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mercoledì 3 settembre 2025

IL TENENTE SHERIDAN - QUALCUNO AL TELEFONO

1724_IL TENENTE SHERIDAN - QUALCUNO AL TELEFONO, Italia 1959. Regia di Stefano De Stefani

Nel 1959 la Rai mise in onda un curioso programma, Giallo club – Invito al poliziesco, che inseriva, all’interno di una sorta di quiz televisivo, alcuni lungometraggi della durata di un’oretta che avevano come protagonista un personaggio che rimarrà nella storia della televisione italiana: il tenente Sheridan. Interpretato da Ubaldo Lay, che finì per essere identificato per sempre con il poliziotto dall’impermeabile color ghiaccio, Sheridan era a capo della Sezione Omicidi di San Francisco ed era ritagliato sulle figure della narrativa hard-boiled americana, come il Philip Marlowe di Raymond Chandler o il Sam Spade di Dashiell Hammett, tenendo figurativamente d’occhio soprattutto Humphrey Bogart nei suoi celebri noir. Ma con qualche significativa correzione: via il cappello, forse troppo comune ai gangster, e niente whisky, visto che il buon tenente beveva latte. Un particolare che sembrava voler stemperare un po’ il clima plumbeo degli argomenti, come detto il tenente lavorava alla Omicidi, con un rimando ai fumetti e a quel Cocco Bill, personaggio di Jacovitti quasi coevo di Sheridan, che girava i saloon del far west bevendo camomilla in luogo del più comune torcibudella. Del resto il rifermento al mondo delle nuvole parlanti era ufficialmente dichiarato dagli autori che si ispirarono a Ezechiele Lupo della Walt Disney per il nome di battesimo di Sheridan, poi familiarmente chiamato Ezzy. Questo rimando –a quello che è in sostanza uno dei cattivi dell’universo disneyano, per la precisione il lupo cattivo che vuole mangiarsi i tre porcellini– è un elemento curioso, perché presenta Sheridan come personaggio non del tutto positivo. Lay, oltretutto, alimenta questa deriva, con una maschera poco espressiva se non per il suo trasmettere inquietudine; insomma, non certo un personaggio rassicurante. Forse è anche per questo che gli autori ambientarono la serie fuori dall’Italia, e non solo genericamente oltreoceano ma a San Francisco, ben più lontano, per esempio, della Nuova York che con la sua Little Italy aveva comunque un’area famigliare nel Belpaese. L’«invito al poliziesco», di cui parlava il programma contenitore, forse aveva proprio questo scopo: far comprendere agli italiani che le forze dell’ordine, anche per la natura del loro ruolo, non erano necessariamente composte da cherubini e anime nobili. Una preoccupazione inutile, a dirla tutta, considerata la Storia del nostro Paese, ma onesta in ambito teorico e necessaria a non creare equivoci. E, rammentando le parole del commissario Alzani –ricordato come il primo poliziotto della Tv italiana, dove Sheridan è il secondo– si può comprendere come quest’operazione di caratterizzazione delle forze dell’ordine sia stata fatta prendendola alla larga, ovvero passando dalla lontanissima California. Alzani (Renato De Carmine), nell’ultimo episodio della serie Aprite: polizia! sostiene infatti che “la delinquenza non latina è sempre più crudele, più cinica”. In pratica, parole in linea alla strategia alla base della scelta di ambientare a San Francisco la serie cardine di Giallo club – Invito al poliziesco, ovvero un po’ quella di gettare il sasso nascondendo la mano. Per «svezzare» il Paese e farlo crescere – compito primo della televisione di stato – occorreva fargli fare i conti con la propria metà oscura –lo scopo catartico del racconto giallo– e con la natura delle forze dell’ordine – quello più didattico del poliziesco– ma non era il caso di essere traumatizzanti. Per cui, per prendere confidenza con questo tema, ovvero l’ambiguità nel quale si muovono gli uomini deputati alla sicurezza della collettività, meglio uno sguardo senza filtri ma che non ci coinvolga subito direttamente. In fondo un saggio emblematico della politica intrisa di spirito paternalistico che caratterizzava la classe dirigente dello Stivale. La serie, una volta fatta la tara alle circostanze dell’epoca, si può affermare sia realizzata con solido mestiere e, oltre al tenente protagonista, prevedeva personaggi fissi come il sergente Steve Howard (Carlo Alighiero) e l’agente Mills (Sandro Moretti), figure ricorrenti che aiutavano lo spettatore a familiarizzare con i racconti. Il primo episodio, Qualcuno al telefono, mette subito in mostra le capacità intuitive del tenente della Omicidi e l’accuratezza formale del film, sceneggiato da Mario Casacci, Alberto Cianbricco e Giuseppe Aldo Rossi, e poi diretto da Stefano De Stefani.      


martedì 17 giugno 2025

LA SECONDA MOGLIE

1685_LA SECONDA MOGLIE (The second woman)Stati Uniti 1951. Regia di James V. Kern

