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mercoledì 3 settembre 2025

IL TENENTE SHERIDAN - QUALCUNO AL TELEFONO

1724_IL TENENTE SHERIDAN - QUALCUNO AL TELEFONO, Italia 1959. Regia di Stefano De Stefani

Nel 1959 la Rai mise in onda un curioso programma, Giallo club – Invito al poliziesco, che inseriva, all’interno di una sorta di quiz televisivo, alcuni lungometraggi della durata di un’oretta che avevano come protagonista un personaggio che rimarrà nella storia della televisione italiana: il tenente Sheridan. Interpretato da Ubaldo Lay, che finì per essere identificato per sempre con il poliziotto dall’impermeabile color ghiaccio, Sheridan era a capo della Sezione Omicidi di San Francisco ed era ritagliato sulle figure della narrativa hard-boiled americana, come il Philip Marlowe di Raymond Chandler o il Sam Spade di Dashiell Hammett, tenendo figurativamente d’occhio soprattutto Humphrey Bogart nei suoi celebri noir. Ma con qualche significativa correzione: via il cappello, forse troppo comune ai gangster, e niente whisky, visto che il buon tenente beveva latte. Un particolare che sembrava voler stemperare un po’ il clima plumbeo degli argomenti, come detto il tenente lavorava alla Omicidi, con un rimando ai fumetti e a quel Cocco Bill, personaggio di Jacovitti quasi coevo di Sheridan, che girava i saloon del far west bevendo camomilla in luogo del più comune torcibudella. Del resto il rifermento al mondo delle nuvole parlanti era ufficialmente dichiarato dagli autori che si ispirarono a Ezechiele Lupo della Walt Disney per il nome di battesimo di Sheridan, poi familiarmente chiamato Ezzy. Questo rimando –a quello che è in sostanza uno dei cattivi dell’universo disneyano, per la precisione il lupo cattivo che vuole mangiarsi i tre porcellini– è un elemento curioso, perché presenta Sheridan come personaggio non del tutto positivo. Lay, oltretutto, alimenta questa deriva, con una maschera poco espressiva se non per il suo trasmettere inquietudine; insomma, non certo un personaggio rassicurante. Forse è anche per questo che gli autori ambientarono la serie fuori dall’Italia, e non solo genericamente oltreoceano ma a San Francisco, ben più lontano, per esempio, della Nuova York che con la sua Little Italy aveva comunque un’area famigliare nel Belpaese. L’«invito al poliziesco», di cui parlava il programma contenitore, forse aveva proprio questo scopo: far comprendere agli italiani che le forze dell’ordine, anche per la natura del loro ruolo, non erano necessariamente composte da cherubini e anime nobili. Una preoccupazione inutile, a dirla tutta, considerata la Storia del nostro Paese, ma onesta in ambito teorico e necessaria a non creare equivoci. E, rammentando le parole del commissario Alzani –ricordato come il primo poliziotto della Tv italiana, dove Sheridan è il secondo– si può comprendere come quest’operazione di caratterizzazione delle forze dell’ordine sia stata fatta prendendola alla larga, ovvero passando dalla lontanissima California. Alzani (Renato De Carmine), nell’ultimo episodio della serie Aprite: polizia! sostiene infatti che “la delinquenza non latina è sempre più crudele, più cinica”. In pratica, parole in linea alla strategia alla base della scelta di ambientare a San Francisco la serie cardine di Giallo club – Invito al poliziesco, ovvero un po’ quella di gettare il sasso nascondendo la mano. Per «svezzare» il Paese e farlo crescere – compito primo della televisione di stato – occorreva fargli fare i conti con la propria metà oscura –lo scopo catartico del racconto giallo– e con la natura delle forze dell’ordine – quello più didattico del poliziesco– ma non era il caso di essere traumatizzanti. Per cui, per prendere confidenza con questo tema, ovvero l’ambiguità nel quale si muovono gli uomini deputati alla sicurezza della collettività, meglio uno sguardo senza filtri ma che non ci coinvolga subito direttamente. In fondo un saggio emblematico della politica intrisa di spirito paternalistico che caratterizzava la classe dirigente dello Stivale. La serie, una volta fatta la tara alle circostanze dell’epoca, si può affermare sia realizzata con solido mestiere e, oltre al tenente protagonista, prevedeva personaggi fissi come il sergente Steve Howard (Carlo Alighiero) e l’agente Mills (Sandro Moretti), figure ricorrenti che aiutavano lo spettatore a familiarizzare con i racconti. Il primo episodio, Qualcuno al telefono, mette subito in mostra le capacità intuitive del tenente della Omicidi e l’accuratezza formale del film, sceneggiato da Mario Casacci, Alberto Cianbricco e Giuseppe Aldo Rossi, e poi diretto da Stefano De Stefani.      


