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lunedì 28 dicembre 2020

L'INDOMABILE ANGELICA

704_L'INDOMABILE ANGELICA (Indomptable Angelique). Francia; 1967. Regia di Bernard Borderie.

Il quarto episodio delle avventure della bellissima Angelica, lascia le corti reali e le ambientazioni, urbane o campagnole, della Francia del XVII secolo, per una storia che, con le sue vicende che si sviluppano nel Mediterraneo (o al massimo su un’isola o su una città portuale), la collocano in quel genere di avventure marinaresche che, al cinema, costituisce una categoria a sé stante. E, proprio come nella maggior parte di queste storie ambientate sui sette mari, ci sono ovviamente i pirati sebbene ne L’indomabile Angelica non vengano definiti come tali. Ma già il comportamento del Rescador, l’imbarcazione sotto la guida di Jeoffrey, il marito di Angelica, per quanto motivato da una causa rispettabile, è assimilabile a quello di una nave pirata; definizione invece fin quasi troppo nobile per lo scafo del marchese d’Escrainville che, come uno sciacallo, si avventura nelle acque di ogni naufragio per raccogliere eventuali superstiti da vendere poi come schiavi. E questa sarà la sorte di Angelica che, precedentemente, si trovava a bordo di una galera, un’imbarcazione tipica del periodo, sulla quale cercava di condizionare il capitano, il duca di Vivonne, ad assecondarla nella ricerca del marito scomparso. Tra Angelica e i comandanti delle navi, il duca di Vivonne prima e il marchese d’Escravinville poi, si scandaglia in modo un po’più approfondito il tema sadomasochistico da sempre sottinteso alla saga della bella nobildonna: il duca si lascia sottomettere dalla donna, mentre il marchese (da buon marchese, appunto, De Sade docet) gode nel maltrattarla. Due le scene interessanti: ad Angelica che si fa togliere gli stivali (quelli alti fino a mezza coscia, da vera piratessa) dal buon Vivonne, che per farlo le si inginocchia di fronte, fa da contraltare la brutalità del Marchese, che la strapazza mentre è in preda all’oppio. Memorabile, in questo passaggio, un dialogo, quando la ragazza si accorge della condizione alterata dell’uomo ed esclama: Siete ubriaco! E d’Escrainville, in risposta: No. Sono pazzo! 
Su queste navi, insieme ad Angelica, possiamo notare alcuni aspetti tecnici e storici della navigazione seicentesca, che i capitani si premurano di spiegare alla ragazza e, nel contempo, a noi. Insomma, l’aria di mare fa molto bene alla saga che riprende nuovo slancio, tanto che questo episodio rivaleggia con il primo per piacere della visione. Avrà forse fatto bene anche a Michele Mercier, perché quando la portano all’asta per essere venduta come schiava, appare bella come non la si era mai vista finora. Una vera meraviglia, ‘giustamente’ pagata dieci volte tanto la già considerevole quota prevista.




  Michèle Mercier







mercoledì 20 maggio 2020

LA TIGRE E' ANCORA VIVA - SANDOKAN ALLA RISCOSSA

571_LA TIGRE E' ANCORA VIVA - SANDOKAN ALLA RISCOSSA ; Italia, 1978. Regia di Sergio Sollima. 

A poco più di un anno di distanza dalla trasmissione televisiva della sceneggiato Sandokan, il regista Sergio Sollima certa di riproporre, stavolta direttamente per il grande schermo, la ricetta che ha avuto un così grande successo popolare. Diciamo subito che se si vede questo La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa! avendo ancora negli occhi l’originale, non si può non rimanere delusi. Ed è un peccato perché, tutto sommato, questo secondo episodio dell’eroe di Emilio Salgari nell’interpretazione di Kabir Bedi è un film piacevole. Fatica un po’ a carburare ma poi, quando arrivano le scene di battaglia (in questo caso spesso un po’ troppo debitrici agli spaghetti-western), e si rivedono in azione, insieme alla Tigre della Malesia, Yanez de Gomera (Philippe Leroy), Tremal Naik (Kumar Ganesh) e tutti gli altri, forse complice la nostalgia, ci si appassiona anche a questa nuova avventura dei Tigrotti di Mompracem. Operazione nostalgia a parte (carta per altro giocata in modo spudorato e consapevole da Sollima), il regista è nel complesso bravo e riesce a mettere a segno almeno una scena di grande efficacia emotiva: la morte della giovane Mita, uccisa per mano dei Rangers di James Brooks (Adolfo Celi). In ogni caso tutto il finale del film è un crescendo avvincente al quale però manca la stoccata finale: Brooks che se ne va su una barca ammettendo la momentanea sconfitta non ha certo una resa adeguata e nemmeno ce l’ha può avere l’ipotetica storia d’amore tra Sandokan e Jamilah (una Teresa Ann Savoy che non regge nemmeno lontanamente il ricordo della perla di Labuan). 