Per una volta, possiamo perdonare la faciloneria dei distributori italiani che decisero di intitolare La seconda moglie, il film dello sconosciuto James V. Kern che, nell’originale ha certamente un nome più pertinente, The second woman, ovvero «la seconda donna». Evidentemente, la voglia –leggi la possibilità di incrementare i guadagni al botteghino– di rendere esplicito il rimando al capolavoro hitchcockiano Rebecca – La prima moglie [Rebecca, di Alfred Hitchcock, 1940] era troppo forte per resisterle. E, in effetti, i riferimenti al celebre film del maestro inglese sono evidenti, sebbene se ne potrebbero trovare anche altri, ad esempio Angoscia [Gaslight, di George Cukor, 1944] per quel che riguarda il «decor» di certi ambienti. Ma rischieremmo di affossare troppo La seconda moglie che non ha la statura artistica cinematografica di quei capolavori. E sarebbe un peccato, perché il film di Kern è un onesto intrattenimento che sfrutta gli illustri capostipiti del genere per inserirsi discretamente nella loro scia, senza pretese autoriali ma approfittando del contesto ormai consolidato per giocare la sua partita mistery. Il tema è, infatti, di natura «gialla» con un enigma da risolvere che riesce, a distanza di tanti anni, a sorprendere ancora lo spettatore. La costruzione dell’incastro misterioso, infatti, è costruita coi tempi giusti e l’insorgere sul dubbio di chi possa essere il vero colpevole colpisce lo spettatore giusto un attimo prima della rivelazione della trama sullo schermo, esattamente come dovrebbe fare un Giallo da manuale. Certo, la sceneggiatura ha qualche forzatura, ma siamo nel campo di un film smaccatamente di genere, che ammette sin da subito di sfruttare l’eco dei più importanti esempi del filone. E se in questo ambito La seconda moglie ammette senza pudore il suo essere dichiaratamente opera minore, dal punto di vista formale il film è di ottimo livello, come si conviene alla Hollywood del tempo. Le location suggestive –la casa sulla scogliera, il mare ruggente sugli scogli– sono fotografate in un bianco e nero che attinge direttamente dai noir del decennio al tempo appena trascorso. 

Gli arredi delle case, i dettagli degli interni, certe inquadrature audaci, rimandano invece all’horror, per un mix comunque ben calibrato. Robert Young –nei panni di Jeff Cohalan, il protagonista vittima di una sorta di complotto che lo vuole distruggere– se la cava con la tipica nonchalance. A dargli man forte, e a salvarlo in dirittura d’arrivo della vicenda, c’è la controparte femminile, Ellen Foster, a cui Betsy Drake dona garbo e dolcezza ma a cui manca forse un po’ di consistenza scenica. Tuttavia la cosa, considerato il tenore di La seconda moglie, non disturba affatto la visione. E, come accennato, per una volta non disturba nemmeno il titolo italiano che riesce a essere doppiamente fallace; il che è, a suo modo, una sorta di record. Perché il titolo fa riferimento a due mogli del protagonista che, in realtà, non si sposa mai. Si è detto che Jeff è al centro di un complotto, per via del quale si sente invece perseguitato dalla sfortuna; o è, piuttosto, il senso di colpa per la morte di Vivian (Shirley Ballard), la sua fidanzata? Perché, a differenza da quanto indicato dal titolo italiano, la prima donna del protagonista muore durante un ricevimento prima delle nozze, e quindi quando ancora non è sua moglie. Ma neanche Ellen, la presunta seconda moglie a cui fa esplicitamente riferimento il titolo italiano, fa in tempo a sposarsi Jeff che, per quel che si vede nel film di Kern, rimane scapolo fino ai titoli di coda. Se non fosse che l’equivoco è tutto italiano, si potrebbe perfino pensare che il regista ci scherzi su: manca poco al sipario, i due protagonisti si stagliano su quel rabbioso mare che ha fatto da sfondo a tante scene del film ma la musica ci fa ampiamente capire che siamo al lieto fine. Jeff chiede quindi il permesso di formulare una domanda e Ellen si illumina in volto: in effetti sembra proprio la premessa per una richiesta di matrimonio. Invece l’uomo chiede delucidazioni su come la ragazza, esperta in materia di calcoli statistici per una compagnia di assicurazioni, sia riuscita a risolvere il giallo e a salvarlo per tempo. Ma è solo un diversivo, perché l’amore sboccia per il classico appassionato bacio finale e per il matrimonio ci sarà certo tempo in seguito. Ai distributori italiani rimane il record di due errori in un unico titolo. 





