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venerdì 17 maggio 2024

ORGASMO NERO

1483_ORGASMO NERO . Italia, 1980; Regia di Joe D'Amato.

Iniziato con Papaya dei Caraibi, il ciclo esotico-erotico di Joe D’Amato prosegue con Orgasmo nero, il secondo di una serie di film diretti dal regista romano ambientati a Santo Domingo. Il tema comune a queste pellicole è, verrebbe da dire “ovviamente”, quello erotico-pornografico, sebbene di volta in volta ci sia una qualche forma di contaminazione con altri generi popolari. Se in Papaya dei Caraibi, a sostenere la traccia erotica c’era il tema cannibalistico, negli ultimi film saranno l’horror più puro e il thriller a dividersi la scena con la trama a luci rosse. Orgasmo nero segna invece l’innesto della pornografia più accesa sull’ambientazione esotica, elevando il tono dal soft-core, che interpretava la sponda erotica del ciclo, a puro hard-core. Tuttavia, quasi a fungere da collante con il citato esordio dei film dominicani del regista, gli spunti cannibal rimangono in apertura di pellicola e in chiusura, lasciando la restante ora e mezza scarsa all’esibizioni sessuali dei protagonisti. A titolo di esempio, per questo aspetto della pellicola, si può prendere la fellatio mostrata senza alcuna reticenza, quasi in chiusura. Al netto delle scene di sesso, Orgasmo nero lascia intravvedere una blanda critica all’imperialismo culturale dei paesi occidentali nei confronti delle popolazioni indigene, in questo caso dei Caraibi. Anche l’apparente progressismo di Paul (Richard Harrison), che spesso loda le tradizioni della popolazione locale, non riesce a nascondere un evidente paternalismo. Assai più prosaica Helen (Nieves Navarro), che semplicemente sfrutta di volta in volta la situazione che le si presenta davanti; un atteggiamento che, nel racconto, utilizzerà in differenti ambiti. Tra questi c’è sicuramente quello erotico, e la donna, insoddisfatta della sua vita coniugale col marito Paul, non esita ad esplorare nuove emozioni coinvolgendo nelle sue performance Haini (Lucía Ramírez), una giovane indigena. Le scene lesbo sono quindi uno degli elementi distintivi di Orgasmo nero anche se, tra le note particolari in questo campo, va messo a referto anche un ménage à trois sessuale che coinvolge i tre protagonisti citati. Paul, Helen e Haini non danno vita al classico triangolo melodrammatico, ma D’Amato prova, con originalità, ad imbastire una flebile storia per giustificare i passaggi salienti, quelli a luci rosse, del racconto. Paul e Helen sono felicemente sposati se non fosse che non riescono ad avere figli, cosa che l’uomo fatica sempre più ad accettare. Sotto accusa, perché l’impressione in effetti giustifica una simile espressione, c’è Helen, che viene spedita dai Caraibi fino a Londra per fare degli esami che riescano a trovare la soluzione. 

Tornata sull’arcipelago centroamericano senza ancora una risposta definitiva in questo senso, Helen trova il marito sempre più indaffarato nel suo lavoro. Inizialmente la donna si dimostra comunque fedele e comprensiva, poi conosce Haini, rimasta orfana di padre, e se ne invaghisce. Tra le due scatta la scintilla e Helen invita la giovane a traferirsi con lei, sebbene per far questo, secondo le usanze locali, la madre della ragazza la debba ripudiare a suon di scudisciate. Mentre Paul è in giro per lavoro, le due approfondiscono la conoscenza, soprattutto nell’ambito che è facile da intuire. Poi, quando Haini si concede ad un maschio di passaggio, c’è qualche increspatura nella relazione –di stampo abbastanza adolescenziale, ad essere onesti– ma infine tutto si aggiusta. Almeno finché ritorna sulla scena Paul che presto scopre le due donne in atteggiamenti intimi: l’uomo, prima fa l’indignato, poi si rende partecipe, nella citata scena a tre, e la questione sembra risolversi per il meglio. Gli anni della rivoluzione sessuale, nel 1980, era passati da un pezzo, ma una coppia aperta, o meglio, un terzetto, era perfettamente nelle corde del tempo. D’Amato ha però in serbo la sua critica sociale all’imperialismo occidentale di stampo patriarcale e, allora, ecco che a scombinare questo edulcorato quadretto arriva l’esito degli esami da Londra: Helen potrà avere figli. 

