebbene non abbia idea su cosa vertessero i dialoghi e i piani dei suoi interlocutori, deve cercare di prendere tempo per dar modo alla flotta americana di intervenire. Una missione pericolosa, certo, non a caso il titolo originale del film è Suicide Fleet; tuttavia Dutch sembra riuscire a cavarsela, se non che si presenta sulla scena un terzo sommergibile, l’U-200. L’attenzione alla denominazione dei sottomarini non è un vezzo perché proprio dalla sigla si può capire come l’ultimo arrivato sia lo stesso sommergibile che si era visto nelle fasi iniziali del film, quando il veliero in azione era ancora l’originale tedesco camuffato da norvegese. Ma questo significa che il comandante dell’U-200 conosce il vero capitano del finto mercantile norvegese e non sarà possibile ingannarlo spacciando Dutch in queste vesti. La situazione, infatti, precipita e il veliero si trova di conseguenza in acque non cattive, cattivissime! In qualche modo, alla fin fine, i nostri tre protagonisti se la cavano anche perché c’è nientemeno che Ginger Rogers che aspetta a Coney Island per il lieto fine romantico con Baltimora. Ma, la divina Ginger ci perdonerà se stavolta la chiusura la dedichiamo alla USS Bohemia: pare che l’addetto agli effetti speciali, Harry Redmond, preparò con cura le cariche a bordo del veliero per uno spettacolare affondamento, innescato da comandi elettrici a distanza. Naturalmente il veliero era deserto, quando uno dei primissimi colpi dell’U-170 colpì erroneamente gli esplosivi preparati per la grande esplosione che venne così anticipata, seppur non privata minimamente della sua efficacia. Purtroppo la scena fu fatale alla gloriosa USS Bohemia, del resto era la sua fine prevista ma, per una star del suo calibro, era un magnifico tre alberi, si può ben dire che perlomeno fu un’uscita di scena col botto.