lunedì 1 settembre 2025

ONE DAY IN UKRAINE

1723_ONE DAY IN UKRAINE, Ucraina, Polonia 2022. Regia di Volodymyr Tykhyy

Il collettivo Babilon’ 13, attivo sin dai tempi della Rivoluzione della Dignità come dimostra il loro Euromaidan – Rough Cut, sa bene che il 24 febbraio 2022 non è cominciata la guerra russo-ucraina. In quel tragico giorno, Mosca ha semplicemente innalzato i toni dello scontro, dando il via alla cosiddetta «invasione su larga scala». Anche stavolta, come nel caso dei fatti di Piazza Indipendenza che diedero il via alla crisi, il collettivo di registi è lesto a reagire per lasciare una traccia cinematografica indelebile: One Day in Ukraine, regia di Volodymyr Tykhyy, coadiuvato dagli altri attivisti per le riprese, ne è il risultato. Nel film, proiettato nell’estate del 2022, si ribadisce l’importanza cronologica degli eventi: il 14 marzo 2022, ovvero il «giorno in Ucraina» a cui si riferisce il titolo, è il numero 2.944 dall’inizio della guerra. Non sono passate solo poche settimane ma ben nove anni; la guerra non è incominciata il 24 febbraio 2022, ma ai tempi della reazione prepotente del Cremlino ai fatti di Piazza Indipendenza. Il documentario sfrutta la matrice collettiva del Babilon’13, per seguire contemporaneamente, nello stesso giorno, differenti storie e personaggi. L’occasione non è casuale, visto che il 14 marzo in Ucraina si celebra il Giorno del Volontariato e di questa attività solidale, spontanea e gratuita ci parla appunto One Day in Ukraine. La guerra non si combatte solo in prima linea, ma anche nelle retrovie, nelle metropolitane delle città che diventano rifugi sicuri per la popolazione contro i bombardamenti degli invasori. In quella di Kyiv è girato parte del film di Tykhyy, che segue differenti filoni narrativi, come il lavoro di alcuni militari che, tra le altre cose, sorvegliano le aree colpite, al fine di prevenire i saccheggi, o l’attivismo di una star della musica che si prodiga per dare concretamente una mano. Insomma, all’invasore armato fino ai denti, l’Ucraina non risponde soltanto a tono, ma mostrando anche la propria umanità e solidarietà.     






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domenica 31 agosto 2025

INNER WARS

1722_INNER WARS, Ucraina, Francia 2020. Regia di Masha Kondakova

Il significato del titolo del documentario di Masha Kondakova Inner Wars è «guerre interiori», il che, essendo il film ambientato nell’Ucraina orientale dove infuria la Guerra del Donbas è quantomeno curioso. Ma alla regista del conflitto con i separatisti interessa relativamente, c’è una didascalia in chiusura che ricorda la situazione geopolitica dell’area: quello che preme alla Kondakova è rivendicare il contribuito delle donne impegnate in guerra e la loro importanza, ingiustamente sottovalutata, nell’esercito ucraino. Queste sono le «guerre interiori» di cui ci racconta Inner Wars. Quella di Olena, soprannominata Witch, strega, combattente indomita, tra una sigaretta e l’altra, con due figli lasciati a casa; quella di Lera, che ha lasciato il suo lavoro di giornalista per sparare col mortaio e si è messa contro i superiori per restare in prima linea: o quella di Iryna, una veterana che ha perso due gambe e un occhio al fronte e che, nella sua personale battaglia per rivendicare il riconoscimento del contributo bellico femminile, forse è quella che meglio incarna lo spirito del film. Sebbene sia proprio lei a “sfidare Kondakova sulle sue reali intenzioni dietro il film” per usare le parole di Redmon Bacon sul sito Dirty Movies. [Dal sito Dirty Movies, pagina web https://dmovies.org/2021/11/30/inner-wars/, visitata l’ultima volta il 19 dicembre 2024]. Secondo il recensore, proprio la scelta della regista di non smussare questa divergenza con una delle protagoniste, è indice dell’onestà d’intenti dell’opera.
Il che è certamente condivisibile, come anche l’idea che alle donne debba essere riconosciuto parità di trattamento anche in ambito militare e tutto quanto il resto si possa immaginare in quest’ottica. Tuttavia, c’è qualcosa che non torna, che non quadra proprio alla perfezione. Nel senso: la guerra è la peggiore delle attività, qualcosa che si dovrebbe certare in tutti i modi di evitare; poi, d’accorso, forse in certi casi è inevitabile, in ogni caso non è questo il punto. Forse, in tempi arcaici, incominciarono ad occuparsene gli uomini perché le donne, dovendo allattare, avevano compiti ben più importanti: alimentare la vita anziché toglierla. Poi, d’accordo, sono cambiate un milione di cose, situazioni, e quel che si vuole, ma vedere che si ritiene una forma di emancipazione poter andare a combattere in guerra, lascia almeno un poco perplessi. Insomma, è indispensabile per le donne andare in guerra? O, formulando meglio, le donne sono indispensabili alla guerra? Certo, perché portano un contributo peculiare, una specifica dose di umanità, di empatia con l’«altro», qualcosa che, senza di loro, probabilmente mancherebbe. Ma questo rischia di significare che la guerra è qualcosa che dobbiamo tornare a ritenere necessario e indispensabile o, forse, semplicemente ineluttabile: se perfino le donne rivendicano il diritto di combattere, dobbiamo farcene una ragione. La Guerra del Donbas non sarà l’ultima, così come non lo sono state né la Prima Guerra Mondiale né la Seconda. E nemmeno lo sarà la prossima. Se le donne, naturalmente dispensatrici di vita, bramano il loro posto in guerra, si può dire con certezza che, almeno finché ci sarà quella citata vita umana, ci sarà guerra sulla Terra.  