Al cambiare delle condizioni –ora la coppia Paul e Helen può “metter su” davvero famiglia, con tanto di prole– cambiano i comportamenti. Adesso, Haini è di troppo e deve sloggiare, tornando al suo villaggio nonostante, dopo essere stata ripudiata, questo non sarebbe più possibile, almeno stando a quelle usanze locali tanto lodate da Paul. Al di là dell’ipocrisia dell’uomo, che a parole elogia la cultura dei nativi ma nei fatti non se ne cura minimamente, salta all’occhio l’evidente contrasto tra l’amore libero sessantottina memoria – i tre protagonisti che se la spassano felici e contenti – con la famiglia di stampo tradizionale, quella con i figli, per intenderci. Appena Helen viene avvertita che potrebbe rimanere in cinta, la situazione cambia: quasi a dire che è la famiglia, come nucleo chiuso su sé stesso, ad opporsi ad una comunità dove viga l’amore libero e, nell’esempio del film, addirittura multirazziale. Tutto questo lavoro è però, almeno dal punto di vista narrativo, piuttosto povero e, a livello di trama, tolte le abbondanti scene di sesso, il film sarebbe poca cosa. Forse, proprio per dare un po’ di sostanza a questo Orgasmo nero, D’Amato inserisce un paio di scene di cannibalismo rituale, una all’inizio del film, e l’altra giusto in chiusura. Secondo una credenza degli abitanti della piccola isoletta, quando muore un uomo, la sua donna, mangiandone il cuore, lo manterrebbe in vita. Il primo a divenire, almeno in parte, pietanza, era stato il padre di Haini; per la chiusura, questo ben poco auspicabile ruolo è destinato a chi, almeno secondo il film di D’Amato, con la sua fedeltà alla famiglia tradizionale, si opponeva all’amore libero. Ma, se davvero dovessimo credere alle usanze dei nativi del film, non ci sarebbe di che preoccuparsi: Paul vivrà comunque per sempre insieme a Helen e Haini. In definitiva Orgasmo nero è un lavoro artificioso, nel complesso, e, soprattutto, lascia l’impressione che l’ipocrisia borghese che viene criticata nel film ne sia anche parte costituente. 



Nieves Navarra 


Lucia Ramirez 


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venerdì 23 febbraio 2024

PAPAYA DEI CARAIBI

1442_PAPAYA DEI CARAIBI . Italia 1978; Regia di Joe D'Amato. 

Con Papaya dei Caraibi, Joe D’Amato stava inaugurando il suo periodo esotico-erotico, composto da una serie di film, con alcuni tratti in comune, girati in quel di Santo Domingo. A livello internazionale, nel frattempo, la moda dei cannibal-movie era ormai un’onda di piena e i produttori internazionali di Papaya dei Caraibi, decisero di sfruttarne appieno la scia. D’altronde, D’Amato, solo l’anno precedente, aveva diretto Emanuelle e gli ultimi cannibali e anche in questa sua ultima fatica si potevano scorgere un paio di rimandi che giustificassero il titolo scelto per i paesi anglosassoni, Papaya: Love Goddess of the Cannibals. In sostanza, si trattava di un imbroglio belle e buono, perché di cannibali, in Papaya dei Caraibi, non v’è traccia. Però, in un certo senso, è come se D’Amato, che pure sembra più che altro intenzionato a fare il suo film esotico ed erotico, abbia posto una serie di rimandi che giustificassero poi l’inserimento della pellicola nel genere cannibal, o almeno che questa operazione non risulti del tutto estemporanea. Ormai, dopo l’uscita de La montagna del dio cannibale (1978, regia di Sergio Martino) gli stilemi del filone erano stati definiti e D’Amato, che era regista esperto, sapeva che andavano rispettati. Sempre che si intendesse fare un film ascrivibile al genere, naturalmente e, almeno in ambito nazionale, stando al titolo Papaya nei Caraibi, non sembrava esattamente l’intenzione del regista romano. Tuttavia, come detto, alcuni elementi inseriti da D’Amato, lasciano più di qualche dubbio nel merito. Innanzitutto la scena in cui la bella Papaya (Melissa Chimenti) evira a morsi il suo malcapitato amante è certamente nelle corde del genere in questione, seppure l’operazione non sembra di natura, diciamo così, alimentare. L’altra scena particolarmente truculenta, forse questa davvero in odore di cannibalismo, avviene durante una cerimonia tribale, una sorta di rito Vudu, quando il sacerdote (l’attore caratterista Dakar), armato di coltellaccio, estrae e mangia il cuore alla vittima sacrificale. In realtà, anche alla base di questa situazione, come nel caso citato in cui Papaya opera in prima persona, non ci sono vere e proprie tendenze cannibali da parte degli abitanti dell’isola caraibica, che usano questi macabri “stratagemmi” –arrivando anche all’omicidio– per combattere e scoraggiare la compagnia che intende installare proprio lì una centrale nucleare. Il tema ecologista è insistito, come anche una severa critica al colonialismo, e nient’affatto posticcio: si tratta di elementi su cui si fonda la storia e va dato atto a D’Amato e ai suoi collaboratori di avere avuto attenzione per questi argomenti con un certo anticipo sulla comune opinione pubblica. 