Ginger Rogers 






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domenica 13 aprile 2025

LE DERNIER MELODRAMA

1652_LE DERNIER MELODRAMA . Francia, 1979. Regia di Georges Franju

Raramente la carriera di un cineasta, o anche di un artista in genere, ha avuto un’uscita di scena tanto simbolica e rappresentativa quanto quella di Georges Franju. Il regista la cui poetica era stata definita realismo fantastico lascia il mondo dello spettacolo con un’opera suggestiva che vede al centro della scena alcuni commedianti ambulanti. Si tratta di un altro film televisivo per la serie Cinéma 16, dopo quello realizzato dal regista bretone l’anno precedente: Le dernier mélodrame [L’ultimo melodramma] è l’emblematico titolo di una storia che ha protagonista, come detto, una compagnia teatrale itinerante. All’inizio della carriera Franju era stato realizzatore di fondali per il teatro e, con gusto che ricorda la sua vena simbolica surrealista, lì fa ritorno per chiuderla. Il palco allestito dai saltimbanchi del Grand Théâtre Larémolière fa infatti sfoggio per tutto il racconto di una serie di sfondi pregevoli ed evocativi che rendono particolare questo film televisivo. Non eccezionale, sia chiaro, dal punto di vista del ritmo e della storia in sé: l’autore accusa una certa stanchezza e si premunisce di esplicitarla attraverso le parole del protagonista, Larémole de Larémoliere (Michel Vitold) che, analogamente al precedente Bernard interpretato da Daniel Gelin ne La discorde, ha per Franju un ruolo semi-autobiografico. Anzi, anche maggiore rispetto al citato uomo d’affari, visto che Larémoliére è figura di spettacolo e, oltre che attore, anche regista della compagnia. Lo stesso nome, poi, riecheggia ovviamente Molière, celeberrimo commediografo francese, ma l’aggettivo Grand del teatro e la vaga somiglianza del nome stesso riporta alla mente anche Le Grand Méliès, cortometraggio di Franju dedicato al pioniere del cinema d’oltralpe. Il congedo del regista bretone sembra cosciente e queste citazioni paiono nostalgici ricordi della propria carriera: la presenza di una ancora deliziosa Edith Scob (è Lilette) – attrice feticcio dell’autore – è la più evidente ma c’è anche la scena del macellaio – con la testa bovina aperta a colpi di mannaia – che ricorda spudoratamente Le Sang des Bêtes (1948) mentre la trama gialla nel finale ci riporta ai suoi primi lungometraggi. Quello che emerge tristemente da Le dernier mélodrame è che la Francia è cambiata e per gli artisti come Franju, legati alla propria tradizione culturale, non ci sia più posto. Un discorso che si riallaccia al citato La discorde dove il protagonista non riconosceva più la società francese dopo i dieci anni passati in Argentina. Tornando ai nostri saltimbanchi, nella prima città in cui si esibiscono un gruppo di scapestrati giovinastri motociclisti arriva con il solo scopo di creare disordini durante lo spettacolo. Sul momento il sindaco, presente in un palco dedicato, aizza contro i teppisti i suoi gendarmi; poi, dopo l’opportuno consiglio della moglie – in fondo i ragazzi sono figli di possibili elettori – l’opinione del primo cittadino muta di 180° gradi. Il Grand Théâtre Larémolière è costretto a sloggiare e si trasferisce in un piccolissimo borgo: qui, in principio, le cose sembrano migliori. Ma la mentalità dei paesani è ancora ristretta e i testi teatrali possono sembrare anche sconvenienti, in questo caso una torbida pièce con protagonisti i Borgia ambientata in Vaticano. La società francese, insomma, secondo Franju o è in decadimento oppure ancora troppo arretrata. Perché presto il vento cambia anche in paese e ora i saltimbanchi cominciano ad essere malvisti; l’appesantito barista Alphonse (Bernard Diney) inizia a non sopportare più le quotidiane visite del vecchio Frédréric (Raymond Bussières) che si ubriaca tutti i giorni. Maria (Juliette Mills), l’ancora piacente moglie di Alphonse, scorge la possibilità di eleminare il marito, imbruttito e malato di cuore, di cui ormai è stanca. E se a farne le spese sarà il Grand Théâtre Larémolière poco male: l’arte ormai conta meno di una banale storia matrimoniale sommersa dalla noia. E così, al termine di un parapiglia comunque abbastanza efficace, Alphonse tira le cuoia di infarto, scioccato da una fucilata sparata a salve dei saltimbanchi. Gli artisti erano stati preventivamente allertati delle intenzioni incendiare del barista dalla stessa Maria, che opera un doppio gioco mirato a spaventare fatalmente il marito. Il quale, codardo com’era, non aveva avuto il coraggio di appiccare il fuoco alla benzina con cui aveva inondato il teatro, per la verità; Maria, in ogni caso, lo conosceva bene ed è lesta a cogliere l’attimo. Il teatro va in fumo, in tutti i sensi. Chissà, forse la donna, a quel punto, poteva anche risparmiarselo: ormai Alphonse era morto, il suo scopo raggiunto. Ma era anche tempo per Franju, che quel teatro incarnava, di chiudere, e allora perché non approfittare di un finale ad effetto?
Fantastico e credibile, in fondo. Addio, Maestro. E grazie di tutto. 


lunedì 31 marzo 2025

IDOLO DA COPERTINA

1645_IDOLO DA COPERTINA (Make a male model). Stati Uniti, 1983. Regia di Irving J. Moore