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venerdì 29 agosto 2025

IL CAPPELLO DEL PRETE

1721_IL CAPPELLO DEL PRETE, Italia 1970. Regia di Sandro Bolchi 

Con l’arrivo degli anni 70, il genere giallo aveva ormai definitivamente conquistato la televisione italiana e, di conseguenza, l’intero Paese. L’impressione, ben fondata, era che fosse una scoperta recente, per il Belpaese, che rispetto ai paesi anglosassoni non aveva una tradizione così radicata. Tuttavia, in Rai, provarono a rivendicare quel minimo di esperienza, mettiamola così, che l’Italia poteva vantare nel campo specifico, andando a rispolverare il romanzo di fine Ottocento Il cappello del prete, opera del milanese Emilio De Marchi, considerato uno dei primi gialli italiani. Quello di De Marchi, ambientato a Napoli, è un buon racconto, con un dettaglio rivelatore e un meccanismo giallo nient’affatto scontato ma anzi ben congeniato. Sandro Bolchi, veterano della regia televisiva, non tradisce e anzi sfodera la proverbiale classe, aiutato in questo da un Luigi Vannucchi, nei panni del protagonista, Carlo Coriolano barone di Santafusca, assolutamente superlativo. Il barone in questione, dedito incautamente al gioco d’azzardo, è in bancarotta e, per risollevare le sue finanze, non trova di meglio che uccidere e derubare don Cirillo (Franco Sportelli), un prete al cui cappello è dedicato il titolo del racconto. Come detto alla base dello sceneggiato c’è un solido e ben costruito racconto, ben messo in scena da Bolchi e recitato dagli attori con un tono teatrale adeguato a sopperire le carenze scenografiche tipiche di questo tipo di produzioni. Un’alchimia che, nel 1970, con ingredienti come Bolchi e Vannucchi, rasentava quando non raggiungeva la perfezione e Il cappello del prete, pur nella semplicità complessiva, ne è un ottimo esempio. L’aspetto più interessante, al netto del piacere di guardare opere così ben realizzate, è però legato a certi elementi che tradiscono, in un certo senso, l’ingenuità dello sguardo di De Marchi, poi ripreso da Bolchi. Il termine «ingenuità» non ha mai un’accezione negativa e men che meno in questo caso, tuttavia è innegabile che De Marchi, nell’affrontare il tema criminale, centrale in ogni giallo, fatichi ad abbandonare uno sguardo troppo positivista. Nel racconto i due passaggi cardine sono due crisi di coscienza di due personaggi che, con le loro difficoltà a reggere al peso del peccato commesso, si pentono o si tradiscono. Prima don Antonio (Ugo D’Alessio), il prete che, senza sapere di chi fosse, si era appropriato del nuovissimo cappello di don Cirillo, si pente di questo furto e cerca di porvi rimedio. Così, non sapendo a chi restituirlo, lo rispedisce all’artigiano che lo aveva fabbricato, avendone letto il nome sull’etichetta interna del cappello. Sulla scena, quindi, c’è un cappello da prete ma manca il prete; per la verità manca appunto don Cirillo ma in una città grande come Napoli non sarebbe semplice mettere insieme i due elementi. A meno di essere il cappellaio Filippino (Antonio Casagrande) che, tra l’altro, vorrebbe proprio ringraziare quel don Cirillo che gli aveva dato i numeri con cui aveva ottenuto un terno secco al gioco del lotto, e si vede invece recapitare a casa il suo cappello. Pane per il giudice Martellini (Mariano Rigillo) che, alla fin fine, pur con tutte le cautele del caso considerato il titolo nobiliare del barone, chiama a colloquio il Coriolano. Il barone non è certo pentito di quanto combinato, non è un’anima pura come don Antonio, tuttavia ha un pesante fardello sulla coscienza che non gli consente di gestire un pur accondiscendete, almeno in avvio, interrogatorio di pura formalità del Martellini, che non lo sospettava minimamente. Eppure il barone si confonde continuamente, strepitoso qui il Vannucchi, finendo per autoaccusarti alla stregua di una confessione. Bei tempi, sia il 1888 del romanzo di De Marchi, che il 1970 di Bolchi, nei quali si credeva ancora che i colpevoli avessero una coscienza.
Oggi sappiamo che non ce l’hanno nemmeno gli innocenti.    