Così questo La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa! deve andare in archivio con un più di un rammarico, il minore dei quali è la delusione dello spettatore. Perché la tiepida accoglienza nelle sale del film, che fa seguito a quel Corsaro Nero che è un altro mezzo fiasco di Sollima girato nella speranza di sfruttare la scia del successo televisivo di Sandokan, ci dà un po’ la cifra della qualità dei produttori nostrani. Se lo sceneggiato televisivo Sandokan è stato un successo senza precedenti, lo si deve non certo al caso o alla fortuna; e nemmeno al soggetto di base, perché il testo salgariano ha subito un trattamento adeguato, che pur senza stravolgerne i temi, li ha resi congeniali al media televisivo. Insomma il risultato è merito proprio della realizzazione tecnica dell’opera: ben quattro anni, con la troupe stanziata per otto mesi nell’estremo oriente, le scenografie, la scelta del cast, la musica, tutto fu studiato e sviluppato alla stregua di un vero e proprio kolossal. 

Questo è il motivo del successo di Sandokan, un’opera dove l’impegno profuso dalla produzione esaltò il talento del regista e degli attori. Ottenuto il meritato riconoscimento, ci si aspetterebbe che si pensi a ripetere la formula, al massimo migliorandola laddove fossero emersi dei limiti. Ma no, perché darsi tanta pena? Il produttore italiano pensa subito a sfruttare quel lavoro il più velocemente possibile, tanto che nell’arco di un anno, escono non uno ma ben due (il secondo Sandokan e Il Corsaro Nero, che vede impegnati Kabir Bedi e Carole André) tentativi di ripetere il successo dello sceneggiato. Ma è possibile in così pochi mesi ripetere un exploit che al contrario aveva richiesto anni? No; e il dramma è che facilmente gli stessi produttori che hanno organizzato tutto ciò, metteranno poi una pietra sopra al genere piratesco con la presunta motivazione che non piace al pubblico.


Teresa Ann Savoy



domenica 15 marzo 2020

LE AVVENTURE DI MARY READ

536_LE AVVENTURE DI MARY READ ; Italia, Francia 1961. Regia di Umberto Lenzi.

L’esordio italiano di Umberto Lenzi dietro la macchina da presa è un titolo, a suo modo, emblematico. Si tratta di un film di cappa e spada, Le avventure di Mary Read, ambientato alla fine del XVII secolo tra l’Inghilterra, l’Atlantico e le Colonie in terra americana. In effetti gran parte della storia è di ambientazione piratesca, genere a cui, volendo, è possibile ascrivere l’opera. Il film, in ogni caso, è divertente, ed è strutturato come un romanzo d’appendice, con una serie di colpi di scena e cambi di situazione che incalzano la narrazione. Si comincia con la nostra protagonista, la brigante Mary Read appunto (Lisa Gastoni), al lavoro, in compagnia del nonno (Agostino Salvetti), ad una rapina di una diligenza. Il tono è scanzonato e leggero, con un po’ di pepe rosa visto la presenza della Gastoni che oltre che attrice è anche una fotomodella e quindi ha una presenza scenica che non passa inosservata. La rapina finisce male e Mary, che si era camuffata da uomo, si ritrova in carcere. Qui incontra Peter Goodwin (Jerome Courtland), nobile finito temporaneamente in gattabuia perché, per scherzo, si era travestito da bandito. La commedia degli equivoci che ne scaturisce, che in altri contesti potrebbe reggere un intero film, qua basta per un quarto d’ora di veloce narrazione. Goodwin viene rilasciato, Mary riesce a scappare, ma ormai si amano e sono destinati al lieto fine dopo un’altra serie di rocambolesche vicissitudini. Durante le quali Mary si imbarca sulla nave corsara di capitan Poof (Walter Barnes) e, dopo l’estrema dipartita di questi, assume il comando dell’imbarcazione lasciando la corsa a favore della più redditizia pirateria. La ragazza è tosta e ama il rischio, senza batter ciglio mette la ciurma al suo posto, del resto lo aveva già fatto con Peter e perfino con capitan Poof. La storia, pur se non approfondisce mai i suoi passaggi, corre veloce ed è piacevole. L’ambientazione è credibile quanto basta e soprattutto le scene di battaglia navale sono affascinanti ed evocative. Nel 1961, mettere al centro di un simile contesto una donna, che si issa a capo di una nave pirata, era oltretutto un’idea stuzzicante. Eppure Le avventure di Mary Read è giusto un onesto film in costume, ma non memorabile. Non è che si dovesse fare chissà che cosa, ma un risultato simile ad Angelica (di Bernard Borderie, 1964), almeno in termini di notorietà, si sarebbe potuto raggiungere senza problemi. 