Anzi, si può credere che lo stesso regista senta particolarmente la questione perché le parole della sua coprotagonista, la giornalista Sarah (la misconosciuta Sirpa Lane, molto brava oltre che, ça va sans dire, bellissima) sembrano dare voce ai pensieri dello stesso D’Amato. La reporter arriva a condividere, alla fine della sua avventurosa vacanza, l’utilizzo della violenza da parte di chi combatte per un fine giusto, come quello ecologico o di difesa della propria terra. Il finale, con la ripetizione della scena dell’autostop, la vede stavolta schierata sull’altro fronte, quello degli abitanti caraibici, e sancisce il suo definitivo “cambio di campo”. In principio, Sarah, che pure era una donna progressista, si era detta contraria ai crimini con cui gli ambientalisti isolani combattevano gli uomini della compagnia che lavorava alla centrale: tra questi, l’ultimo arrivato era Vincent (Maurice Poli, perfetto per il ruolo), geologo e vecchio amico della giornalista. Essendo un film di D’Amato, dichiaratamente esotico-erotico, i due finivano rapidamente a letto ma, in questo caso, le scene più curate del film sembrano riguardare l’amore saffico tra Sarah e Papaya. Le due ragazze, con Vincent, potrebbero costituire un triangolo melodrammatico e, in effetti, Sarah, ad un certo punto, crede che la ragazza dominicana sia gelosa della sua vecchia relazione con il geologo. In realtà Papaya è sì gelosa, ma è attratta dalla bionda giornalista mentre a suo avviso Vincent è solo un altro tecnico della compagnia della centrale nucleare da eliminare. 

L’aspetto erotico è certamente rimarcato tanto che le due belle protagoniste fanno gara ad andarsene in giro nude per lo schermo, anche in passaggi non esplicitamente piccanti: alla fine totalizzeranno quasi 12 minuti la Lane, mentre la Chimenti si fermerà a poco meno di 11. Eppure il film non è solo un campionario di corpi denudati, per quanto, per l’occasione, se ne vedano anche alcuni maschili senza veli: la trama gialla, seppur appena abbozzata c’è, e comunque la scena che precede il rito Vudu è pregna di inquietudine. Sarah e Vincent sono stati, in modo un po’ misterioso, invitati alla cerimonia della Pietra Tonda da Papaya e si trovano a girare soli in una zona deserta e poco raccomandabile del paese. D’Amato conosce il mestiere e l’atmosfera non è per niente tranquilla; alla fine i nostri troveranno la festa in questione, che sarà, a suo modo, un altro passaggio memorabile del film. Tra l’altro, il regista romano sottolinea i passaggi gialli dell’intreccio ricorrendo al marchio di fabbrica del thriller all’italiana, il whisky J&B, adottato, tra l’altro, anche dai cannibal-movie. In questo senso sorprende l’insistenza di D’Amato, che ricorre al liquore con l’etichetta gialla in ben tre occasioni diverse, quasi a voler ribadire con assoluta convinzione l’appartenenza di Papaya dei Caraibi al cinema di genere italiano. Interessante è poi l’approccio che il film ha su un altro elemento tipico dei cannibal-movie, presente in Papaya nei Caraibi ma trattato in modo originale e fuori dagli schemi ormai divenuti classici della corrente. I cannibal si contraddistinguevano per l’odiosa abitudine di inserire scene con violenza reale sugli animali e, nel film di D’Amato, la questione è affrontata in un paio di occasioni. In principio, quasi a dare subito la giusta coordinata narrativa, troviamo due dei protagonisti –quelli occidentali, “civilizzati”, Sarah e Vincent– assistere appassionati ad un combattimento di galli. 