    
 


mercoledì 27 agosto 2025

I BANDITI DELLA CITTA' FANTASMA

1720_I BANDITI DELLA CITTA' FANTASMA (Bad Men of Tombstone), Stati Uniti 1949. Regia di Kurt Neumann

I Quaranta si avvicinavano al termine ma il Western Romantico, che aveva imperversato in quegli anni, aveva ancora alcune cartucce da sparare, prima di lasciare campo alla Golden Age degli anni 50, vera e propria epica americana. Accettato, in un modo o nell’altro, la propria natura violenta, gli americani si poterono, a quel punto, dedicare a raccontarsi come erano stati in gamba a costruire il proprio Paese, e questo avvenne appunto nei Faboulous Fifties. Ma, come lasciato intendere, non fu esattamente una passeggiata fare i conti con la propria metà oscura: il Western Romantico fu tra i migliori espedienti cinematografici per cercare una qualche soluzione in questo senso. Le principali tematiche di questa corrente cinematografica erano due: quella sentimentale, a cui si deve il nome del sottogenere, e quella criminale. I protagonisti dei western Romantici erano sempre banditi, evidente punto di contato con altri generi coevi quali i Crime-movie o i Noir, con cui questi film condividevano anche l’utilizzo del bianco e nero della pellicola. Certo, un primo motivo di questa scelta era da ricercare nel contenimento dei costi, dal momento che questi generi non disponevano, abitualmente, di grossi budget. Comunque è un dato di fatto che la prime pellicole a colori furono a disposizione prima degli anni Quaranta e il western, nei successivi anni Cinquanta, farà di questa soluzione, potendo così sfruttare pienamente la policromia degli spettacolari scenari, uno dei suoi punto di forza. Ma, se anche produttori e registi dei Western Romantici rimasero fedeli al bianco e nero per una mera questione economica, certo è che il contrasto insito in questo tipo di fotografia ben esplicitava il bivio in cui si trovavano i personaggi dei film. La violenza, e condurre una vita randagia e solitaria come era tipica dei fuorilegge, o l’amore, dando retta al cuore e fermarsi per metter su famiglia, prima organizzazione sociale tipica della nostra civiltà? I banditi della città fantasma, godibile film di Kurt Neumann, è un western del 1949: ormai, come detto, siamo agli sgoccioli del periodo «romantico», e la questione è quindi chiarissima. 

Non ci sono equivoci di sorta: Tom Horn (Barry Sullivan) è un bandito senza troppi scrupoli, la sua bella, Julie (Marjorie Reynolds) lo sa e decide perfino di non denunciarlo. A Julie non importa come si facciano i soldi, e men che meno importa a Tom: l’importante è averne per potersi godere una vita agiata in qualche rispettabile città. Tra l’altro, Tom Horn è un personaggio storico del West, prima esploratore e poi uomo di legge, che ebbe una sorte sfortunata: probabilmente venne accusato, condannato e impiccato ingiustamente. La scelta di utilizzare un nome simile per un protagonista che, ad onor del vero, lascia invece pochi dubbi a suo carico, serve forse ad alimentarne il fascino facendo riferimento ad un personaggio vittima della malagiustizia. Un po’ come dire che il Tom Horn del film non fosse cattivo d’animo ma semplicemente condizionato dalle circostanze e, in questo senso, si può leggere tutta la velocissima parte in cui il protagonista arriva a Gold City. Nel tempo record di un canonico incipit, una manciata scarsa di minuti, Tom giunge in paese, cerca da dormire, bere, mangiare, gioca a poker, perde 200 dollari, il cavallo, tenta una rapina, viene scoperto e finisce in prigione. Non troppo avveduto, insomma, del resto è un avventuriero, il tipico protagonista dei Western Romantici. Qui la sceneggiatura di Philip Yordan e Arthur Strawn è sottile: quando si siede al tavolo da poker, Tom comincia giocando solo un dollaro, a testimonianza di un’indole prudente; sarà solo il barare del gambler a portarlo alla perdita di una somma che non possiede e, di lì in poi, sulla cattiva strada. C’è anche, per dovere di cronaca, un altro passaggio che, forse, si iscrive in questo senso: prima di derubare la banca, Tom chiede un prestito al cassiere, per quanto potrebbe anche essere stata tutta una strategia nell’ottica della rapina. Senza garanzie da offrire, ottiene risposta negativa e, a quel punto, prova a forzare la mano finendo per rovinarsi. 