Basti pensare che Sergio Sollima, negli anni 70, dalle vicende salgariane di carattere piratesco riuscirà a cavare produzioni di ottima fattura come il Sandokan televisivo o Il Corsaro Nero. Insomma, c’è Lenzi, un giovane regista bravo, che sa raccontare, forse ancora un po’ acerbo ma comunque di solida capacità narrativa; c’è la bionda protagonista; c’è un genere di ambientazione storica che dovrebbe essere la manna per il nostro cinema; c’è una vicenda appassionante e mantenuta divertente dalle battute di nonno Mangiatrippa, e c’è anche l’eroe aitante, Peter, a far da seconda spalla all’eroina. Tra le cause del risultato modesto c'è forse il fatto che Lisa Gastoni, seppur indiscutibilmente bella, non ha il carisma necessario per reggere un ruolo di questo tipo, dove più che le capacità recitative conta la naturale dote di bucare lo schermo. Peccato; il genere di cappa e spada italiano degli anni sessanta avrebbe avuto bisogno di qualche titolo di forte impatto, per decollare, e questa era davvero una valida occasione. Quando poi, una quindicina d’anni più tardi con Sollima troverà la vena giusta, sarà troppo tardi perché, purtroppo, il nostro cinema di genere era ormai al tramonto. 





Lisa Gastoni





mercoledì 22 gennaio 2020

IL CORSARO NERO

508_IL CORSARO NERO ; Italia, 1976. Regia di Sergio Sollima.

Kabir Bedi, Carole Andrè, Emilio Salgari, i fratelli De Angelis e naturalmente Sergio Sollima: questi sono gli artefici che accomunano Sandokan, lo sceneggiato televisivo, e Il Corsaro Nero, il film, usciti entrambi nel 1976. Praticamente lo stesso team creativo, dalla coppia di protagonisti, all’autore del soggetto, dai compositori delle musiche (fondamentali) al regista, oltre naturalmente al tema piratesco. E assai simile è il risultato: praticamente un capolavoro Sandokan, sebbene in genere la critica lo abbia sempre derubricato a semplice buon prodotto di intrattenimento, e eccellente anche Il Corsaro Nero, anch’esso abitualmente assai poco stimato. Invece Il Corsaro Nero è un film d’avventura notevole, molto divertente, appassionante, ma anche vigoroso e tragico. Certo, è innegabile che ci sia qualche passaggio a vuoto, ma del resto i film di pirati sono molto difficili da gestire; nello specifico furono profusi ingenti investimenti, molti dei quali andati perduti con l’affondamento di una nave durante le riprese. Oltre alle evidenti difficoltà di realizzazione, (per capirci: si faccia un paragone con un film western, dove si piazza il set  nella prateria invece che in mezzo al mare) anche il periodo storico non aiuta moltissimo ad appassionare il pubblico giovanile, che è il più appetibile per questo genere di pellicole. Un conto è vedere dei tizi vestiti casual, come in effetti sono i cowboy dei western, maneggiare armi a ripetizione, un altro è vedere i damerini vestiti a festa del XVII secolo armeggiare con le loro esili spade o al massimo con gli archibugi. 