mercoledì 21 maggio 2025

NESSUNO DEVE SAPERE

1671_NESSUNO DEVE SAPERE Italia, Germania, 1972. Regia di Mario Landi

Nel settembre del 1972, Il Padrino di Francis Ford Coppola [Il Padrino, Francis Ford Coppola, 1972] era uscito anche nelle sale cinematografiche italiane; un film che aveva portato alla ribalta internazionale l’argomento mafioso. Peraltro, nel Belpaese, Pietro Germi, Francesco Rosi, Elio Petri, Giuseppe Ferrara, Damiano Damiani, tra gli altri, avevano già dato corpo ad un filone cinematografico che poteva assurgere a rango di vero e proprio «genere». Curiosamente minore l’attenzione al fenomeno che aveva fin lì prestato la nostrana televisione; che al tempo, in Italia, voleva sostanzialmente dire Rai, l’emittente di stato che più che un emittente era una vera e propria istituzione nazionale. Nell’ottobre del 1972 era stato trasmesso Joe Petrosino, uno sceneggiato storico-biografico per la regia di Daniele D’Anza, ambientato prevalentemente a New York ma con passaggi in Sicilia e strettamente connesso all’argomento mafioso di origine italiana. Intanto, contemporaneamente, in quello stesso ottobre ’72, nella Germania Ovest andava in onda una coproduzione tra le tedesche Taurus e Westdeutscher Rundfunk e l’italiana Rai: Blutige Straße, uno sceneggiato televisivo di oltre quattro ore e mezza ambientato in Calabria. Nessuno deve sapere, questo il titolo italiano dell’opera, verrà trasmesso nello Stivale solo nel corso del 1973, nonostante fosse stato realizzato nel 1971 e comunque pronto per la messa in onda l’anno successivo, come evidenziato dai palinsesti tedeschi dell’epoca. Un ritardo nella messa in onda, un po’ clamoroso per la verità, che è, o sembra essere, semplicemente il primo di una serie di episodi che ha sempre messo Nessuno deve sapere in ombra, in secondo piano, quasi a voler intendere il titolo in senso metalinguistico. Uno sceneggiato che è meglio non sia visto, insomma. Un’impressione mantenuta vivida tutt’ora dalla perdurante difficoltà di visione dell’opera, sia in DVD che su qualche piattaforma streaming; e dire che la Rai ne gestisce una, Rai Play, che offre un’ampia scelta tra gli sceneggiati d’epoca. Questo, soprattutto, in considerazione dell’eccelso valore del film di Mario Landi, regista di Nessuno deve sapere, che va ascritto senza alcun timore di smentita tra le produzioni meglio riuscite del citato genere mafioso. Lo sceneggiato venne girato completamente in esterni, cosa non ancora del tutto abituale per questo tipo di produzioni televisive, e Landi fa un utilizzo del mezzo di ripresa in linea con i criteri cinematografici –le zoomate, i carrelli all’indietro, i movimenti di macchina– che impreziosiscono il linguaggio tecnico dell’opera. Le ambizioni del regista siciliano sono dichiarate anche da evidenti riferimenti al cinema «di genere» italiano, ad esempio con lo spazio riservato agli inseguimenti in auto, un topos dei poliziotteschi, e l’attenzione prestata alle vetture coinvolte, in questo caso spicca la Maserati Indy del protagonista, è la conferma che non si tratta di scene inserite per mere esigenze narrative. La bottiglia di J&B whisky, che compare distintamente in un paio di occasioni, è il sigillo di garanzia sull’operazione di affiliamento di Nessuno deve sapere al cinema «di genere» italiano, essendone il liquore dalla bottiglia verde con etichetta gialla e rossa il riconosciuto marchio di fabbrica. Questi rimandi non sono sterili virtuosismi cinefili ma la dichiarazione d’intenti di Landi, che stempera efficacemente il clima narrativo di Nessuno deve sapere che, diversamente, rischierebbe di essere troppo cupo e pessimista. C’è la necessità, sentita da parte dell’autore, di essere credibile e fedele alla realtà storica, ma c’è anche la volontà di lasciare uno sguardo ottimista, di non annegare tutto quanto in un fatalismo senza speranza. Questa difficoltà nel ricercare un punto di equilibrio tra istanze diverse, e forse anche contrastanti, si evidenzia anche nel linguaggio parlato nello sceneggiato: una stretta aderenza al dialetto locale avrebbe infatti reso l’opera intelleggibile dal pubblico nazionale. La presenza nel racconto di numerosi protagonisti provenienti dal nord Italia, permette di utilizzare sostanzialmente sempre l’italiano come lingua «ufficiale» del film, con le varie cadenze e inflessioni dei vari personaggi di turno. L’argomento è, infatti, la costruzione di un’infrastruttura autostradale in Calabria ad opera della Mondial-Strade, una società di Milano, che subappalta quindi i lavori ad imprese locali. A questo punto subentra il tema legato alla criminalità organizzata, con cosche mafiose che si contendono la concessione dei lavori, facendo ricorso al tritolo e causando la morte di un guardiano di un cantiere. Pietro Rusconi (Roger Fritz), il giovane ingegnere arrivato dal capoluogo lombardo per dirigere i lavori, ne rimane sconvolto ma non intende assolutamente accettare queste intimidazioni; anzi, vuole andare a fondo della questione, e scoprire chi sono mandanti ed esecutori del crimine, a costo di dare le dimissioni dal suo incarico in azienda. 

Il ragionier Meneghini (Corrado Olmi), che gestisce il cantiere, cerca di farlo desistere, in luogo ad un maggior pragmatismo d’interessi; suo zio Giovanni (Claudio Gora), titolare dell’azienda, da Milano si precipita in loco per schiarire le idee al nipote. Intanto i mafiosi locali si disputano l’appalto e la supremazia territoriale: don Nico Crifodo (Renato Baldini), boss mafioso in carica e titolare della Sud Strade, scoraggia a suon di esplosivo i fratelli Cosenza (Gianni Ottaviani e Giuseppe Scarcella), concorrenti venuti da fuori, da Castrovillari. Ma Crifodo ha le ore contate: don Sante Badalamessa (il grande Salvo Randone), il vecchio padrino tradito a suo tempo proprio da Crifodo, è tornato per riprendere il suo ruolo e saldargli il conto. In controluce a queste vicende criminose, la trama prevede una robusta ma sobria trama sentimentale: Maria (Stefania Casini), sensibile ma immatura ragazza calabrese, si invaghisce di Pietro, il giovane venuto dal nord, scatenando la gelosia di Mario Cuturi (Antonello Campodifiori), amico di infanzia e ora geometra del cantiere. In seguito arriva sulla scena anche Daria (una spumeggiante Gaia Germani), fidanzata di Pietro oltre che superficiale esponente della borghesia milanese capace tuttavia di alcuni tra i momenti più acuti e interessanti dell’intero film. Sono infatti i dialoghi i passaggi che rendono davvero profondo l’approccio di Nessuno deve sapere al tema trattato: sul momento, dopo il primo episodio, l’attacco alla società calabrese, così legata ad un sistema dove la violenza e la prevaricazione siano la norma, sembra durissimo. Ma nel corso del racconto, il quadro si delinea con maggiore dettaglio. Nella terza puntata, ad esempio, c’è un bel dialogo tra Pietro e il sindaco Cesare Cuomo (Adolfo Lastretti) che chiarisce meglio la situazione: “Ma l’avete guardato bene, questo paese”, attacca la sua arringa il primo cittadino, “industrie qui non ce ne stanno, lavorare la terra ormai non basta più e si fatica per niente, per un pezzo di pane, e non potete neanche immaginare quanto ci costa. E poi domani? La gente ormai non ce la fa, e per questo continua a scappare. Ma questi sono mali antichi. Adesso insieme ai mali c’è la delusione che ci avete dato voi”. “Noi?” chiede stupefatto l’ingegner Rusconi. “Certo”, continua il sindaco, “il Nord. L’industria. La civiltà. Ci s’era allargato il cuore alla speranza. Arriva la strada, arriva lavoro. E invece il lavoro serve a rinforzare, a dare altro potere a chi ci succhia il sangue. E noi che dobbiamo pensare? Quello che penso io quando ho visto come agisce la vostra impresa. Voi li aiutate. Con voi la parte marcia mette radici nel cemento, nell’asfalto”. Poi la discussione si sposta sulla differenza dei cittadini di fronte alla legge. Ancora Cuomo alle prese con lo stupore del giovane lombardo: “Perché lei non la sa differenza che c’è tra uno del nord e uno di qui?” Pronta la replica dell’ingegnere: “No. Di fronte alla Legge non c’è nessuna differenza”. “Lo dite voi” controreplica il sindaco, “Per essere considerato buon cittadino dello stato italiano, uno del nord deve rispettare la Legge e farla rispettare. Deve pagare le tasse eccetera eccetera. Ma per considerare buon cittadino uno del sud si richiede, oltre a tutto questo, che rischi la vita, sua e dei suoi famigliari, i suoi beni e tutto quello che ha”. 