In ogni caso la storia non manca di altri riferimenti di matrice politico-sociale, per così dire: ad esempio, è in prigione che il protagonista conosce Morgan (il grande Broderick Crawford), capo della banda di fuorilegge a cui Tom si unisce. Quasi a dire che la detenzione non sia una possibilità di redenzione quanto, piuttosto, quella per il definitivo passaggio sulla sponda sbagliata. La vera critica sociale arriva però quasi nel finale: il colpo con cui i banditi vogliono chiudere la propria attività è un affare enorme e viene proposto loro da una coppia di loschi ma distinti uomini d’affari che si oppone alla nuova Legge che prevede la lottizzazione del territorio dell’ovest. Questi rispettabili imprenditori detengono la stragrande maggioranza del bestiame della nazione e, se i terreni venissero recintati, non potrebbero più spostarlo a piacimento, vedendo andare in fumo tutto il loro business. La loro richiesta è semplice e, a suo modo, emblematica del razionalismo yankee che fu alla base della conquista del west: ai banditi viene chiesto di eliminare fisicamente le persone più in vista tra i potenziali acquirenti dei territori da lottizzare, in modo da scoraggiare il fenomeno. Né Tom, né tantomeno Morgan, hanno alcunché da obiettare: uccidere è un modo come un altro per far soldi, quindi, una volta trovato l’accordo economico, l’affare si può concludere. L’unica speranza di redenzione per l’eroe, se vogliamo chiamarlo così, non è quindi nella sua moralità, di cui è sostanzialmente privo, ma nell’amore. Julie, infatti, seppure in principio non sia differente dal suo uomo, col passare della storia si lascia sedurre da una prospettiva più quieta, un modo di vivere più consono alle persone civili. Al ballo, prima del giorno decisivo, lei e Tom conoscono un’altra giovane coppia con tre figli che, a differenza loro, non intende andare a vivere a San Francisco per spassarsela. Il loro obiettivo è, appunto, uno degli appezzamenti in attesa di essere assegnato; tra l’altro, il fatto che il «lavoro» propostogli dagli affaristi ostacoli i piani di brava gente con cui ha appena fatto amicizia, non pone nessuno scrupolo a Tom. Sarà invece l’esplicita pretesa di Julie a far cambiare idea all’uomo che, non per questo, tuttavia, intende lasciar perdere la sua parte di bottino dell’attività criminale della banda, cha aspetta ancora di essere divisa. Lo scontro con Morgan lo vede prevalere grazie alla sua astuzia nei duelli con la pistola: è quindi questa la chiave del sogno americano? In realtà, Neumann, europeo e solido cineasta di genere, non perde l’occasione per inframmettere grate, sbarre e steccate tra i suoi protagonisti, Tom e Julie, e lo schermo: non ci sono i presupposti per avere speranze, sembra volerci dire. Il pistolotto posticcio finale serve solo ad indorare la pillola e convincere produttori e uffici censori della moralità d’intenti della pellicola. Ma ciò che rende I banditi della città fantasma un film illuminante, è che espone quali furono i principi fondanti del nascente Paese: zero scrupoli, determinazione e scaltra intelligenza. Verità troppo brutale? Ci penseranno i film dell’imminente Golden Age del western, i classici degli anni 50, a renderla digeribile.  


Marjorie Reynolds



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lunedì 25 agosto 2025

TOTO' CONTRO I QUATTRO

1719_TOTO' CONTRO I QUATTRO , Italia 1963. Regia di Steno

Classico esempio in cui i troppi ingredienti finiscono per creare un piatto se non insipido, quantomeno non armonico, Totò contro i quattro è un film in cui si fatica a salvare qualcosa. E dire che, come accennato, di elementi degni di attenzione ce ne sono a iosa, a cominciare dal Principe della risata, qua all’apice della carriera. Eppure la sua prestazione è relativamente convincente, al punto che, persino «en travesti», un espediente da cui spesso ha ottenuto passaggi spassosi, non è particolarmente memorabile. Totò, nel film, è il commissario Saracino che comincia la sua giornata vedendosi rubata la sua nuova fiammante Fiat 1100, passaggio che evoca, in qualche modo Accadde al commissariato [Giorgio Simonelli, 1954]. I «Quattro» del titolo, non costituiscono una banda o qualcosa di connesso, ma sono le spalle di singoli episodi che vengono tuttavia presentati in un corpo narrativo unico. Nel dettaglio questi personaggi sono: Peppino De Filippo (è il cavalier Alfredo Fiore), Aldo Fabrizi (è don Amilcare), Erminio Macario (è il colonnello La Matta) e Nino Taranto (è l’ispettore Mastrillo), già protagonista del citato film di Simonelli. A questi si può aggiungere Mario Castellani (è il commendatore Lancelli) sebbene le gag più riuscite siano forse quelle con Ugo D’Alessio (è il brigadiere Di Sabato); un po’ prevedibili ma comunque divertenti quelle con Nino Terzo (è l’agente Pappalardo) e Carlo Delle Piane (è Pecorino, il delinquente). Un cast ricco ma da cui si ricava poco, se non qualche gag tra il piccante e il volgare nel senso che l’umorismo è da caserma. In questo senso, tra l’altro, nel film, curiosamente, latitano le presenze femminili, a meno di non considerare Totò travestito una rappresentante del gentil sesso. A questo proposito, divertente la scenetta nel negozio di biancheria intima femminile mentre sconsolante la conclusione a cui giungono Steno, il regista, e i suoi sceneggiatori Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi per chiudere il film. L’automobile rubata al commissario Saracino è alfine trovata da don Amilcare che convince Pecorino a restituirla e a mettersi sulla retta via. Se non che il mariuolo, incappa nel prete appartato in auto col commissario vestito da donna e equivoca la scena: il prete, che gli ha appena fatto la morale, va coi travestiti. Ce n’è per continuare a fare il ladro. Sic. 