In effetti a rompere un po’ la tipica diffidenza del pubblico italiano verso il genere fu proprio il Sandokan televisivo, di ambientazione più tarda e con i pirati malesi che, con le loro vesti pittoresche e un po’ trasandate, erano però assimilabili alle tendenze hippy dei seventies, e quindi di gusto contemporaneo. Ma ora, proprio grazie a Sandokan, e soprattutto a Kabir Bedi, era possibile azzardare anche una trasposizione di un altro eroe salgariano, Il Corsaro Nero, appunto. L’interessante personaggio è protagonista di un ciclo di racconti, i primi due dei quali sono alla base del soggetto utilizzato da Sollima per il suo film: Il Corsaro Nero e La Regina dei Caraibi. Kabir Bedi se è possibile è ancora più in forma che in Sandokan: domina la scena, trasuda carisma da ogni poro della pelle, ed è perfetto nel ruolo che, va specificato, ha comunque delle differenze con la Tigre della Malesia. Leale, democratico, istruito, è però anche assai cupo, spietato, con un senso dell’onore eccessivamente estremo: il carattere del Corsaro Nero lascia poi perfino interdetti quando condanna a morte la donna che ha scoperto di amare. Passaggio davvero duro da digerire, questo, ma indispensabile nel tratteggiare il rigore del protagonista e della politica occhio per occhio, dente per dente, assai in voga al tempo, e certamente diffusa anche nei tribolatissimi anni 70. Perché Sollima, non smette affatto la veste di educatore cinematografico, che si era preso la briga di rendere esplicita in Sandokan; in effetti, moltissimi spaghetti-western avevano questa vocazione, più o meno celata dietro i dialoghi scurrili o le battute scatologiche. 

Già la trilogia dei western politici dello stesso Sollima aveva un approccio impegnato al genere, ma era anche diffuso, si pensi ad esempio ai film di Ringo di Duccio Tessari, un atteggiamento pedagogico del filone, forse che alcuni registi tenessero in conto che molte delle sale in cui venivano proiettati gli spaghetti-western erano quelle degli oratori. Con Sandokan, Sollima aveva fatto tesoro della lezione, riuscendo a mettere in equilibrio un racconto duro e vigoroso, senza scadere nell’eccessivo o nelle efferatezze gratuite; il tutto in relazione alle stringenti esigenze televisive. Con Il Corsaro Nero, prodotto puramente cinematografico, Sollima ha certamente meno limitazioni, ma opta per un racconto comunque mondato dagli eccessi efferati o volgari (c’è solo qualche allusione sul piano erotico), senza rinunciare al tono tragico ed estremo del racconto. Anche troppo, in verità: la povera Honorata (Carole André, in gran forma) è lasciata dal Corsaro Nero e dai suoi, con una barca in mezzo al nulla del mare, incontro a morte certa, unicamente per la colpa di essere figlia del nemico, Van Gould (Mel Ferrer). Qui è evidente la critica a questo atteggiamento vendicativo dell’eroe, del resto già ammesso dal Corsaro Nero stesso attraverso il pianto sofferto; ma sarà la vena spirituale (un po’ naif, va detto) dell’opera a rendere manifesta la condanna all’insensata politica del taglione e del farsi giustizia da sé. Nel momento cruciale, quando il conte di Ventimiglia (alias il Corsaro Nero) ha finalmente a tiro di spada l’odiato Van Gould, sarà l’intervento spirituale dei fratelli, ovvero il Corsaro Verde e il Corsaro Rosso, precedentemente uccisi a tradimento dal nemico, a fermare la mano dell’eroe. 


Anche se poi Yara, la india-medium legata dai drammatici lutti famigliari al Corsaro Nero, chiarirà all’eroe che, in realtà, il suo cuore era già stato guarito dall’odio grazie all’amore di e per Honorata. Odio e amore sono intessuti in una vicenda avventurosa che, come da coordinate del genere, concede ampio spazio agli aspetti sentimentali; qui la vicenda amorosa è molto intensa, come i baci tra il Corsaro Nero e Honorata, anche perché, in termini di durata temporale, è compressa nel centro del racconto. In ogni caso è un film di pirati, l’avventura più pura reclama il suo spazio e Sollima glielo concede: arrembaggi, attacchi all’arma bianca, duelli, fughe, il racconto è vivace e sostenuto. 