In effetti, la Mondial-Strade, per eseguire i lavori aveva indetto formalmente un appalto, del quale si erano interessanti anche i Cosenza, arrivando da fuori paese; i quali, prima di partecipare, avevano chiesto all’ingegnere se fosse il caso. Pietro Rusconi, in totale buona fede, li aveva invitati a fare la propria offerta che sarebbe stata presa in esame con serietà e rispetto. Meneghini prima, suo zio poi, gli avevano imposto si scegliere l’impresa del paese, la Sud Strade, senza creare problemi. Per chiarire: il tritolo sotto la macchina dei Cosenza era uno di quei problemi. E anche la successiva esplosione nel cantiere della Sud Strade, quella che aveva causato la morte del guardiano, era un altro di quei problemi. Oltre ad essere da ascrivere alla logica delle faide tra le cosche e, in questo senso, accusando apparentemente i Cosenza. In realtà, a quel punto, stava rientrando in gioco Badalamessa che aveva un vecchio conto da regolare con Crifodo. Le parole del sindaco erano sacrosante, questo è chiaro; ma, in un certo senso, anche le spiegazioni dello zio Giovanni, più che le vaghe giustificazioni di Meneghini, non erano del tutto campate in aria. Il problema della Mafia, o della Ndrangheta, come viene definita esplicitamente da Maria nel primo episodio, deve essere risolto principalmente dal basso, dalla popolazione civile. Naturalmente le istituzioni e le influenze dall’esterno, come le imprese del nord, devono collaborare in senso onesto e rispettoso delle regole, ma occorre un cambio di mentalità costruttivo da parte dell’individuo che per primo subisce le conseguenze di questa situazione. Difficile stabilire se questa conclusione sia giusta o quantomeno realizzabile: è, peraltro, quella che emerge dal finale di Nessuno deve sapere, opera che segue la regia di Mario Landi, siciliano di Sicilia, terra di Mafia anch’essa come la Calabria. Infatti, Pietro Rusconi, l’emancipato uomo del nord, che arriva con la Maserati e cerca di risolvere le questioni di petto, ponendosi addirittura sopra la Legge, si veda il rapimento del piccolo Pietruccio, viene spedito a New York. Un luogo evidentemente a lui più consono e dove potrà far valere le sue qualità in un contesto adeguato. I problemi di Nessuno deve sapere, simbolicamente quelli della Calabria, deve risolverli altrettanto simbolicamente il geometra Mario Cuturi, uno del posto. Emancipato e istruito, ma del posto. A cui spetta, a parziale ricompensa per la bella gatta da pelare che gli autori rifilano, la prevedibile storia sentimentale con Maria, sua storica fidanzata, che ormai ha dimenticato Pietro. Questo finale, in qualche modo ottimista, compensa adeguatamente l’atmosfera cupa che lo sceneggiato assume spesso, soprattutto nel suo prendere il periodico congedo di puntata quando Domenico Modugno intona la struggente ma tremendamente evocativa Amara terra mia. Ma tutto il commento sonoro è notevole, opera di Ennio Morricone, del resto. Altrettanto efficaci sono le immagini, per quanto spoglie e minimaliste, che mostrano alcuni viadotti autostradali in cemento armato e che, accompagnate dal malinconico motivo della sigla, introducono ogni episodio. Nessuno deve sapere: un capolavoro che si intuisce sin dal primo fotogramma.       




Stefania Casini 


Gaia Germani 




lunedì 19 agosto 2024

BUIO NELLA VALLE

1532_BUIO NELLA VALLE . Italia 1984; Regia di Giuseppe Fina.

I misteri di Alleghe, cosiddetti dal titolo del libro di Sergio Saviane che aveva portato in luce la tragica vicenda ambientata nel paesino dolomitico, erano stati, nel 1965, oggetto di un trattamento cinematografico. La donna del lago, di Luigi Bazzoni e Franco Rossellini, era ufficialmente ispirato all’omonimo libro di Giovanni Commisso, e, in ogni caso, si discostava abbastanza dai fatti reali, perlomeno dalla versione degli stessi abitualmente riconosciuta. Una ventina d’anni dopo, la vicenda approda in televisione, per opera di Giuseppe Fima, nella forma di sceneggiato in due puntate, per una lunghezza complessiva di circa tre ore. Buio nella valle sembra, almeno a grandi linee, più attinente agli eventi storici; ma senza esagerare. Fina, il regista, al tempo, per spiegare lo strano rapporto che lo sceneggiato ha con la realtà, intervistato dal settimanale Radiocorriere TV, dichiarò: “mi chiedevo come fosse possibile che, in un paesino dove si conoscono tutti, si possano far passare per suicidi una serie di omicidi, quando uno dei morti ha la testa quasi troncata da una rasoiata, l’altro, che è stato dichiarato annegato, non ha acqua nei polmoni… insomma, Alleghe per me è diventato un simbolo, il microcosmo che rappresenta il mondo. Non ho voluto fare un «giallo», ho voluto piuttosto raccontare come si articola il meccanismo del sopruso, come si saldino le connivenze tra il potere economico e il potere politico, come c’entrino il sesso e la morale, come favore chiami favore, come infine la giustizia finisca per trionfare lasciandosi però alle spalle anonimi eroi, vittime innocenti. A me non interessa tanto la catena di delitti quanto i meccanismi che riescono ad alterare la verità”. [Teresa Buongiorno, Un nido di vipere, Radiocorriere Tv n. 38/1984, pagina 12, settembre 1984].