  

sabato 23 agosto 2025

ASFALTO CHE SCOTTA

1718_ASFALTO CHE SCOTTA (Classe tous risques), Francia, Italia 1960. Regia di Claude Sautet

Può sembra un vezzo inutile, se non addirittura una mania fastidiosa, quello di cercare di appiccicare un’etichetta a qualsiasi film; in sostanza è questo che si fa quando si cataloga un’opera in un genere piuttosto che in un altro. Ma c’è una ragione: ovvero che l’appartenenza a generi, o sottogeneri, correnti, filoni, può essere di grande aiuto per comprendere meglio le stesse opere. Non sono limiti, vincoli, ostacoli: sono fonte di aiuto. Ad esempio, il Polar è un genere francese che affonda le sue radici nel Noir americano ed è stato influente, a sua volta, per i Krimi tedeschi, giusto per fare un esempio. Il Noir aveva un pessimismo di fondo giustificato dalla situazione geopolitica in cui vide la luce, con le conseguenze della Grande Depressione se non l’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale, come elementi determinanti. Il Polar si sviluppò solo lievemente in ritardo, ma acquistò piena coscienza di sé successivamente –quando il mondo sembrava essersi sistemato almeno un po’– e tra le opere più rappresentative di questa svolta autonoma, va sicuramente annoverato il capolavoro di Claude Sautet Asfalto che scotta. La solidità di base al film è garantita da un soggetto opera di José Giovanni, anche sceneggiatore insieme a Sautet e a Pascal Jardin, un autore che sarebbe divenuto uno degli artisti più prolifici e versatili del genere. Il titolo originale, Classe tous risques, che fa riferimento alle classi di rischio delle assicurazioni, esplicita che il protagonista, Abel Davos (Lino Ventura, magnifico e monumentale) non ha più alcuna sicurezza, ancora di salvataggio o rete anticaduta. I timori che nel Noir erano incarnati dalle incertezze che si celavano nella giungla metropolitana sono, a questo punto, quasi un rimpianto. Nel Polar, come si evince in modo emblematico nel film del giovane Sautet, non ci sono incertezze, tutto è chiarito sin dall’inizio quando la laconica voce fuori campo ci dice che Abel Davos è un condannato a morte in contumacia. Lino Ventura era un attore formidabile e in Asfalto che scotta, nel suo primo vero ruolo da protagonista, riesce perfettamente ad incarnare la figura solitaria e malinconica, ma fermamente determinata ad andare fino in fondo, che diventerà una delle icone del Polar francese. 

Eppure, nel film di Sautet, in principio troviamo che Abel Davos, un personaggio destinato a divenire leggendario per il genere, è sposato e si muove con famiglia al seguito. Con lui, infatti, troviamo la moglie Thérèse (Simone France) e addirittura due figlioletti, oltre al socio Raymond (Stan Krol), gangster come lui. Spostarsi con famiglia appresso, vivendo di rapine spesso anche cruente, non è però cosa semplice; e a lungo andare l’Italia, Paese scelto dai nostri protagonisti per compiere le loro imprese, comincia a divenire poco salubre. Al punto che l’insolito gruppo decide di tornare in Francia, nonostante la condanna a morte che pende sul capo di Davos. A Mentone, dove giungono dopo essersi impadroniti di un motoscafo, succede la tragedia: i gendarmi della frontiera li scoprono e, nello scontro a fuoco, rimangono stesi sulla spiaggia Raymond e l’incolpevole Thérèse. Davos ora non solo è rimasto solo, ma con due bambini al seguito, il che lo rende facilmente rintracciabile. Prima di andare oltre, è opportuno approfondire un piccolo dettaglio per comprendere la natura umana di Davos che, non a caso, di nome di battesimo si chiama Abel, come il primo personaggio assassinato, e non il primo assassino, della Bibbia. Quando lo vediamo in azione, Davos è freddo e determinato; a suo carico sentiamo la polizia attribuirgli alcuni morti durante le sue rapine. Eppure a Milano, nella prima scena, lui e Raymond si limitano a stordire le loro vittime e anche al conducente del motoscafo, dopo averlo scaraventato in acqua, Davos getta un salvagente. In effetti il povero barcaiolo lo troviamo poi sano e salvo insieme alla polizia, sulla spiaggia di Mentone. Non è, quindi, Davos, un sanguinario senza scrupoli; è un criminale che, all’occorrenza uccide senza porsi il problema morale delle sue azioni, perché lo ritiene –sbagliando, sa va san dir– parte della sua professione. Ma Davos ha un suo codice di comportamento e la lealtà agli amici ne è uno dei capisaldi. Ecco, il punto focale di Asfalto che scotta, e di tutto il Polar, probabilmente, è che un codice di comportamento –verrebbe dire d’onore ma si correrebbe il rischio di venir equivocati– comune un po’ a tutti gli individui sia venuto meno con il progredire del capitalismo. Il concetto è: nella società occidentale, quando il capitalismo non aveva ancora corroso completamente l’anima delle persone, perfino i criminali come Abel Davos erano leali e solidali, avevano un codice di comportamento. 