La violenza c’è, ed è il motivo per cui i due si trovino lì, la cosa è esplicitamente ribadita in un dialogo, tuttavia, per quanto deprecabile, il combattimento tra i pennuti in questione non può certo essere messo sullo stesso piano di altre scene violente tipiche dei cannibal-movie. L’altra scena truculenta avviene durante un rito pagano, nel quale vengono squartati due maiali che, per altro, erano già morti: scena eclatante, nel mostrare i dettagli sanguinolenti, ma quasi normale amministrazione per chi va a far la spesa dal macellaio. Insomma, sembra quasi che D’Amato voglia rispettare i passaggi obbligati del genere, in questo caso esplicitamente proprio quello dei cannibal-movie, senza condividerne appieno gli aspetti più deleteri. Una parentela ribadita in modo totalmente sorprendente dall’autore romano che arriva a meta per la strada meno prevedibile. Perché la citazione più clamorosa è per un film hollywoodiano, e, oltretutto, tra i più importanti e belli della Storia del cinema: nientemeno che Improvvisamente l’estate scorsa splendido dramma di Joseph L. Mankiewicz, con Elizabeth Taylor, Katharine Hepburn e Montgomery Clift. E va detto che, pur prendendo un riferimento tanto azzardato, D’Amato se la cava egregiamente, riuscendo a sfruttarne il ricordo senza scottarsi, diciamo così, le dita. Sarah, nel suo peregrinare insieme a Vincent per l’isola, era stata fatta prigioniera dagli ambientalisti isolani ma, sorvegliata da alcuni ragazzini dominicani, era riuscita a fuggire. Incaricati dagli adulti attivisti di riparare il danno causato, i giovanissimi isolani si erano messi quindi a cercare la ragazza bionda che girovaga sperduta per le polverose strade di Santo Domingo. Accompagnata dalla musica ossessiva scandita dal ritmo dei tamburi, Sarah si trova via via tutte le strade sbarrate da ciurme di mocciosi sempre più numerosi, che la costringono, infine, sul bagnasciuga, senza via di scampo. La musica martellante, i ragazzini dominicani, la spiaggia, il mare, il cielo biancastro nella luce del giorno, tutti questi elementi rimandavano direttamente alla terribile scena cruciale del film di Mankiewicz, dove, giova ricordarlo, Sebastian, il protagonista occulto del film, finiva divorato dai bambini galiziani della spiaggia di Cabeza de Lobo. E allora sì, si può legittimamente dire che Papaya dei Caraibi, oltre che il primo film del ciclo esotico-erotico di D’Amato, sia anche un cannibal-movie. E nemmeno dei peggiori. 


Sirpa Lane 




Melissa Chimenti 



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mercoledì 7 febbraio 2024

EMANUELLE E GLI ULTIMI CANNIBALI

1434_EMANUELLE E GLI ULTIMI CANNIBALI . Italia 1977; Regia di Joe D'Amato.

Il regista Joe D’Amato, al secolo Aristide Massaccesi, è, spesso additato come il cineasta italiano più prolifico di sempre, tra film diretti e di cui ha curato la fotografia. Il suo motto è riassumibile nella sua dichiarazione: «Quello che noi abbiamo sempre cercato di fare è stato dare al pubblico quello che il pubblico voleva. Con passione ed entusiasmo. E senza un filo d'ipocrisia» [Wikipedia, “Joe D’Amato”]. Questi due elementi possono fungere da coordinate per approcciare uno a caso tra i tanti film di Joe D’Amato, senza rischiare di esagerare nella valutazione severa, sul piano artistico, e nemmeno avventurarsi in un’audace operazione di rivalutazione infondata, come ultimamente spesso capita in troppi casi. Anche Emanuelle e gli ultimi cannibali può quindi essere letto in quest’ottica: un film svelto –d’altronde D’Amato girava più film contemporaneamente e non aveva tempo da perdere– e puntuale nell’andare incontro nelle esigenze del pubblico, almeno di un certo tipo di pubblico, chiaro. Sotto questo aspetto, non si può negare la capacità del regista romano di cogliere al volo le sensazioni del momento: come evidenziato già dal titolo, in Emanuelle e gli ultimi cannibali, Emanuelle (la meravigliosa Laura Gemser), protagonista di una serie di film erotico-pornografici, è alle prese, questa volta, con i cannibali. Se Emanuelle era all’apice del successo, come testimoniano i quattro film usciti in un paio d’anni, il genere cannibal italiano era appena giunto in rampa di lancio ma si apprestava a vivere il suo momento di massimo splendore. Il paese del sesso selvaggio (regia di Umberto Lenzi), considerato il capostipite del filone, era uscito ben cinque anni prima, nel 1972, ma a far esplodere la cannibal-mania era stato, a febbraio del 1977, Ultimo mondo cannibale di Ruggero Deodato. Ad ottobre di quello stesso anno, D’Amato aveva già bell’e pronto il suo film con la protagonista del momento –almeno nel suo ambito, l’esotica Laura Gemser era una vera star– che, stando al trailer, se ne sarebbe andata addirittura in Amazzonia ad incontrare una tribù di indios antropofagi. In realtà, nonostante i titoli di coda ringrazino addirittura le autorità di Tapurucuarà per la gentile collaborazione, gli esterni del film furono girati nel Lazio, per quanto reso “giungla amazzonica” sufficientemente credibile dall’abilità di D’Amato. Oltre ad alcune scene negli studi romani, il film si avvalse di alcune location newyorkesi, che il regista utilizzò più che altro come sfondo ai suoi ripetuti passaggi erotico pornografici. 