Il risultato di queste intenzioni è un racconto filmico strepitoso nella prima parte, una sorta di L’albero degli zoccoli [1978, di Ermanno Olmi] da incubo, adeguatamente introdotto dalle immagini inquietanti dei titoli di testa, accompagnati dalla musica terrorizzante di Romolo Grano. Pur raccontando di delitti, ed essendo destinati al Secondo Canale RAI, da sempre più permissivo in questo senso del “Primo”, Buio nella valle non eccede nella rappresentazione fisica della violenta. Quella che è letteralmente spaventosa è quella morale che i protagonisti esprimono senza alcun ritegno, personaggi di una cattiveria assolutamente inaudita. Fintanto che Luigi Cosic (un monumentale Alain Cuny) è ancora abbastanza giovane da sfoderare tutta la sua maligna prepotenza, lo sceneggiato è letteralmente sostenuto dalla sua crudele verve, che costringe tutti i suoi compari, perlopiù famigliari, a darsi da fare, negli ora famosi atti criminali. Nella seconda parte del racconto filmico, Luigi appare invecchiato e, giocoforza, costretto a essere più guardingo; guarda caso anche Buio nella valle, come opera, ne risente, si affievolisce. Qui si fanno strada le indagini del carabiniere Sanna (Luca Barbareschi) che porteranno a dipanare l’intrigo; tuttavia, diversamente che in un «giallo» di stampo anglosassone, questa parte è la meno avvincente, per quanto ugualmente interessante.
Nella realizzazione del film, la prima cosa che fecero lo stesso Fina, Marcello Coscia e Luigi de Santis, in sceneggiatura, fu spostare cronologicamente gli eventi, forse per dare una maggior unità di tempo al racconto, ma ebbero l’accortezza di mantenere tutta quanta la prima parte della vicenda ambientata in epoca fascista. Il rapporto dei fatti col Fascismo, che sembra evocato dalle stesse parole di Fina nella citata intervista, è puntellato da una serie di dettagli portanti dello sceneggiato. Il patriarca di casa Cosic, Luigi, è definito un “Marcia su Roma”, una sorta di onorificenza verbale per aver partecipato alla nota manifestazione Fascista del 1922. 

Un altro dei personaggi cardine della storia, del tutto inventato in sede di stesura del soggetto, è il gerarca De Cesa (Carlo Alighiero, bravissimo), elemento che, con la sua influenza, è decisivo nell’insabbiamento dei vari delitti. Il rapporto tra De Cesa è la famiglia Cosic è esemplare della situazione che Fina, con Buio nella valle, vuol denunciare: ufficialmente è una figura di potere, ma è subalterno a Luigi, per gli illustri trascorsi fascisti di quest’ultimo nonché per la sua disponibilità economica, necessaria al gerarca per combinare i suoi affari. Sul posto di lavoro, De Cesa è il diretto superiore di Alvaro (Orso Maria Guerrini, fortissimo anche lui), figlio di Luigi; ma ne è da questi controllato. Anche tramite Lidia (Maria Schneider, vera star dell’opera), moglie di Alvaro ed amante di De Cesa, figura simbolica, con la sua spietata ambiguità che lascia credere, a brevissimi sprazzi, di avere un filo di umanità. Rimane il dubbio –formale, beninteso– che, sia nei confronti di De Cesa che, nel finale, con il reduce Egidio (Maurizio Donadoni), possa ancorare la sua recita ad un barlume, un ricordo, di umanità; un’attitudine del tutto sconosciuta tanto a Luigi che ad Alvaro, due predatori senza l’ombra di coscienza. Quella che, al contrario, potrebbe avere Antonio (Renato Scarpa), secondo genito di casa Cosic ed anello debole della famiglia. Proprio la sua incapacità di sopportare il rimorso per i delitti commessi dai suoi congiunti, lo spinge a confessarsi con la sposina, Isa Mascia Musy) proprio durante il viaggio di nozze. Pessima idea: la ragazza, già debole di nervi, crolla di fronte all’atroce verità, e quando Luigi, Alvaro e Lidia se ne accorgono, la sua sorte è segnata. In mancanza di un lago –la Produzione aveva tagliato brutalmente i costi costringendo Fina e i suoi collaboratori a dimenticarsi un’eventuale trasferta sulle alpi orientali– la giovane, una volta uccisa, viene gettata in un torrente. 

Dettagli marginali, d’altronde anche la sigla iniziale, in ogni caso molto efficace, è girata in Valle d’Aosta e il paese in cui è ambientata la vicenda è quello fittizio di Pradegà, in luogo dell’originale Alleghe. Ma, come detto dallo stesso autore nella citata intervista, il suo intento non era una ricostruzione storica della vicenda, semmai un’analisi sociale che potesse essere ancora valida. Buono l’intento; tuttavia, l’impostazione ideologica degli autori mostra, già ad una prima analisi, la propria inadeguatezza: il Fascismo non era un elemento poi così significativo, o almeno non era la profonda causa scatenante. Il Fascismo diventa un problema, anche nell’ottica di Fina che racconta dei fatti di Alleghe per descrivere l’Italia degli anni Ottanta –un proposito che può clamorosamente essere funzionale ancor oggi– se consideriamo la sua capacità di propaganda, forse la vera chiave del successo del movimento di Mussolini, allora come adesso. Ma è unicamente una sorta di “vestito della festa” –tra mille virgolette– per una mentalità arcaica assai ben più radicata nella nostra cultura. Buio nella valle è, in ogni caso, una valida rappresentazione della situazione: De Cesa, come detto gerarca fascista della zona, dopo la guerra si ricicla e continua a fare le stesse identiche cose. Certo, la “camicia nera” era un abito comodo, per fare i propri porci interessi, ma la sostanza cambia assai poco. I personaggi più significativi sono però Luigi, Alvaro e Lidia: il primo, come detto, è stato fascista, è addirittura un “Marcia su Roma” ma, in pratica, se ne frega del Fascio e pensa esclusivamente al suo interesse, per ottenere il quale non ha alcuno scrupolo. 