Il capitalismo, nel nome dell’interesse privato di ciascuno, manderà a quel paese questo codice, e con essa l’idea stessa di collettività nel senso umano del termine. In Asfalto che scotta vediamo come i vecchi amici di Davos, ex membri della banda che hanno pesanti debiti nei suoi confronti, siano nel tempo profondamente cambiati. Nel momento in cui, queste persone, hanno fatto fortuna e hanno raggiunto una posizione rispettabile, assumono il tipico comportamento degli uomini d’affari e badano unicamente al loro interesse. La critica al sistema borghese è resa ulteriormente evidente dal fatto che sia Raoul Fargier (Claude Cherval) che Henri Vintran, detto Riton (Michel Ardan), i due amici storici di Davos, siano sposati e quindi la famiglia, istituzione borghese per eccellenza, viene esplicitamente messa sotto accusa. L’unico dei membri della vecchia banda che mostrerà un minimo di solidarietà è Petit Jeannot (Philippe March), guarda caso senza compagnia femminile e inguaiato con la Legge. Davos, tradito dai suoi amici, si vendica pesantemente e, in uno scontro a fuoco, elimina Fargier; ma quando legge che la moglie di questi è morta di crepacuore vedendo il cadavere del marito, decide di fermarsi. Nel suo averne abbastanza di tutte quelle morti collaterali possiamo vederci una forma di redenzione dell’eroe; o forse no, perché Davos non è pentito di aver freddato l’ex amico, ma solo di causare vittime estranee alle sue azioni. In fondo l’uomo rimane fedele al suo codice che non era quello di un ammazzasette; in ogni caso, alla Legge non basta e il ritorno della laconica voce fuori campo ci informa che il protagonista del film finirà giustiziato. Più che triste, Asfalto che scotta, almeno per quel che riguarda il personaggio di Lino Ventura, è senza speranza. Tuttavia, nella vicenda si inserisce, dopo oltre mezz’ora, Jean-Paul Belmondo nel ruolo di Erik Stark. Questi, semplicemente in qualità di amico di Raymond, il compare di Davos morto nella sparatoria sulla spiaggia di Mentone, decide di aiutare il fuggiasco sopravvissuto. Stark confessa a Liliane (una folgorante Sandra Milo), una ragazza incontrata sulla strada per Parigi, di essere un ladro. In effetti non lo vediamo impegnato in azioni cruente, seppure si spenda per aiutare il criminale Davos e i suoi due bambini. A lui, José Giovanni e Claude Sautet riservano un lieto fine insieme a Liliane: Stark non è uno stinco di santo ma a suo modo è onesto e sincero. Insomma, ha un suo codice d’onore e a quello si appellano gli autori per conservare almeno un’ultima speranza per il futuro. Il Polar è, in effetti, solo agli inizi.  





Sandra Milo 




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giovedì 21 agosto 2025

MONTE CARLO (1986)