In effetti tutte le donne del cast sono esplorate nel dettaglio dalla macchina da presa di D’Amato, a partire dalla Gemser, davvero perfetta sotto questo profilo, ma anche Nieves Navarro –è Susan Scott– Monica Zanchi –è Isabel Wilkes– Cindy Leadbetter –è la ragazza sopravvissuta ai cannibali– e perfino Anne Marie Clementi –che nel film interpreta Suor Angela– devono pagare dazio ed esibire le proprie intime grazie. Agli attori maschi questa attenzione è risparmiata, probabilmente per questioni legate alla censura, con cui il cinema erotico doveva costantemente scontrarsi. Ragion per cui, regista, collaboratori e produttori dovevano stare attenti, farsi scaltri e badare al sodo: erano, in un certo senso, le regole del gioco di quel tipo di cinema. 

Ad esempio, la “faccia tosta” di D’Amato non si limita al bluff sulla presunta complicità delle fantomatiche autorità amazzoniche ma si spinge ad una dichiarazione di autenticità del racconto, che sarebbe –almeno stando alla didascalia iniziale– il fedele resoconto della giornalista Jennifer O’Sullivan. Da questo punto di vista, nonostante quelli di D’Amato siano unicamente espedienti di grana grossa, si può cogliere un riferimento che è alla base di tutto il genere cannibal italiano, ovvero quello ai Mondo-Movie. Gli pseudo-documentari che imperversarono nella penisola dagli arbori degli anni Sessanta, fondavano la loro riuscita, a fronte delle bizzarrie esotiche mostrate sullo schermo, sulla credibilità della messa in scena. In effetti, il cannibalismo è un’anomalia quasi sradicata nella cultura umana e per riportarla al centro dell’attenzione, anche in un film come Emanuelle e gli ultimi cannibali, occorre un certo sforzo narrativo. Nel suo film, D’Amato, oltre alla citata didascalia, per dare credibilità alla sua storia, utilizza la professione dei protagonisti, con Emanuelle che è giornalista e Mark Lester (Gabriele Tinti) addirittura professore antropologo. Proprio quest’ultimo, durante il primo incontro con l’avvenente reporter, per illustrare il tema, non argomenta facendo ricorso ai suoi studi accademici, ma sfodera un filmino che sembra in tutto e per tutto un Mondo-movie. Non che ci fosse bisogno di convincere Emanuelle: in un film di D’Amato, se i protagonisti “devono” andare in Amazzonia, ci andranno in ogni caso e senza perdere troppo tempo. E se i due in questione sono Laura Gemser e Gabriele Tinti, finiranno a letto in modo altrettanto automatico. 