Ottima, come al solito in Sollima, la deriva ironica quando non direttamente comica, con i personaggi come Morgan (Angelo Infanti), leggendario e famosissimo pirata di cui, almeno qui, nessuno sembra ricordare il nome, oppure con i refrain testa o croce tra i fratelli del protagonista. All’altezza anche le comparse: Van Stiller (Franco Fantasia), Carmaux (Sal Borgese), l’Olonese (Edoardo Faieta) e anche la marchesa di Bermejo (Dagmar Lassander), che aggiunge un  po’ di pepe rosa alla vicenda. Se in molti aspetti l’opera ricalca la formula del precedente successo televisivo, avrebbe avuto poco senso fare diversamente con le musiche. Chiamati quindi a trovare una melodia all’altezza della situazione, con lo scomodo termine di paragone delle fortunatissima sigla di Sandokan, i fratelli De Angelis non tradiscono le attese. Hombres del mar è un pezzo fortemente evocativo, in questo senso persino migliore della canzone dedicata alla Tigre della Malesia, e il suo tema sorregge benissimo la colonna sonora, soprattutto grazie  a José (Tony Renis) che accompagna le gesta dei nostri eroi suonando una sorta di flauto; bella anche la traccia dedicata a Yara. Il finale è forse eccessivamente sdolcinato, con i nostri che scampano la pelle miracolosamente, finendo su un’isola paradisiaca dove trovano ad aspettarli addirittura Honorata, salvata anch’essa da un generoso dio del mare. Troppa grazia? Beh, Sollima aveva già fatto morire Marianna, e la fine apparentemente riservata a Honorata non era davvero accettabile. Il lieto fine ce lo doveva, altroché. 



Carole André




venerdì 3 maggio 2019

SANDOKAN

342_SANDOKAN Italia, Francia, Germania Ovest, Regno Unito 1976. Regia di Sergio Sollima.

La produzione RAI Sandokan fu un’eccellente combinazione di molteplici fattori che risultarono concordi nel contribuire al notevole risultato finale. E bisogna stare attenti all’uso delle parole per descrivere quello che accadde perché, ad esempio, il termine combinazione può indurre a pensare al caso e quindi alla sorte, ma in questa situazione è importante dare merito al merito senza scomodare madama fortuna. Innanzitutto il format: uscito successivamente anche al cinema suddiviso in due parti, in versione un poco ridotta, Sandokan è ben più di un tipico sceneggiato dell’epoca, e qualcosa di diverso anche da una serie TV. In effetti nasce come trasposizione dai lavori letterari di Emilio Salgari, nello specifico alcuni libri del suo ciclo de I Pirati della Malesia, un’opera di notevole respiro narrativo che conferisce alla produzione televisiva una profondità strutturale già più complessa del solito. Senza troppi preamboli, ma con la giusta capacità di ambientare il racconto, ci troviamo presto in un mondo, quello coloniale di metà Ottocento nell’Asia più misteriosa, di cui si capiscono tutto sommato rapidamente le coordinate narrative. Niente di particolarmente complesso, per la verità: ma va dato il giusto merito a Sergio Sollima, il regista del film, di padroneggiare bene la materia. Ottimo autore, era già noto per la sua propensione ad approfondire gli argomenti trattati: agli esordi si dedicò ai film di spionaggio (tre, di cui due con lo stesso protagonista, l’Agente segreto 3S3), in seguito al western all’italiana (la sua trilogia politica), e al thriller (altri 3 film, meno coerenti tra loro rispetto ai precedenti cicli). 
Con Sandokan Sollima ha a disposizione 360 minuti per sviluppare a dovere il tema, sebbene anche questo lavoro avrà due episodi in qualche modo collegati (Il Corsaro Nero, sempre da Salgari e con gli stessi protagonisti di Sandokan, e il seguito vero e proprio, La tigre è ancora viva! Sandokan alla riscossa). Ma Sandokan, il maestoso sceneggiato RAI trasmesso in sei episodi, è un’opera ampiamente soddisfacente già di suo, anche senza collocarla nella trilogia salgariana dell’autore. Il regista si è ormai fatto le ossa sulla narrativa cinematografica di genere, in modo particolarmente efficace con i citati spaghetti-western; il far west è un’epopea semplice, un po’ come quella coloniale britannica in Asia, e Sollima è autore che è in grado di immergere la vicenda di pura avventura, in uno sguardo politico appassionato. Qui i pirati sono mostrati con le loro ragioni di fondo, ma anche con la loro crudezza, mentre i britannici con il loro interessi e una ostentata crudeltà a tratti anche maggiore rispetto ai rivali. Il tema della storia d’amore tra Sandokan (uno straordinario e memorabile Kabir Bedi) e Marianna (una dolcissima Carole André) è sfruttato in modo eccellente da Sollima. 