Alvaro ne è la versione leggermente aggiornata: privo di qualsivoglia riferimento politico, sociale o sentimentale, è il braccio armato di Luigi. Il suo essere l’esecutore materiale degli ordini criminali del padre, lo relega ad un livello inferiore, in chiave umana, anche rispetto allo spregevole genitore. La figura di Lidia porta con sé alcune differenze, in quanto donna e, quindi, sfavorita nella società patriarcale ma dotata di qualche opportuna arma tipica del gentil sesso. Su questa questione il regista Giuseppe Fina si scontrò con l’interprete Maria Schneider: l’attrice, al tempo, pativa ancora per la sua fama, legata indissolubilmente all’essere stata la Jeanne –“quella della scena col burro”– nel controverso Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, seppure fossero passati ormai dodici anni. [Lina Agostini, Quel maledetto ultimo tango, Radiocorriere Tv n. 39/1984, pagina 20, settembre 1984]. La Schneider avrebbe voluto dare a Lidia, il suo personaggio, una caratterizzazione unicamente feroce; Fina si impose, a sentire l’attrice, e pretese che la protagonista dello sceneggiato avesse una certa propensione sensuale. Che non si vede poi molto, in realtà. Perché quel poco che Lidia lascia intendere, quei rari momenti di intimità, non sono altro che una strategia differente rispetto ai degni compari, che, per seguire i propri scopi, perseguono invece prepotenza brutale, Luigi, o appena velata di ironia sarcastica, Alvaro. Ma sono tre facce di un unico mostro, quello dell’avidità, dell’egoismo, del disprezzo, dell’arroganza: un mostro assai più antico, e radicato, e che il Fascismo semplicemente cavalcò e provò a codificare, a strutturare ideologicamente. Ma che, in buona sostanza, non riuscì mai davvero a domare. 





Maria Schneider


Mascia Musy 



sabato 17 agosto 2024

LA DONNA DEL LAGO

1531_LA DONNA NEL LAGO . Italia 1965; Regia di Luigi Bazzoni e Franco Rosselli.

Alla base di La donna del lago, film diretto a quattro mani da Luigi Bazzoni e Franco Rossellini, c’è il romanzo omonimo di Giovanni Comisso, a sua volta ispirato dal caso dei delitti di Alleghe. Tra il 1933 e il 1946 cinque omicidi commessi nei pressi del lago di Alleghe, erano rimasti sostanzialmente impuniti, almeno fino all’indagine giornalistica di Sergio Saviane, che, nel 1952, pubblicò un articolo in proposito su Il lavoro illustrato. Dopo varie peripezie anche giudiziarie, nel 1964 Saviane diede ulteriore forma narrativa alle sue informazioni con la pubblicazione de I misteri di Alleghe da cui scaturì un’indagine investigativa dei Carabinieri che portò all’arresto dei responsabili e alla loro successiva condanna.
Ispirandosi a questa vicenda, con l’aiuto di Giulio Questi in sede di sceneggiatura, Bazzoni e Rossellini imbastiscono un’opera allucinante, sfuggente ed onirica, che prova a interpretare gli stilemi del giallo discostandosi dalla tradizione anglosassone. Qui c’è poco da dedurre, perché tutto è confuso, le persone sono reticenti a parlare, le informazioni vaghe, tanto quelle che recupera il protagonista, Bernard (Peter Baldwin), quanto quelle che vengono fornite al pubblico. Lo spettatore si trova quindi nella medesima condizione del personaggio principale, uno scrittore che si reca in un paesino di montagna, affacciato su un lago, per trascorrere un breve periodo fuori stagione, nell’albergo dove aveva soggiornato l’anno precedente. Bernard è in crisi sentimentale, lo comprendiamo nella pur vaga telefonata dell’incipit, prima dei titoli di testa; o forse addirittura i suoi turbamenti sono esistenziali ma, come detto, La donna del lago non è un testo che fa dell’essere esplicito e chiaro il suo biglietto da visita. Il motivo del suo ritorno nello stesso albergo diviene però evidente allorché vediamo le foto che il giovane aveva scattato alla cameriera Tilde, e che erano il pretesto per rivederla. La bella Tilde è, infatti, interpretata da una quanto mai radiosa Virna Lisi e, quindi, è ben comprensibile che Bernard abbia voglia di rivederla: ma, della cameriera, nessuna traccia. 

Il padrone dell’albergo, Enrico (uno strepitoso Salvo Randone), un uomo affabile ma ambiguo, non si sbottona; il fotografo del paese, Francesco (Piero Anchisi), un tipo dall’aspetto inquietante, accetta di collaborare, ma anche il suo comportamento non sembra del tutto limpido. Irma (Valentina Cortese), figlia di Enrico, si dimostra amichevole, ma qualche dubbio lo lascia; Mario (Philippe Leroy), suo fratello, incute invece un certo timore. Sua moglie Adriana (Pia Lindström), unitasi a lui per un matrimonio d’interesse, ne pare più che impaurita; anche il comportamento della donna, in ogni caso, aumenta l’impressione di disagio. Su tutto quanto grava un’atmosfera cupa e angosciante; Bazzoni e Rossellini, aiutati dalla potente ed evocativa musica di Renzo Rossellini –padre di Franco, uno dei registi– e dalla splendida fotografia in bianco e nero di Leonida Barboni, confezionano un piccolo gioiello di straniamento surreale. Le fasi oniriche, alimentate anche dalla malattia che coglie Bernarnd, che rimane più giorni febbricitante a letto, confonde le idee che già faticavano a farsi strada nelle poche informazioni in possesso degli spettatori. Abitualmente, il «giallo» funziona un po’ come la storia di Pollicino, con lo spettatore indotto a seguire la trama dagli indizi che hanno la funzione dei sassolini bianchi lasciati dal protagonista dalla fiaba di Perrault. 