1717_MONTE CARLO , Stati Uniti 1986. Regia di Anthony Page 

Il buon riscontro in termini di audience della miniserie Peccati confermò il momento d’oro di Joan Collins, con il successo di Dynasty e la popolarità di Alexis Colby che non accennavano a cedere di un millimetro. La CBS, la rete che aveva già prodotto Peccati, voleva battere il ferro finché caldo e imbastì un’altra miniserie abbastanza «glamour» per sfruttare al meglio la verve della Collins, che si era ormai eretta a icona degli anni Ottanta. Stando al sito The Joan Collins Archive [sito web, joancollinsarchive.blogspot.com, pagina web https://joancollinsarchive.blogspot.com/search?q=monte+carlo, visitato l’ultima volta il 9 aprile 2025], in realtà, non è che l’attrice avesse poi tutta questa fretta, vuoi per evitare di sovraesporsi mediaticamente, vuoi per non rischiare di realizzare un lavoro poco curato. Nonostante il budget di 9 milioni di dollari [almeno stando al The New York Times, pagina web https://www.nytimes.com/1986/11/07/arts/cbs-offers-monte-carlo-starring-joan-collins.html, visitata l’ultima volta il 9 aprile 2025] e le opportune modifiche apportate al romanzo omonimo di Stephen Shephard, su cui si basa il soggetto, alla resa dei conti Monte Carlo finisce per confermare i timori dell’attrice inglese. Intendiamoci: se lo si prende come sorta di capsula del tempo per fare un salto negli Eighties, caratteristica che condivide con Sins, Dynasty e altri prodotti simili, allora quello di Anthony Page può essere considerato un piacevole diversivo. C’è una robusta storia di intrighi e spionaggio, ambientata nel neutrale Principato di Monaco durante la Seconda Guerra Mondiale, qualche buona scena d’azione, l’attacco dei caccia sulla spiaggia durante un party mondano e alcuni passaggi in montaggio alternato che alimentano adeguatamente la suspense. Poi, naturalmente, ci sono gli interpreti tra cui spicca, ça va sans dir, Joan –53 anni di bellezza– nei panni della cantante russa Katrina Petrovna; sebbene si debbano ricordare almeno Malcolm McDowell (è l’irlandese Christopher Quinn), George Hamilton (è lo scrittore americano Harry Price, che avrà una storia d’amore con la Petrova) e Peter Vaughan (è Pabst, il cattivone tedesco della Gestapo). La Petrovna è una agente segreto al soldo degli inglesi: sullo schermo, una spia russa in terra francese –o quasi, trattandosi di Montecarlo– rievoca inevitabilmente la Ninotchka del maestro Lubitsch [Ninotchka, Ernst Lubitsch, 1939] interpretata dalla Garbo. Peraltro, è inutile ricordare che il rimando più evidente in materia, per quel che riguarda la Diva svedese è, naturalmente, il ruolo di spia fatale per antonomasia, Mata Hari [Mata Hari, George Fitzmaurice, 1931]. La Collins, sempre stando al citato The Joan Collins Archive, disse tuttavia di ispirarsi a Marlene Dietrich, effettivamente protagonista di un film dallo stesso titolo della miniserie tv di Page [Montecarlo, Samuel A. Taylor, 1957] oltre che adorabile agente segreto in Disonorata [Dishonored, Josef von Sternberg, 1931]. Ed è proprio in questo ambito che Monte Carlo, fondando tutte le sue fortune sulla figura di Joan Collins, non riesce a vincere la sua scommessa. Come accennato, Monte Carlo non è infatti un capolavoro del piccolo schermo ma, per la precisione, nemmeno un prodotto orribile, noioso o inutile: il problema è altrove. Ma se questo «problema» risiede nella performance della protagonista dell’opera, questo non significa necessariamente che la Collins ci faccia una pessima figura. Joan è ancora bellissima, si muove con disinvoltura nei dorati ambienti monegaschi sfoggiando una serie sterminata di abiti diversi tra loro, vezzo narcisistico dell’attrice ma, al contempo, volendo, anche plausibili nell’ottica di soddisfare le esigenze narrative dell’avventuroso copione. Tuttavia, quello che non convince è il tentativo di innestare il pacchiano glamour anni 80, qui al suo vertice assoluto, con lo stile elegante e sospeso dell’epoca. Ad essere onesti, quando la serie venne trasmessa negli Stati Uniti, ci fu chi non guardò troppo per il sottile, valga per tutti i severi censori del film il critico John J. O’Connor del The New York Times che definì il film “sciocco”. [The New York Times, pagina web https://www.nytimes.com/1986/11/07/arts/cbs-offers-monte-carlo-starring-joan-collins.html, visitata l’ultima volta il 9 aprile 2025]. Perfino più tranciante il giudizio di O’Connor su Joan Collins: “Miss Collins (…) sembra aver finalmente raggiunto la fase della carriera in cui sembra totalmente irreale. È una fotografia aerografata che cammina. La star è convinta che i suoi fan vogliano solo avventure romantiche e belle persone in abiti splendidi. Potrebbe avere ragione. 

Mentre alle attrici che la circondano non è mai permesso di sembrare più che decisamente scialbe, lei naviga attraverso Monte Carlo in più di tre dozzine di cambi di costume, fermandosi di tanto in tanto per aggiornare la trama. I produttori esecutivi di questo esercizio di vanità sono Miss Collins e Peter Holm, suo marito”. [Ibidem]. Critica assai severa che potrebbe anche essere veritiera, se non completamente, almeno in parte; è evidente che l’attrice inglese abbia avuto un ruolo significativo nella confezione formale dell’opera, essendone la star e la coproduttrice, e che si sia lasciata condizionare dal successo finalmente ottenuto grazie a Dynasty. Tuttavia, in sé, Monte Carlo potrebbe anche andare, se non fosse che, per soggetto, ambientazione e, soprattutto, palesi rimandi alle dive dell’epoca, cerchi un confronto che poi non riesce assolutamente a reggere. La questione non è se Joan Collins sia o non sia un’attrice del calibro della Dietrich o della Garbo; anzi, si può dire che, almeno nel proprio ambito, l’interprete inglese abbia guadagnato sul campo i galloni per stare nella medesima Hall of Fame delle due citate illustri colleghe. Quello che non convince è che Joan, pur avendo interpretato numerose figure di donna –dalla ragazzaccia dei primi crime movie, alla donna emancipata ma cinica e disillusa dei film dei Settanta– sembra essersi incagliata nel ruolo di Alexis. E se Mrs. Colby è perfettamente funzionale negli scandali sensazionalistici di Dynasty, non lo è nel modo più assoluto in quello che è da sempre rappresentato come il rarefatto mondo delle ambigue e fatali spie. Quelle donne bellissime avevano spesso qualche elemento androgino –a cominciare proprio dalle evocate Garbo e Dietrich– che alimentava la sensazione di inquietudine e indeterminatezza di ruoli, del resto basilare per trame ricche di personaggi che facevano il doppio quando non il triplo gioco, che lasciava campo ad allusioni esplicite o implicite ad ogni livello. L’esatto opposto della poetica opulente degli Eighties, in cui l’importante era mostrarsi e apparire, e di cui “le tre dozzine di cambi di costume” di cui scrive O’Connor non sono che un esemplare manifesto. 



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