E non saranno i soli: memorabile la scena in cui Susan, nel bel mezzo di una spedizione scientifica, si eccita guardando lo scultoreo fisico di Salvador (Percy Hogan), e lo invita ad una scappatella nella giungla. Quando il marito di lei, Donald McKenzie (Donald O’Brien) si accorge che la consorte non è nel giaciglio notturno, si mette alla sua ricerca, sotto gli occhi divertiti di Emanuelle e Mark. Il passaggio è l’occasione per esplicitare la natura voyeuristica dell’opera, con il povero Donald costretto a spiare tra le frasche moglie e occasionale amante consumare l’adulterio; il presunto cacciatore, in realtà alla ricerca di diamanti più che di prede animali, confermerà anche in seguito l’indole di guardone concentrandosi, con particolare attenzione, sul posteriore di Isabel. L’aspetto erotico, nel film di D’Amato, è straripante come del resto era lecito attendersi da un nuovo capitolo della saga con la cosiddetta Emanuelle nera e Emanuelle e gli ultimi cannibali non delude le aspettative. Tuttavia si può osservare una certa ironia complice, da parte del regista, che non è certo tipo da prendersi sul serio. Diversamente ci sarebbe da intendere la scena in cui Emanuelle accarezza il pube della ragazza del manicomio, come sorta di terapia per empatizzare con il paziente. La ragazza in questione, davvero sfortunata, era sopravvissuta ai cannibali per finire poi rinchiusa in un istituto psichiatrico ben poco accogliente. Questo aspetto delle condizioni in cui versano le pazienti del manicomio è sottolineato, in seguito, da Emanuelle, quando cerca di motivare la violenta crisi della giovane, nella quale stacca un seno a morsi ad un’infermiera, e viene, di conseguenza, legata e immobilizzata al letto. 

Un certo approccio sociale fa spesso capolino, nelle trame di D’Amato, sebbene non si debba pretendere niente di particolarmente profondo. Piuttosto, è l’ironia l’arma che l’autore utilizza con destrezza, senza strafare ma dosandola con intelligenza. Ad esempio, nel citato incontro tra la giornalista protagonista ed il professor Lester, i due, per parlare di antropofagia, vanno a pranzo. Questo parallelo tra il mangiare e il tema cannibalico è ripetuto in un pasto nella giungla, con Isabel che, a furia di sentire parlare di carne umana come cibo, quasi a scanso di equivoci, chiede che la cacciagione sia più cotta. Il linguaggio metaforico è utilizzato ripetutamente da D’Amato, anche per i suoi momenti erotici: il citato rapporto occasionale tra Susan e Salvador, inizia con la donna che si masturba guardando l’uomo che pulisce accuratamente la canna del fucile. Tornando all’ironia, posto che anche la scena appena citata non ne sia intrisa, questa è presente anche nei dialoghi, dall’augurio “in bocca al cannibale”, al fatto che i cannibali tengano in vita i prigionieri come metodo di conservazione della carne fresca. Sono fugaci momenti che provano ad alleggerire il tono della pellicola, dando al contempo un po’ di brio al racconto. In effetti, Emanuelle e gli ultimi cannibali non brilla per ritmo o capacità di coinvolgimento dello spettatore, ad essere onesti, ma ha alcuni passaggi pesanti e al contempo efficaci dal punto di vista visivo. 

Come detto, D’Amato non perde tempo e la sua trama fila dritta spedita, fatto salvo le numerose pause erotiche nelle quali il regista prova un po’ a manovrare la macchina da presa, pur senza eccessi virtuosistici fuoriluogo. La musica di Nico Fidenco, in questi frangenti, assurge a co-protagonista, con la canzone Make love on the wing, cantata con trasporto da Ulla Linder, che alimenta il clima sensuale delle scene erotiche. Nonostante ciò, nel complesso, è comunque la deriva cannibalistica a prendere il sopravvento, del resto, il citato incipit con l’aggressione subita dall’infermiera nella struttura psichiatrica, a cui, come detto, viene amputato a morsi un seno, è una chiara dichiarazione d’intenti. Ma è nel finale che il film deraglia completamente dai suoi binari erotico-pornografici per divenire un vero e proprio cannibal: capezzoli e vagine tagliate a Suor Angela e Susan, il povero Donald che finisce tranciato a metà grazie ad una versione amazzonica del tiro alla fune. Isabel, catturata dagli indios, ritorna sulla scena in una gabbia di legno, e viene posseduta dall’intera tribù ma è infine salvata dall’intervento di Emanuelle e Mark, grazie ad un astuto stratagemma. Il canotto che porta in salvo i tre sopravvissuti, tuttavia, non assomiglia affatto ad un lieto fine, ma piuttosto una fuga precipitosa della civiltà di fronte alla prepotenza della Natura.
Ma non tanto quella della giungla, piante o animali che siano: a far davvero paura è quella umana. 













   Laura Gemser 



Nieves Navarro AKA Susan Scott



Monica Zanchi 

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