Oltre a gettare una luce sentimentale su tutta quanta la storia, (al punto che il genere del film potrebbe essere inteso come d’avventure, al plurale: sia d’armi che di cuore) il regista lo utilizza in chiave politica. La presenza di Marianna a Mompracem è prima una scusa per dedicare una sorta di documentario sugli usi e costumi dei locali, e quindi al concetto di prestare attenzione all’altro; poi nella partecipazione della stessa ragazza inglese ai balli locali, diviene un manifesto all’integrazione in chiave atipica, ovvero da parte del colonizzatore verso il colonizzato. Il clima che di lì in poi si respirerà a Mompracem (almeno fino allo sviluppo narrativo successivo), di grande felicità e spensieratezza, è attribuito alla presenza della Perla di Labuan sull’isola, e sta a significare di come il connubio tra culture diverse può portare benefici in senso generale. La funzionalità degli attori e la loro professionalità è tradizione degli sceneggiati RAI e se Aldolfo Celi (davvero strepitoso nella parte di Brooke, il cattivo) e in parte minore anche Andrea Giordana (un efficace Fitzgerald, il militare britannico pretendente di Marianna), rispettano appieno le attese, il cast ci riserva autentiche sorprese. Detto di Kabir Bedi (all’incredibile esordio internazionale), e di Carole Andrè (forse un po’ acerba ma comunque funzionale), l’interprete chiamato per il terzo elemento maschile, la spalla dell’eroe, in questo caso è in grado di rubare la scena ai due antagonisti principali: Philippe Leroy è infatti uno straordinario Yanez De Gomera, un personaggio sicuramente riuscito tanto quanto Sandokan e Brooke. 

Sfruttando la ricca fonte di spunti di Salgari, Sollima è preciso nel tratteggiare anche i personaggi di contorno: si pensi a Tremal-Naik (Ganesh Kumar) modificato dal regista per differenziarlo da Sandokan, oppure a Lucy Mallory (Milla Sannoner), seconda figura femminile della storia, e utilizzata per mettere un po’ di dialettica ficcante, tipica del gentil sesso, visto che Marianna è piuttosto parca in quel senso. Per adattare la storia, Sollima e gli sceneggiatori, scandiscono le vicende seguendo la successione dei sei episodi televisivi, prendendosi il tempo necessario anche per gli approfondimenti dei caratteri dei personaggi o delle ambientazioni. E’ un pregio non da poco perché, se la visione perde un po’ in scorrevolezza, ne guadagna nella profondità dello sguardo e nell’ariosità complessiva. 