In questo caso, gli autori fanno una vera e propria scommessa: perché, seppur musica, fotografia e anche alcuni dettagli della trama, abbiano un forte traino, lo spaesamento causato dalla mancanza di un apparente filo logico negli avvenimenti rimane la sensazione predominante. Nel finale, il colpo di scena non ha la funzione di sorprendere lo spettatore ma di enfatizzarne lo sbigottimento: il «male» non ha origini esterne, ma interne alla famiglia, non è legato alla tipica violenza individuale, che abitualmente si manifesta nei maschi della specie umana, e neppure trae la sua forza dalla sfera sessuale, almeno non quella esplicita, che in genere ne è una delle prime cause. Nella reale vicenda dei «misteri di Alleghe», il denaro e i possedimenti, erano stati la causa scatenante e, in seguito, la pretesa di impunità, di chi si riteneva superiore alla Legge, era stato l’additivo che aveva sostenuto la catena di delitti. Nel film di Bazzoni e Rossellini, gli agenti sono una malata idea di famiglia e della sua rispettabilità in seno alla comunità, sebbene la questione economica, con l’arrivismo di Tilde come miccia di innesco, è comunque uno degli elementi sul tavolo. Un cambio di prospettiva legittimo, come qualsiasi scelta autoriale, sia chiaro. Nella vicenda originale, perlomeno per la versione conosciuta grazie al citato libro di Saviane, il Fascismo, con la connessa idea di impunità per i suoi rappresentanti più illustri, era uno dei fattori principali. 

Il che, naturalmente, si innestava sul concetto di società tradizionale patriarcale tipico del nostro paese di cui, del resto, il Fascismo stesso era un prodotto ideologico. La donna del lago è un film del 1965, influenzato, forse, dal Gotico nostrano, un «genere» che provava a dare al versione italiana dei tipici racconti gialli di stampo britannico. La figura di Irma –la cui follia è solo un’attenuante narrativa– metteva sotto accusa una donna giovane, una figlia; a rincarare la dose, seguendo questa chiave di lettura, era anche la figura di Tilde, idealizzata da Bernard e rivelatasi, in realtà, una persona avida e persino peggiore dei suoi due squallidi partner, Enrico e Mario.
Di lì a poco, anche in Italia, la protesta sessantottina porterà con sé le istanze rivoluzionarie del movimento femminista e la donna, nei successivi cinquanta e più anni, verrà indicata, da tutti, come la soluzione ad ogni problema di natura sociale. Al momento, siamo ancora intrisi da questa prospettiva, nonostante non manchino gli esempi che dimostrino come, in sostanza, non basti sostituire gli uomini di potere, o comunque collocati in ruoli decisivi, con donne per risolvere i problemi che attanagliano la società. A volte, viene addirittura il sospetto che, in questi casi, le cose siano persino peggiorate. Certo, La donna nel lago, con la sua vaghezza allucinate e onirica, non può essere preso come manifesto anticipatore di una eventuale pericolosa evoluzione sociale.
Ma come sogno premonitore forse sì.          




Virna Lisi 





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venerdì 1 marzo 2024

GIOCANDO A GOLF UNA MATTINA

1446_GIOCANDO A GOLF UNA MATTINA. Italia, 1969; Regia di Daniele D'Anza.

Per la televisione italiana, gli anni Sessanta segnarono l’affermazione del genere giallo, e lo si può facilmente dedurre dai palinsesti della Rai dell’epoca, zeppi di questo tipo di programmi. Non solo televisivi, visto che, ad esempio, Francis Durbridge, famoso giallista britannico, vide le sue opere tornare ad essere adattate dall’emettente di stato radiofonica. Alla Radio nazionale erano già state trasmesse ben quattro opere di Durbridge, tra il 1953 e il 1961; poi, idealmente, il testimone era passato alla televisione, che aveva tradotto per lo schermo La sciarpa (1961, di Guglielmo Morandi), Paura per Janet (1963, di Daniele D’Anza) fino al clamoroso successo di Melissa (1966, ancora di D’Anza). Durbridge era un autore particolarmente adatto per la prosa televisiva e radiofonica, d’altra parte pare che lui stesso si vedesse più come sceneggiatore e autore di dialoghi piuttosto che romanziere. Il successo avuto da Melissa anche in Italia, che confermava e rilanciava i positivi riscontri del pubblico precedenti, indusse la Rai a mettere in cantiere un nuovo sceneggiato. Era ormai il 1969; nel tempo trascorso, come detto, l’opera di Durbridge tornò ad essere saccheggiata dalla Radio, con Margò, una nuova avventura del suo personaggio, l’investigatore Paul Temple, e La Boutique, scritto appositamente per la trasmissione radiofonica. La Rai aveva ormai dimestichezza con l’autore britannico, unita ad una discreta intraprendenza nell’adattare le sue opere per il nostro paese. Alla traduzione fu chiamata ancora Franca Cancogni, che, stando all’indispensabile analisi di A. Scaglioni sul sito Vicolo Stretto, intervenne, insieme ai suoi collaboratori, rimpinguando la trama originale per riempire le sei puntate stabilite dai vertici Rai. Già con Melissa, l’opera di Cancogni e D’Anza era stata evidente, dal momento che il carattere del personaggio protagonista, Guy Foster, era stato reso assai più sanguigno al fine di sfruttare al meglio le qualità di Rossano Brazzi. A titolo esplicativo, tornando al nuovo adattamento di Durbridge, basti citare come l’originale A game of murder venne trasformato nel più insolito e intrigante, Giocando a golf, una mattina. La volontà di sorprendere lo spettatore si nota anche da questi dettagli, come ad esempio nella scelta di evitare i titoli di testa, sostituiti da una voce narrante che si ricollega, forse, al mezzo radiofonico che, almeno in Italia, faceva da staffetta con la TV nel proporre al pubblico le opere del giallista inglese. 