Nel 1983 gli anni 80 stavano entrando nel vivo e uno dei temi dominanti del decennio era senza alcun dubbio il mondo dorato della moda e della pubblicità. La televisione americana, al tempo all’apice del successo, aveva già esplorato l’argomento l’anno precedente con Paper Dolls [Paper Dolls, Edward Zwick, 1982] e la serie derivata, Il profumo del successo [Il profumo del successo (Paper Dolls), 1984, serie Tv], sarebbe stata trasmessa nel 1984. Più avanti, negli Eighties sarebbe cominciato il periodo delle supermodelle ma, in quei primi anni del decennio, si stava consolidando un altro fenomeno interessante: quello del culto del corpo maschile che trovava spazio dalla moda alle palestre e di cui anche al cinema, basti pensare ai successi del periodo di Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger, si trovava riscontro. In molti sono convinti che l’aitante Jon-Erik Hexum, il protagonista di Idolo da copertina, se non avesse avuto il tragico incidente sul set –nel 1984 si sparò alla tempia con una pistola caricata a salve che gli si rivelò comunque fatale– avrebbe potuto essere una star proprio in virtù delle sue doti fisiche. In effetti è così che la vede anche Kay Dillon, titolare di un’agenzia di modelli, a cui una smagliante Joan Collins presta fascino e carisma. La trama è presto detta: la Dillon vede un bello stallone di campagna, Tyler, il personaggio di Hexum, e lo prende della sua scuderia. Com’è prevedibile, i due si innamorano: d’accordo, al tempo la Collins aveva il doppio degli anni di Hexum –alla lettera, 50 anni contro 25– ma l’attrice, fresca del successo di Dynasty, oltre a bellezza e classe, in Making of a male model –questo il significativo titolo originale– sprizza entusiasmo scenico da tutti i pori. Fino al momento in cui la scommessa dell’acuta agente si concretizza, e Tyler diviene l’«idolo di copertina» del titolo italiano, la storia sentimentale va a gonfie vele. Poi, qualcosa si incrina: in effetti, da un punto di vista narrativo, il motivo per cui Kay diviene via via meno appassionata nei confronti di Tyler non è molto comprensibile. La donna non sembra del tutto priva di sentimenti, come si potrebbe pensare considerato il mondo in cui si muove: è interessante, ad esempio, il modo in cui cerca di ammorbidire le idee di Tyler nei confronti degli strani tipi che frequentano l’ambiente della moda. Omosessuali e travestiti non riscontrano esattamente il gradimento del giovanotto, e la donna cerca di fargli capire come si tratti unicamente di libere scelte che vanno accettate in quanto tali, senza pregiudizi. 

Se nei modi Kay non sembra quindi pienamente il classico esempio del rampantismo dell’epoca, per quanto valuti sempre i possibili riscontri economici delle prospettive che le si presentano, suscita qualche perplessità il suo comportamento nei confronti di Tyler. Nello spettatore, beninteso; nel modello scatena piuttosto gelosia un po’ infondata e una sorta di rifiuto per il mondo della moda che lo induce a piantare tutti in asso per tornarsene nel west e comprarsi un ranch con i primi guadagni. Al netto dei leggeri ribaltamenti narrativi della trama nel finale, questa è in sostanza la traiettoria del racconto, con il protagonista che, assaggiato i piaceri del mondo della moda, preferisce ritornarsene alla sua vita ordinaria. Rimangono un paio di dettagli da segnalare che rendono meno scontato e prevedibile il senso di questo Idolo da copertina. Il primo è il trattamento che riceve dalla sua ex fidanzata che, quando sa che è tornato, decide di passare una notte con lui, nonostante sia ormai promessa sposa ad un altro, unicamente per provare il brivido di fare sesso con una celebrità. Il che è una riflessione interessante: l’arrivismo e l’opportunismo non sono caratteristiche peculiari unicamente del mondo dello spettacolo, che è semmai semplicemente l’acceleratore di fenomeni già presenti nella società. L’altro è la rivelazione che il comportamento di Kay era divenuto via via sempre più freddo, nei confronti di Tyler, perché la donna si era innamorata di lui e non voleva che il giovane si bruciasse nel dorato mondo dello show business. In questo senso c’è, in effetti, la presenza nel copione di Chuck (Jeff Conaway), un modello che ha fatto il suo tempo ed è in piena crisi esistenziale autodistruttiva. Insomma, anche le persone della moda o dello spettacolo hanno un cuore, sebbene a volte si celino sotto le sembianze di Alexis Colby. Che sono sempre molto apprezzabili, tra l’altro.