Lo scenario illustrato da Sollima non è del tutto alieno allo spettatore italiano (o più genericamente occidentale) perché le storie di pirati si conoscono, ma quanti sono i dettagli storici (la colonizzazione britannica), geografici (le isole dell’Asia nell’area indiana), naturalistici (gli animali), culturali (usi e costumi sull’isola), tecnici (chi conosceva il praho, la barca tipica malese?) profusi nell’opera? C’è un intero mondo da far scoprire e Sollima vi si dedica con ottima applicazione. Del resto la produzione di Sandokan è degna di un kolossal hollywoodiano: due anni di preparazione, otto mesi di riprese in loco, tra la Thailandia, la Malaysia e l’India. La credibilità dell’ambientazione è così assicurata, mentre qualche perplessità viene osservando le scene del combattimento con la tigre. 
Pur se comprensibilmente complicate da rendere, l’ausilio degli effetti speciali aiuta ad ottenere un risultato certamente buono ma non eccellente, del resto legato alle capacità tecniche del tempo (di primo livello, per altro: gli stessi tecnici del Superman di Richard Donner). Tuttavia, al di là di qualche scorcio visivo un po’ artificioso, le scene dei combattimenti col felino, in particolar modo quello aereo del salto incrociato, sono di grande effetto evocativo ed ebbero una forte presa sugli spettatori del tempo. Che furono la maggioranza degli utenti televisivi italiani, essendo lo sceneggiato un successo di grandissime proporzioni; va precisato che il pubblico che si entusiasmò fu perlopiù composto da giovanissimi. E qui vanno fatti ancora complimenti a Sergio Sollima, davvero magistrale nel dosare le componenti narrative in gioco. 

Forte dell’esperienza personale e nazionale del cinema di genere, come si è detto in primis con gli spaghetti-western, il regista fornisce una prova che sul piano dell’avventura pura e del carisma dei suoi personaggi è di prim’ordine; ma il suo narrare, essendo il prodotto televisivo accessibile ad una platea tanto vasta e composta prevedibilmente anche da bambini, è mondato dagli eccessi volgari o scabrosi tipici di quel nostro cinema. Incurante della tipica insofferenza del giovane pubblico abituale dei film avventurosi delle sale cinematografiche parrocchiali del periodo, Sollima incendia la storia con una passionale storia d’amore, riuscendo a rendere più universale il suo testo. C’è anche una grande attenzione nel dare spessore ai cattivi: Brooke, che giova della straordinaria verve recitativa di Celi, è un personaggio sfaccettato, complesso, con slanci comportamentali forse non di positività in senso stretto, ma comunque articolati e certamente non banali. E Sandokan e i suoi mitici tigrotti (Ragno di Mare, Sambigliong, Giro Batol e gli altri), sono leali e certamente apprezzabili, ma duri e spietati nelle battaglie o decisi a mettere a morte Brooke una volta che l’hanno catturato. Questi aspetti furono certamente forti, soprattutto se si pensa che erano  destinati in prima serata sulla rete televisiva nazionale negli anni settanta, e la lungimiranza di Sollima fu proprio di aver eliminato ogni possibile contestazione di natura secondaria (volgarità gratuite, scene di sesso) per poter far accettare il cuore di una storia che doveva necessariamente essere così cruda per evocare il tono drammatico della vicenda e del contesto storico. 
Il finale, tragico, la morte di Marianna, lo sconforto di Sandokan, lasciano forse l’amaro in bocca momentaneo allo spettatore, ma conferiscono al racconto un tono adulto e maturo. Dal punto di vista della confezione, niente da eccepire alla qualità generica delle riprese, non certo a livello delle migliori produzioni cinematografiche ma comunque più che dignitosa, anche considerando la matrice televisiva. Un aspetto fondamentale, nel successo dello sceneggiato, fu la musica: di grandissimo impatto la sigla iniziale (che suona su immagini stilizzate che richiamano fortemente quelle usate spessissimo negli spaghetti-western), come anche quella conclusiva, con un testo efficace che rimase (e rimane) facilmente in testa agli spettatori. Bellissima, benché meno orecchiabile ma musicalmente eccellente, Caccia alla tigre, la traccia strumentale che accompagna l’inizio del terzo episodio, con le fasi di ricerca nella giungla al grosso felino. Insomma, Sandokan fu un grande successo perché nessuno dei suoi molteplici aspetti fu trascurato, e Sollima fu bravo a calibrare ogni elemento nel modo giusto. E va dato anche merito che, oltre all’aspetto spettacolare e di intrattenimento, il regista riuscì a interpretare in modo corretto la matrice educativa che la televisione di stato in un paese come l’Italia aveva sempre avuto. Questo mantenendo anche una credibilità narrativa per nulla edulcorata: insomma, un capolavoro.  





      Milla Sannoner


          
Carole André