Del resto questa era probabilmente la più importante cifra stilistica di Durbridge che, nell’orchestrare le sue trame, era particolarmente attento a mantenere costantemente alta l’attenzione e la curiosità del fruitore –lettore, spettatore o ascoltatore che fosse. La capacità di generare attesa per la rivelazione finale, per la soluzione del giallo, è la quint’essenza dell’opera dello scrittore inglese ma questo, per una sua traduzione nel nostro paese, faceva sorgere alcuni problemi. L’Italia non era mai stata, fino ad allora, particolarmente avvezza ad avere a che fare con la narrativa gialla, prova ne sia un rapido confronto tra la nostra produzione letteraria nello specifico e quella britannica, tanto per capirci. A storici capisaldi come Arthur Conan Doyle, Edgar Wallace o Agata Christie, noi non abbiamo nulla da contrapporre. Il pubblico italiano era quindi sì entusiasta, di fronte a questo nuovo gioco narrativo, la scoperta del colpevole, ma forse non era ancora in grado di resistere alla tentazione di scoprire in anticipo come andava a finire la storia. In uno sceneggiato di sei puntate, questo problema era amplificato nel tempo dalla opportunità che le riviste di spettacolo potevano offrire, rivelando la soluzione del mistero prima del tempo. Il problema principale, per D’Anza e company, divenne quindi evitare le fughe di notizie, e questo era già stato un tema affrontato con la riduzione televisiva di Melissa

Per Giocando a golf, una mattina, il lavoro di depistaggio degli autori italiani fu addirittura superiore: vennero cambiati nomi ai personaggi e gradi di parentela, girando tre finali diversi con differenti colpevoli, sempre allo scopo di conservare il segreto sulla vera identità dell’assassino. Queste, che possono sembrare mere curiosità, sono invece elementi che ci rivelano la vera natura dei gialli di Durbridge: se in una storia investigativa, arrivati al finale, è possibile sostenere la colpevolezza di più di uno dei personaggi, significa che l’autore ha costruito un meccanismo aperto a più soluzioni. Il che significa che la soluzione in sé stessa, l’identità del colpevole o dei colpevoli, non è un elemento così cruciale; ma questo entra, apparentemente in conflitto con la natura stessa del racconto, che verte appunto sulla soluzione del giallo. Lo scopo dei misteri di Durbridge è la ricerca del colpevole, salvo apprendere quindi che la cosa, in sé stessa, non è così importante. In effetti, rispetto alle trame gialle rigorose, dove tutti i dettagli erano forniti al lettore, seppur opportunamente dissimulate, qui è la complessità dell’intreccio e le continue svolte del racconto a tenere sulla corda. Seppure non ci sono –forse– clamorose falle nella costruzione dell’architettura dei gialli a là Durbridge questi, con le loro multiple possibilità alternative di soluzione, spalancheranno forse la porta, in un certo senso, ad un ulteriore passo in questa direzione. Chissà, magari anche queste opere avranno un ruolo, nelle scelte autoriali di Dario Argento e degli autori del genere thriller all’italiana. Appurato che il rigore non era un ingrediente indispensabile nelle storie investigative, gli autori italiani di quelli che a livello internazionale saranno noti come gialli, si svincoleranno spesso da ogni plausibilità dell’intreccio in senso stretto, dando unicamente importanza alla loro folgorante visionarietà. Tornando a Giocando a golf, una mattina, qui tutti gli sforzi degli autori, da Durbirdge a D’Anza, sono concentrati sul mantenere sulle spine gli spettatori. Cosa che avviene in modo egregio anche per merito del cast, di primissimo livello. 

Il bravissimo Luigi Vannucchi è Jack Kirby, investigatore appena trasferitosi a Scotland Yard, a Londra, da Birmingham. Appena giunto in città, l’amico Ed Royce (Aroldo Tieri, lo specialista nei gialli di Durbridge per antonomasia), anch’egli ispettore, gli combina uno scherzo, fingendo di farlo arrestare dai suoi uomini accorsi alla stazione a riceverlo. E’ poco più che una gag ma, nell’economia del racconto, sembra avere un significato: Kirby, in effetti, finirà per essere sospettato davvero, mentre con il suo impermeabile in pelle nera e il suo atteggiamento a volte sospetto, Royce sarà uno dei papabili colpevoli fino alla fine. Come detto, l’incipit non contiene elementi decisivi alla soluzione ma, semmai, ad alimentare eventuali possibilità, poi, nel caso, disattese senza alcun patema. Tra i personaggi che pullulano il racconto, una nota di merito va indiscutibilmente al Norman Brook interpretato in maniera eccellente da un Mario Carotenuto in gran spolvero. Benissimo, poi, anche le attrici, a partire da una Luisella Boni nel ruolo della misteriosa Key Richardson, perfettamente calata nello stile british che intinge il racconto e le scenografie dello sceneggiato. La Swingin London degli anni Sessanta è ricreata, per la verità, con qualche difficoltà per quel che riguarda gli interni, mentre negli esterni la troupe della Rai si era recata anche questa volta sul posto, nella capitale britannica. Tuttavia proprio la bellezza snella ed elegante delle interpreti, oltre alla Boni vanno ricordate almeno Giuliana Lojodice e Marina Berti, conferisce alla vicenda quel tipico british style che impazzava al tempo. Il giallo alla base del racconto parte da un pretesto un po’ assurdo, il fratello di Kirby ucciso da una pallina da golf, ma si aggancia poi al filone dello spionaggio industriale, al tempo un tema abbastanza comune. In linea con il classico racconto di Durbridge: la capacità di irretire senza, sostanzialmente, aggiungere niente di quanto non sia già noto. Hai detto niente. 


Luisella Boni 



Marina Berti 




Giuliana Lojodice





Mariolina Bovo 


Pina Cei 


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